SOFFIO
I
Certe
notizie sopravvengono così inattese che si resta lì per lì sbalorditi,
e dallo sbalordimento pare non si trovi piú modo a uscire se non
ricorrendo a una delle frasi piú fruste o delle considerazioni piú
ovvie.
Per esempio, quando
il giovane Calvetti, segretario del mio amico Bernabò, m'annunziò la
morte improvvisa del padre del Massari, da cui poco prima Bernabò e io
eravamo stati a colazione, mi venne d'esclamare: «Ah la vita cos'è!
Basta un soffio a portarsela via»; e congiunsi il pollice e l'indice
d'una mano per soffiarci su, come a far volare una piuma che tenessi tra
quelle due dita.
Vidi, a quel soffio,
il giovane Calvetti farsi brusco in volto, poi piegare il busto e portarsi
una mano al petto, come quando s'avverte dentro, e non si sa dove, un
malessere indefinito; ma non ne feci caso, parendomi assurdo ammettere che
quel malessere potesse dipendere dalla stupida frase che avevo detta e dal
ridicolo gesto con cui, non contento d'averla detta, avevo anche voluto
accompagnarla; pensai a qualche fitta o puntura ch'egli avesse avvertito,
forse al fegato o al rene o agl'intestini, momentanea a ogni modo e
senz'alcuna gravità. Senonché: prima di sera, mi piombò in casa
costernatissimo Bernabò:
- Sai che m'è morto
Calvetti?
- Morto?
- All'improvviso,
nel pomeriggio.
- Ma se nel
pomeriggio era qua da me! Aspetta, che ora poteva essere? Saranno state le
tre.
- E alle tre e mezzo
è morto!
- Mezz'ora dopo?
- Mezz'ora dopo. -
Lo guardai male,
come se con quella conferma intendesse stabilire una relazione (ma quale?)
tra la visita a me e la morte repentina del povero giovine. Ebbi come un
impeto dentro, che mi forzò a respingere subito quella relazione, foss'anche
fortuita, come un sospetto di rimorso che me ne potessi fare; e a trovare
a quella morte una ragione estranea alla visita; e dissi al Bernabò
dell'avvertimento improvviso del malessere che il giovine aveva avuto
mentr'era ancora con me.
- Ah sì? Un
malessere?
- La vita cos'è!
Basta un soffio a portarsela via. -
Ecco, ripetevo
meccanicamente la frase perché, sotto sotto, il pollice e l'indice della
mia mano destra s'eran toccati da sé, e da sé ora la mano, senza parere,
mi si levava fino all'altezza delle labbra. Giuro che non fu tanto con la
coscienza di darmi una riprova quanto piuttosto di fare a me stesso uno
scherzo che solo così di nascosto, per non parer ridicolo, potevo fare:
trovandomi quelle due dita davanti alla bocca, ci soffiai su, appena
appena.
Bernabò era
alterato in volto per la morte di quel suo giovane segretario a cui era
molto affezionato; e tante volte, dopo aver corso o soltanto affrettato un
po' il passo, corpulento, sanguigno e quasi senza collo, m'era venuto
avanti ansimando e s'era anche portata la mano al petto per calmare il
cuore e riprender fiato ora, vedendogli fare quello stesso gesto e
udendogli dire che si sentiva soffocare e occupar la mente e la vista come
da una strana tenebra, che cosa, in nome di Dio, dovevo credere?
Sull'istante, pur
tutto smarrito e stravolto com'ero, mi gettai a soccorrere il povero amico
piombato riverso e boccheggiante su una poltrona. Ma mi vidi respinto
furiosamente; e allora finii per non comprendere proprio piú nulla; mi
sentii come gelare in una attonita apatia, e stetti a vederlo sussultare
su quella poltrona di velluto rosso, che mi parve tutta di sangue,
sussultare non piú come un uomo ma come una bestia ferita, e smaniare il
respiro, e diventare sempre piú pavonazzo, quasi nero. Faceva leva con un
piede sul tappeto, forse per rizzarsi da sé, ma si sfiniva in quello
sforzo; come nell'incubo di un sogno, vedevo il tappeto scivolargli sotto,
arricciandosi. Sull'altra gamba, storta sul bracciuolo della poltrona, il
calzone tirato gli aveva scoperto la giarrettiera di seta, d'un color
verdolino a righino rosa. Domando un po' di considerazione per la mia
carità: tutta la mia inquietudine era come schiantata e sparsa qua e là,
tanto che poteva come niente dimenticarsi, a un volger d'occhi, o nel
fastidio che avevo sempre avuto dei miei brutti quadri appesi alle pareti,
o anche nella curiosità che mi tratteneva lo sguardo, ecco, sul colore e
le righino di quella giarrettiera. Tutt'a un tratto però mi ripresi,
inorridito di essermi potuto in tal momento alienare fino a tanto, e urlai
al mio cameriere che volasse a fermare davanti alla porta una vettura, e
poi su ad ajutarmi a trasportare l’agonizzante a un ospedale o a casa.
Preferii a casa,
perché piú vicino. Non abitava solo; aveva con sé una sorella, maggiore
di lui, non so se vedova o vecchia zitella, insoffribile per la
puntigliosa meticolosità con cui lo governava. Allibita, la poverina, con
le mani nei capelli: «Oh Dio, che è stato? com'è stato?», e non voleva
levarcisi dai piedi, che rabbia! per sapere da me che era stato, com'era
stato, proprio da me e proprio in quel momento che non ne potevo piú, con
tutte le scale che avevo fatte, salendo all'indietro, col peso enorme
sulle braccia di quel corpo abbandonato. «Il letto! il letto!». Pareva
non lo sapesse piú nemmeno lei, dove fosse il letto, a cui mi sembrò non
s'arrivasse mai. Depostolo rantolante (ma rantolavo anch'io) mi buttai con
le spalle, rifinito, a ridosso a una parete, e se non erano pronti a
raccogliermi su una seggiola, cadevo giú tutto in un fascio sul
pavimento. Col capo ciondolante, potei dire tuttavia al cameriere: «Un
medico! un medico!»; ma mi ricaddero le braccia al pensiero che ora
restavo solo con la sorella, che certo m'avrebbe aggredito con altre
domande. Mi salvò il silenzio che d'improvviso si fece sul letto, cessato
il rantolo. Parve, per un attimo, silenzio di tutto il mondo, per il
povero Bernabò rimasto lì sordo e inerte su quel letto. Subito si
levarono le disperazioni della sorella. Ero annichilito. Come immaginare,
non dico credere, che una tale enormità fosse possibile? Le mie idee non
potevano piú pigliar sesto. E in quello sconvolgimento mi pareva tanto
curioso che quella poverina, suo fratello Giulio, come lo aveva sempre
chiamato, ora ch'era lì morto, corpulenza immobile che non consentiva
diminutivi, lo chiamasse proprio Giulietto! Giulietto! A un certo punto,
scattai in piedi, esterrefatto. Il cadavere, come si fosse avuto a male di
quel Giulietto! Giulietto! aveva risposto con un orribile brontolio dello
stomaco. Toccò a me questa volta parar la sorella, che sarebbe cascata
indietro a terra, svenuta dal terrore; mi svenne invece tra le braccia; e
allora, tra lei svenuta e quel morto sul letto, senza piú saper che fare
né che pensare, mi sentii preso in un vortice di pazzia e cominciai a
scrollare quella poverina, perché la finisse con quello svenimento ch'era
proprio di piú. Senonché, rinvenuta, non volle piú credere che il
fratello fosse morto. «Ha sentito? Non dov'esser morto! Non può essere
morto!» Bisognò venisse il medico ad accertarlo e ad assicurarla che
quel brontolio non era stato nulla, un po' di vento o non so che altro,
che quasi tutti i morti sogliono fare. Allora lei, ch'era linda e ci
teneva, fece un viso angustiato e si parò gli occhi con la mano, come se
il medico le avesse detto che anche lei da morta lo avrebbe fatto.
Era quel medico uno
di quei giovani calvi che portano quasi con dispettosa fierezza la loro
precoce calvizie tra la violenza d'una selva di riccioli neri che, non si
sa perché scomparsi dal sommo del capo, gremiscono poi tutt'intorno la
testa. Con gli occhi di smalto armati da forti lenti da miope, alto,
piuttosto grasso ma vigoroso, due cespuglietti di peli mozzati sotto il
naso piccolo, le labbra tumide, accese e così ben segnate da parer
dipinte, guardava con tal derisoria commiserazione l'ignoranza di quella
povera sorella e parlava della morte con così disinvolta familiarità,
quasi che avendo da fare di continuo con essa nessuno dei suoi casi gli
potesse esser dubbio od oscuro, che alla fine un ghigno di scherno mi
proruppe dalla gola irresistibilmente. Già mentre parlava, m'ero scorto
per caso allo specchio dell'armadio e m'ero sorpreso con uno sguardo
storto e freddo che subito m'era rientrato negli occhi strisciando come
una serpe. E il pollice e l'indice della mia destra si premevano, si
premevano così fortemente l'un contro l'altro, ch'eran come insorditi
dallo spasimo della reciproca pressione. Appena egli a quel mio ghigno si
voltò, gli mossi incontro, a petto, e, con la bocca atteggiata ancora di
scherno nel pallore che mi aveva inteschiato il volto, gli sibilai: «Guardi»,
e gli mostrai le dita, «così! Lei che la sa così lunga sulla vita e la
morte: ci soffi su, e veda se le riesce di farmi morire!». Si tirò
indietro per squadrarmi, se non aveva da far con un pazzo. Ma io gli andai
a petto di nuovo: «Basta un soffio, creda! basta un soffio!». Lasciai
lui e afferrai per un polso la sorella. «Lo faccia lei! Ecco, così!», e
le portai la mano alla bocca, «congiunga due dita e ci soffi su!». La
poverina, con gli occhi sbarrati, atterrita tremava tutta: mentre il
medico, senza piú pensare che lì sul letto c'era un morto, sghignazzava,
divertito. «Non lo faccio piú io, su voi, perché già lì ce n'è uno,
e due con Calvetti per oggi! Ma bisogna che me ne scappi, me ne scappi
subito, me ne scappi!»
E me ne scappai,
davvero come un pazzo. Appena sulla via, la pazzia si scatenò. S'era già
fatto sera, e la via era affollatissima. Sobbalzavano dall'ombra tutte le
case ai lumi che s'accendevano, la gente correva per ripararsi la faccia
dai guizzi di luce di tanti colori che l'assaltavano da ogni parte,
fanali, riverberi di vetrine, insegne luminose, in un subbuglio assillato
da oscuri sospetti. Benché no: ecco là, al contrario, una faccia di
donna che s'allargava di contentezza al riflesso d'una luce rossa; e là
quella d'un bimbo che rideva, tenuto alto sulle braccia da un vecchio,
davanti allo specchio d'uno sporto di bottega che ruscellava d'un getto
continuo di gocce smeraldine. Fendevo la calca e con le due dita davanti
alla bocca soffiavo, soffiavo su tutte quelle facce sfuggenti, senza
scelta e senza voltarmi indietro ad accertarmi se davvero quei miei soffi
producevano l'effetto già due volte sperimentato. Se lo producevano, chi
avrebbe potuto attribuirlo a me? Non ero padrone di tenere quelle due dita
davanti alla bocca e di soffiarci su per un mio innocente piacere? Chi
poteva credere sul serio che un potere così inaudito e terribile mi fosse
venuto in quelle due dita e nel soffio che emettevo appena su esse? Era
ridicolo ammetterlo e poteva passare soltanto come uno scherzo puerile. Io
scherzavo, ecco. E mi s'era già insugherita in bocca la lingua a furia di
soffiare, e non avevo quasi piú fiato tra le labbra appuntite, arrivato
in fondo alla via. Se ciò che avevo sperimentato due volte era vero, eh
perdio, dovevo avere ucciso, così scherzando scherzando, piú d'un
migliajo di persone. Non era possibile che il giorno dopo non si venisse a
sapere, con terrore di tutta la città, di quella mortalità improvvisa e
misteriosa.
Si venne difatti a
sapere. Tutti i giornali, la mattina dopo, ne furono pieni. La città si
svegliò sotto l'incubo tremendo d'una epidemia senza scampo scoppiata
fulmineamente. Novecento sedici morti in una sola notte. Nel cimitero non
si sapeva come riparare a seppellirli; non si sapeva come riparare a
portarli via tutti dalle case. Sintomi comuni accertati dai medici in
tutti i colpiti, dapprima l'avvertimento d'un malessere indefinito, poi la
soffocazione. Dall'autopsia dei cadaveri, nessun indizio del male che
aveva cagionato la morte quasi istantanea.
Restai, leggendo
quei giornali, in preda a uno sgomento ch'era come lo sconcerto d'una
orribile ubriachezza, confusione d'aspetti indistinti che s'avventavano,
si sbattevano aggirati nel volume d'una nuvola che m'avvolgeva vorticosa;
e un'ansia inesplicabile, un fremito pungente che urtava, urgeva contro
qualcosa dentro che mi restava nero e immobile e a cui la mia coscienza,
attratta ma tutta irta e in procinto di sbandarsi da ogni parte, si
rifiutava d'accostarsi, toccava e subito se ne distaccava. Non so
propriamente che cosa volessi esprimere, strizzandomi con una mano
convulsa la fronte e ripetendo: «È un'impressione! è un'impressione!».
Fatto si è che la parola, pur così vuota, m'ajutò a squarciare d'un
lampo quella nuvola, e mi sentii per un momento sollevato, liberato. «Dev'esser
tutta pazzia», pensai, «che m'è entrata nel capo per essermi trovato
jeri a far quel gesto ridicolo e puerile prima che la calamità si
dichiarasse di quest'epidemia piombata così di colpo sulla città.
Sogliono spesso nascere da siffatte coincidenze le piú sciocche
superstizioni e le fissazioni piú incredibili. Del resto, per liberarmene
non ho che da aspettar qualche giorno senza piú ripetere lo scherzo di
questo gesto. Se è epidemia, come certo dov'essere questa spaventosa
mortalità deve seguitare e non cessar così di colpo come è cominciata.»
Bene; aspettai tre
giorni, cinque giorni, una settimana, due settimane: nessun nuovo caso fu
segnalato dai giornali: l'epidemia era di colpo cessata.
Eh, ma pazzo no,
domando scusa, nella ossessione di un simile dubbio, ch'io potessi esser
pazzo, non potevo restare; pazzo, d'una pazzia che, a dichiararla, avrebbe
fatto scoppiare chiunque dalle risa, no, via. Da una tale ossessione
bisognava pur che mi levassi al piú presto. E come? Rimettendomi a
soffiar sulle dita? Si trattava di vite umane. Bisognava che fossi anche
convinto che il mio atto era per se stesso innocente, da bambino, e che se
gli altri ne morivano, non era colpa mia. Avrei sempre potuto credere a
una ripresa della epidemia, dopo quella pausa di quindici giorni, poiché
fino all'ultimo dovevo ritenere incredibile che la morte potesse dipendere
da me. Ma intanto la tentazione diabolica d'acquistare una simile
certezza, ben piú terribile del dubbio che potessi esser pazzo, la
certezza di sapermi dotato d'un così inaudito potere: come resistere a
una tale tentazione?
II
Dovevo
concedermi di fare ancora una prova, ma timida e cautelosa; una prova
quanto piú fosse possibile «giusta». La morte, si sa, non è giusta.
Quella che dipendeva da me (se dipendeva da me) doveva esser giusta.
Conoscevo una cara
bambina che, mentre giocava con le sue bambole, uscendo da un sogno per
entrare in un altro, tutti diversi l'uno dall'altro, questo che la portava
a un villaggio sul monte e quello che la portava a una spiaggia di mare, e
poi dal mare a un paese lontano lontano, dov'era altra gente che parlava
una lingua tutt'altra dalla sua, alla fine da tutti quei sogni s'era
svegliata ancora bambina a vent'anni, ma proprio bambina bambina, con uno
accanto che, appena uscito dall'ultimo di quei sogni, si era subito
trasformato nella realtà di un omaccio straniero, in uno stangone alto
due metri, stupido, infingardo e vizioso; e tra le braccia, invece della
bambola, s'era trovato un povero esserino, che non si poteva dire un
mostriciattolo perché aveva pure un visino d'angelo malato, quando la
continua convulsione, a cui tutto il corpicciuolo era in preda, non gli
deformava anche quello, orribilmente. «Morbo di...», non so, il nome di
un medico straniero, inglese o americano, Pot mi pare seppur si scrive così
(cara gloria, dare a un morbo il proprio nome!), «morbo di Pot» in una
delle sue forme piú gravi e senza rimedio. Quel bimbo non avrebbe mai
parlato, mai camminato, né mai si sarebbe servito di quelle sue manine
scarnite e scontorte dalla violenza degli spasimi atroci. Avrebbe potuto
tirare così ancora per anni. Ne aveva tre? Forse fino a dieci. Eppure,
non pareva vero, tra le braccia di qualcuno che avesse imparato a reggerlo
bene come quello stangone del padre, appena poteva, in qualche momento di
tregua, il povero bimbo sorrideva d'un sorriso così beato in quel suo
visino d'angelo, che subito, cessato l'orrore per quei contorcimenti, la
più tenera compassione faceva sgorgare le lagrime dagli occhi di quanti
stavano a guardarlo. Pareva impossibile che solo i medici non capissero
che cosa chiedeva il bimbo con quel sorriso. Ma forse lo capivano, perché
avevano già dichiarato che certamente era uno del casi davanti a cui non
ci sarebbe stato da esitare, se la legge lo avesse permesso e ci fosse
stato il consenso dei parenti. La legge è legge, perché crudele può
essere, come spesso è, ma pietosa no, se non a costo di finire d'esser
legge.
Io dunque mi
presentai a quella madre.
La stanza dov'ella
m'accolse era invasa dall'ombra e si vedevano come lontane le due finestre
velate sul livido barlume dell'ultimo crepuscolo. Seduta sulla poltrona a
piè del lettino, la madre reggeva tra le braccia il bimbo convulso. Io mi
chinai su lui, senza dir nulla, con le dita davanti alla bocca. Il bimbo,
al mio soffio, sorrise e spirò. Come la madre, abituata alla continua
tensione spasmodica e guizzante di quel corpicciuolo, se lo sentì quasi
sciolto d'improvviso tra le braccia e molle, rattenne un grido, alzò il
capo a guardarmi, guardò il bimbo:
- Oh Dio, che gli
hai fatto?
- Niente, hai visto,
appena un soffio
- Ma è morto!
- Ora è beato. -
Glielo levai dalle
braccia e lo deposi così tutto sciolto e molle sul lettino, col suo
sorriso d'angelo ancora sulla boccuccia pallida.
- Tuo marito dov'è?
Di là? Ti libero anche di lui. Non ha piú ragione d'opprimerti. Ma poi
tu resta sempre a sognare, bambina. Vedi che si guadagna a uscire dai
sogni? -
Non ci fu bisogno
che andassi in cerca del marito. Si presentò, come un gigante sbalordito,
sulla soglia. Ma nell'esaltazione che mi dava la terribile certezza ormai
acquisita, io mi sentivo già smisuratamente cresciuto, molto piú alto di
lui. «La vita che cos'è! Guarda, basta un soffio, così, a portarsela
via!». E, soffiatogli sul viso, uscii da quella casa, ingigantito nella
sera.
Ero io, ero io; la
morte ero io; la avevo lì, nelle due dita e nel fiato; potevo far morire
tutti. Per esser giusto verso quelli che avevo fatto morire prima, non
dovevo ora far morire tutti? Non ci voleva nulla, purché mi fosse bastato
il fiato. Non l'avrei fatto per odio di nessuno; non conoscevo nessuno.
Come la morte. Un soffio, e via. Quanta umanità, prima di questa che ora
mi passava ombra davanti, era stata soffiata via? Ma potevo mai tutta
l'umanità? disabitare tutte le case? tutte le strade di tutte le Città?
e le campagne e i monti e i mari? disabitare tutta la terra? Non era
possibile. E allora no, non dovevo piú nessuno, piú nessuno. Dovevo
forse mozzarmi quelle due dita. Ma chi sa se non sarebbe bastato il solo
fiato. Dovevo provare? No, no: basta! Mi sentivo raccapricciare, al solo
pensiero, da capo a piedi. Forse bastava il soffio soltanto. Come
impedirmelo? Come vincere la tentazione? Una mano sulla bocca? Potevo
condannarmi a star sempre con una mano sulla bocca?
Così farneticando,
m'avvenne di passare davanti al portone dell'ospedale, spalancato.
Nell'androne, erano alcuni infermieri, lì di guardia per il pronto
soccorso, che conversavano con due questurini e col vecchio portinajo; e
sulla soglia, intento a guardar nella strada, sta va col lungo camice di
servizio e le mani sui fianchi quel giovane medico accorso al letto di
morte del povero Bernabò. Come mi vide passare, forse per i gesti che
facevo in quel mio farneticare, mi riconobbe e si mise a ridere. Non
l'avesse mai fatto! Mi fermai; gli gridai: «Non mi cimenti in questo
momento col suo sciocco sorriso! Sono io, sono io; l'ho qua», e gli
mostrai di nuovo le dita congiunte, «forse nel soffio soltanto! Ne vuoi
fare la prova davanti a questi signori?». Sorpresi e incuriositi,
gl'infermieri, i due questurini e il vecchio portinajo s'erano appressati.
Col sorriso rassegnato sulle labbra che parevano dipinte e senza levarsi
le mani dai fianchi, quello sciagurato non si contentò di pensarlo,
questa volta, osò dirmi, scrollando le spalle: «Ma lei è pazzo!». «Sono
pazzo?» incalzai. «L'epidemia è cessata da quindici giorni. Vuoi vedere
che la riattizzo e la faccio divampare in un momento, spaventosamente?».
«Soffiandosi sulle dita?». Le risa fragorose che seguirono a questa
domanda del dottore mi fecero vacillare. Avvertii che non avrei dovuto
lasciarmi prendere dalla irritazione per l'avvilimento del ridicolo che
quel mio gesto, appena fatto palese, inevitabilmente m'attirava. Nessuno,
fuor che io, poteva credere sul serio ai suoi terribili effetti. Ma
l'irritazione tuttavia mi vinse, come il bruciore d'un bottone di fuoco
sulla carne viva, sentendo quel ridicolo quasi un marchio di scherno che
la morte avesse voluto imprimermi concedendomi quell'incredibile potere.
S'aggiunse a questo, come una sferzata, la domanda del giovane medico: «Chi
le ha detto che l'epidemia è cessata?». Restai. Non era cessata? Mi
sentii avvampare di vergogna le guance. «I giornali» dissi «non han piú
segnalato alcun caso». «I giornali», ribatté quello, «ma non noi, qua
all'ospedale.. «Ancora casi». «Tre o quattro al giorno». «E lei è
sicuro che siano dello stesso male?». «Ma sì, caro signore,
sicurissimo. Così si riuscisse a veder chiaro nel male! Risparmi,
risparmi il suo fiato». Gli altri tornarono a ridere. «Sta bene», dissi
allora. «Se è così, io sono un pazzo e lei non avrà paura a offrirmene
una prova. S'assume la responsabilità anche per questi altri cinque
signori?». Il giovane medico, di fronte alla mia sfida, restò un momento
perplesso; ma poi il sorriso gli ritornò sulle labbra: si volse a quei
cinque: «Avete inteso? il signore presume che gli basta soffiarsi appena
sulle dita per farci morire tutti quanti. Ci state? Io ci sto». Quelli
esclamarono a coro, sghignazzando: «Ma sì, soffi, soffi, ci stiamo anche
noi, eccoci qua!». E mi si misero tutt'e sei in fila davanti, coi volti
protesi. Pareva una scena di teatro in quell'androne d'ospedale, sotto la
lanterna rossa dei pronto soccorso. Erano certi d'aver da fare con un
pazzo. Ormai non potevo piú tirarmi indietro. «È l'epidemia, caso mai,
non sono io, eh?». E per esser piú sicuro, congiunsi come al solito le
due dita davanti alla bocca. Al soffio, tutt'e sei, uno dopo l'altro,
s'alterarono in viso; tutt'e sei si piegarono sul busto; tutt'e sei si
portarono una mano al petto, guardandosi l'un l'altro negli occhi
infoscati. Poi uno dei questurini mi saltò addosso, attanagliandomi il
polso; ma subito si sentì soffocare, mancar le gambe, mi cadde ai piedi
come a implorarmi ajuto. Gli altri, chi vagellava, chi annaspava con le
braccia, chi era restato con gli occhi sbarrati e la bocca aperta.
Istintivamente, col braccio libero feci per parare il giovane medico che
s'abbatteva su me; ma anche lui, come già Bernabò, mi respinse
furiosamente, e traboccò a terra con un gran tonfo. Una frotta di gente,
che a mano a mano diventava folla, s'era intanto raccolta davanti al
portone. I curiosi, di fuori, spingevano, mentre gli sgomenti rinculavano
dalla soglia e pigiavano in mezzo agli ansiosi che volevano vedere che
cosa stesse accadendo in quell'androne. Lo domandavano a me, come a uno
che lo dovesse sapere, forse perché il mio volto non esprimeva né la
curiosità, né l'ansia, né lo sgomento che erano in loro. Che aspetto
avessi, non potrei dirlo; mi sentivo in quel momento come uno sperduto,
d'improvviso assaltato da una muta di cani. Non vedevo altro scampo che
nel mio gesto puerile. Dovevo aver negli occhi una espressione di paura e
insieme di pietà per quei sei caduti e per tutti coloro che mi stavano
intorno; fors'anche sorridevo dicendo a questo e a quello nel farmi largo:
«Basta un soffio... così... così»; mentre da terra il giovane medico,
testardo sino alla fine, gridava contorcendosi: «L'epidemia! L'epidemia!».
Fu una fuga generale; e io mi vidi ancora per poco in mezzo a tutta quella
gente che correva spaventata e all'impazzata, andare, io solo, a passo, ma
come un ubriaco che parlasse tra sé, dolce e appenato; finché mi trovai,
non so come, innanzi a uno specchio di bottega, sempre con quelle due dita
davanti alla bocca e nell'atto di soffiare «...così... così...», forse
per dare una prova dell'innocenza di quell'atto, mostrando che, ecco, lo
facevo anche su di me, nel solo modo che mi fosse possibile. M'intravidi
per un attimo appena in quello specchio, con occhi che io stesso non
sapevo piú come guardarmeli, così cavati dentro Com'erano nella faccia
da morto; poi, come se il vuoto mi avesse inghiottito, o colto una
vertigine, non mi vidi piú; toccai lo specchio, era lì, davanti a me, lo
vedevo e io non c'ero; mi toccai, la testa, il busto, le braccia; mi
sentivo sotto le mani il corpo, ma non me lo vedevo piú e neanche le mani
con cui me lo toccavo; eppure non ero cieco; vedevo tutto, la strada, la
gente, le case, lo specchio; ecco, lo ritoccavo, m'appressavo a cercarmi
in esso; non c'ero, non c'era nemmeno la mano che pur sentiva sotto le
dita il freddo della lastra; un impeto mi prese, frenetico, di cacciarmi
in quello specchio in cerca della mia immagine soffiata via, sparita; e
mentre stavo così contro la lastra, uno, uscendo dalla bottega, m'investì
e subito lo vidi balzare indietro inorridito e con la bocca aperta a un
grido da pazzo che non gli usciva dalla gola: s'era imbattuto in qualcuno
che doveva esser lì, e non c'era, non c'era nessuno: insorse in me allora
prepotente il bisogno d'affermare che c'ero; parlai come nell'aria; gli
soffiai nel volto: «L'epidemia!» e con una manata in petto lo abbattei.
Intanto la via, messa in subbuglio da coloro che prima erano fuggiti e che
ora, con visi da spiritati, tornavano indietro, certo concitando tutti in
cerca di me, s'empiva di gente che da ogni parte rampollava,
strabocchevole, come un fumo denso di facce cangianti che mi soffocava,
vaporandosi quasi nel delirio d'un sogno spaventoso; ma pur pigiato tra
quella calca, potevo andare, aprirmi un solco col soffio sulle mie dita
invisibili. «L'epidemia! l'epidemia». Non ero piú io; ora finalmente lo
capivo: ero l'epidemia, e tutte larve, ecco, tutte larve le vite umane che
un soffio portava via. Quanto durò quell'incubo? Tutta la notte e parte
del giorno appresso stentai a uscire da quella calca, e liberato alla fine
anche dallo stretto delle case della città orrenda, mi sentii nell'aria
della campagna aria anch'io. Tutto era dorato dal sole; non avevo corpo,
non avevo ombra; il verde era così fresco e nuovo che pareva spuntato or
ora dal mio estremo bisogno d'un refrigerio, ed era così mio, che mi
sentivo toccare in ogni filo d'erba mosso dall'urto d'un insetto che
veniva a posarsi; mi provavo a volare col volo quasi di carta, distaccato,
di due farfalle bianche in amore; e come se veramente ora fosse uno
scherzo, ecco, un soffio e via, e le ali distaccate di quelle farfalle
cadevano lievi nell'aria come pezzi di carta; piú là, su un sedile
guardato da oleandri, sedeva una giovinetta vestita d'un abito di velo
celeste, con un gran cappello di paglia guarnito di roselline; batteva le
ciglia; pensava, sorridendo d'un sorriso che me la rendeva lontana come
un'immagine della mia giovinezza; forse non era altro veramente che una
immagine rimasta lì della vita, sola ormai sulla terra. Un soffio e via!
Intenerito fino all'angoscia da tanta dolcezza, rimanevo lì invisibile,
con le mani afferrate e trattenendo il respiro, a mirarla da lontano; e il
mio sguardo era l'aria stessa che la carezzava senza che lei se ne
sentisse toccare.
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