CANTA
L'EPISTOLA
- Avevate preso gli Ordini?
- Tutti no. Fino al
Suddiaconato.
- Ah, suddiacono. E
che fa il suddiacono?
- Canta l'Epistola;
regge il libro al diacono mentre canta il Vangelo; amministra i vasi della
Messa; tiene la patena avvolta nel velo in tempo del Canone.
- Ah, dunque voi
cantavate il Vangelo?
- Nossignore. Il
Vangelo lo canta il diacono; il suddiacono canta l'Epistola.
- E voi allora
cantavate l'Epistola?
- Io? proprio io?
Il suddiacono.
- Canta l'Epistola?
- Canta l'Epistola.
Che c'era da ridere
in tutto questo?
Eppure, nella
piazza aerea del paese, tutta frusciante di foglie secche, che s'oscurava
e rischiarava a una rapida vicenda di nuvole e di sole, il vecchio dottor
Fanti, rivolgendo quelle domande a Tommasino Unzio uscito or ora dal
seminario senza più tonaca per aver perduto la fede, aveva composto la
faccia caprigna a una tale aria, che tutti gli sfaccendati del paese,
seduti in giro innanzi alla Farmacia dell'Ospedale, parte
storcendosi e parte turandosi la bocca, s'erano tenuti a stento di ridere.
Le risa erano
prorotte squacquerate, appena andato via Tommasino inseguito da tutte
quelle foglie secche, poi l'uno aveva preso a domandare all'altro:
- Canta l'Epistola?
E l'altro a
rispondere:
- Canta l'Epistola.
E così a Tommasino
Unzio, uscito suddiacono dal seminario senza più tonaca, per aver perduto
la fede, era stato appiccicato il nomignolo di Canta l'Epistola.
La fede si può perdere per centomila ragioni; e, in generale, chi perde
la fede è convinto, almeno nel primo momento, di aver fatto in cambio
qualche guadagno; non foss'altro, quello della libertà di fare e dire
certe cose che, prima, con la fede non riteneva compatibili.
Quando però
cagione della perdita non sia la violenza di appetiti terreni, ma sete
d'anima che non riesca più a saziarsi nel calice dell'altare e nel fonte
dell'acqua benedetta, difficilmente chi perde la fede è convinto d'aver
guadagnato in cambio qualche cosa. Tutt'al più, lì per lì, non si lagna
della perdita, in quanto riconosce d'aver perduto in fine una cosa che non
aveva più per lui alcun valore.
Tommasino Anzio,
con la fede, aveva poi perduto tutto, anche l'unico stato che il padre gli
potesse dare, mercé un lascito condizionato d'un vecchio zio sacerdote.
Il padre, inoltre, non s'era tenuto di prenderlo a schiaffi, a calci, e di
lasciarlo parecchi giorni a pane e acqua, e di scagliargli in faccia ogni
sorta di ingiurie e di vituperii. Ma Tommasino aveva sopportato tutto con
dura e pallida fermezza, e aspettato che il padre si convincesse non esser
quelli propriamente i mezzi più acconci per fargli ritornar la fede e la
vocazione.
Non gli aveva fatto
tanto male la violenza, quanto la volgarità dell'atto così contrario
alla ragione per cui s'era spogliato dell'abito sacerdotale.
Ma d'altra parte
aveva compreso che le sue guance, le sue spalle, il suo stomaco dovevano
offrire uno sfogo al padre per il dolore che sentiva anche lui,
cocentissimo, della sua vita irreparabilmente crollata e rimasta come un
ingombro lì per casa.
Volle però
dimostrare a tutti che non s'era spretato per voglia di mettersi «a fare
il porco» come il padre pulitamente era andato sbandendo per tutto il
paese. Si chiuse in sé, e non uscì più dalla sua cameretta, se non per
qualche passeggiata solitaria o su per i boschi di castagni, fino al Pian
della Britta, o giù per la carraia a valle, tra i campi, fino alla
chiesetta abbandonata di Santa Maria di Loreto, sempre assorto in
meditazioni e senza mai alzar gli occhi in volto a nessuno.
È vero intanto che
il corpo, anche quando lo spirito si fissi in un dolore profondo o in una
tenace ostinazione ambiziosa, spesso lascia lo spirito così fissato e,
zitto zitto, senza dirgliene nulla, si mette a vivere per conto suo, a
godere della buon'aria e dei cibi sani.
Avvenne così a
Tommasino di ritrovarsi in breve e quasi per ischerno, mentre lo spirito
gli s'immalinconiva e s'assottigliava sempre più nelle disperate
meditazioni, con un corpo ben pasciuto e florido, da padre abate.
Altro che
Tommasino, adesso! Tommasone Canta l'Epistola. Ciascuno, a
guardarlo, avrebbe dato ragione al padre. Ma si sapeva in paese come il
povero giovine vivesse; e nessuna donna poteva dire d'essere stata
guardata da lui, fosse pur di sfuggita.
Non aver più
coscienza d'essere, come una pietra, come una pianta; non ricordarsi più
neanche del proprio nome; vivere per vivere, senza saper di vivere, come
le bestie, come le piante; senza più affetti, né desiderii, né memorie,
né pensieri, senza più nulla che désse senso e valore alla propria
vita. Ecco: sdrajato lì su l'erba, con le mani intrecciate dietro la
nuca, guardare nel cielo azzurro le bianche nuvole abbarbaglianti, gonfie
di sole; udire il vento che faceva nei castagni del bosco come un fragor
di mare, e nella voce di quel vento e in quel fragore sentire, come da
un'infinita lontananza, la vanità d'ogni cosa e il tedio angoscioso della
vita.
Nuvole e vento.
Eh, ma era già
tutto avvertire e riconoscere che quelle che veleggiavano luminose per la
sterminata azzurra vacuità erano nuvole. Sa forse d'essere la nuvola? Né
sapevan di lei l'albero e le pietre, che ignoravano anche se stessi.
E lui, avvertendo e
riconoscendo le nuvole, poteva anche - perché no? - pensare alla vicenda
dell'acqua, che divien nuvola per ridivenir poi acqua di nuovo. E a
spiegar questa vicenda bastava un povero professoruccio di fisica; ma a
spiegare il perché del perché?
Su nel bosco dei
castagni, picchi d'accetta; giù nella cava, picchi di piccone.
Mutilare la
montagna; atterrare gli alberi, per costruire case. Lì, in quel borgo
montano, altre case. Stenti, affanni, fatiche e pene d'ogni sorta, perché?
per arrivare a un comignolo e per fare uscir poi da questo comignolo un
po' di fumo, subito disperso nella vanità dello spazio.
E come quel fumo,
ogni pensiero, ogni memoria degli uomini.
Ma davanti
all'ampio spettacolo della natura, a quell'immenso piano verde di querci e
d'ulivi e di castagni, digradante dalle falde del Cimino fino alla valle
tiberina laggiù laggiù, sentiva a poco a poco rasserenarsi in una blanda
smemorata mestizia.
Tutte le illusioni
e tutti i disinganni e i dolori e le gioie e le speranze e i desiderii
degli uomini gli apparivano vani e transitorii di fronte al sentimento che
spirava dalle cose che restano e sopravanzano ad essi, impassibili. Quasi
vicende di nuvole gli apparivano nell'eternità della natura i singoli
fatti degli uomini. Bastava guardare quegli alti monti di là dalla valle
tiberina, lontani lontani, sfumanti all'orizzonte, lievi e quasi aerei nel
tramonto.
Oh ambizioni degli
uomini! Che grida di vittoria, perché l'uomo s'era messo a volare come un
uccellino! Ma ecco qua un uccellino come vola: è la facilità più
schietta e lieve, che s'accompagna spontanea a un trillo di gioia. Pensare
adesso al goffo apparecchio rombante, e allo sgomento, all'ansia,
all'angoscia mortale dell'uomo che vuoi fare l'uccellino! Qua un frullo e
un trillo; là un motore strepitoso e puzzolente, e la morte davanti. Il
motore si guasta, il motore s'arresta; addio uccellino!
- Uomo, - diceva
Tommasino Unzio lì sdraiato sull'erba, - lascia di volare. Perché vuoi
volare? E quando hai volato?
D'un tratto, come una raffica, corse per tutto il paese una notizia che
sbalordì tutti: Tommasino Unzio, Canta l'Epistola, era stato prima
schiaffeggiato e poi sfidato a duello dal tenente De Venera, comandante il
distaccamento, perché, senza voler dare alcuna spiegazione, aveva
confermato d'aver detto: - Stupida! - in faccia alla signorina Olga
Fanelli, fidanzata del tenente, la sera avanti, lungo la via di campagna
che conduce alla chiesetta di Santa Maria di Loreto.
Era uno
sbalordimento misto d'ilarità, che pareva s'appigliasse a
un'interrogazione su questo o quel dato della notizia, per non precipitare
di botto nell'incredulità.
- Tommasino? -
Sfidato a duello? - Stupida, alla signorina Fanelli? - Confermato? - Senza
spiegazioni? - E ha accettato la sfida?
- Eh, perdio,
schiaffeggiato!
- E si batterà?
- Domani, alla
pistola.
- Col tenente De
Venera alla pistola?
- Alla pistola.
E dunque il motivo
doveva esser gravissimo. Pareva a tutti non si potesse mettere in dubbio
una furiosa passione tenuta finora segreta. E forse le aveva gridato in
faccia «Stupida!» perché ella, invece di lui, amava il tenente De
Venera. Era chiaro! E veramente tutti in paese giudicavano che soltanto
una stupida si potesse innamorare di quel ridicolissimo De Venera. Ma non
lo poteva credere lui, naturalmente, il De Venera; e perciò aveva preteso
una spiegazione.
Dal canto suo, però,
la signorina Olga Fanelli giurava e spergiurava con le lagrime agli occhi
che non poteva esser quella la ragione dell'ingiuria, perché ella non
aveva veduto se non due o tre volte quel giovine, il quale del resto non
aveva mai neppure alzato gli occhi a guardarla; e mai e poi mai, neppure
per un minimo segno, le aveva dato a vedere di covar per lei quella
furiosa passione segreta, che tutti dicevano. Ma che! no! non quella:
qualche altra ragione doveva esserci sotto! Ma quale? Per niente non si
grida: - Stupida! - in faccia a una signorina.
Se tutti, e in
ispecie il padre e la madre, i due padrini, il De Venera e la signorina
stessa si struggevano di saper la vera ragione dell'ingiuria; più di
tutti si struggeva Tommasino di non poterla dire, sicuro com'era che, se
l'avesse detta, nessuno la avrebbe creduta, e che anzi a tutti sarebbe
sembrato che egli volesse aggiungere a un segreto inconfessabile
l'irrisione.
Chi avrebbe infatti
creduto che lui, Tommasino Unzio, da qualche tempo in qua, nella crescente
e sempre più profonda sua melanconia, si fosse preso d'una tenerissima
pietà per tutte le cose che nascono alla vita e vi durano alcun poco,
senza saper perché, in attesa del deperimento e della morte? Quanto più
labili e tenui e quasi inconsistenti le forme di vita, tanto più lo
intenerivano, fino alle lagrime talvolta. Oh! in quanti modi si nasceva, e
per una volta sola, e in quella data forma, unica, perché mai due forme
non erano uguali, e così per poco tempo, per un giorno solo talvolta, e
in un piccolissimo spazio, avendo tutt'intorno, ignoto, l'enorme mondo, la
vacuità enorme e impenetrabile del mistero dell'esistenza. Formichetta,
si nasceva, e moscerino, e filo d'erba. Una formichetta, nel mondo! nel
mondo, un moscerino, un filo d'erba. Il filo d'erba nasceva, cresceva,
fioriva, appassiva; e via per sempre; mai più, quello; mai più!
Ora, da circa un
mese, egli aveva seguito giorno per giorno la breve storia d'un filo
d'erba appunto: d'un filo d'erba tra due grigi macigni tigrati di mosco,
dietro la chiesetta abbandonata di Santa Maria di Loreto.
Lo aveva seguito,
quasi con tenerezza materna, nel crescer lento tra altri più bassi che
gli stavano attorno, e lo aveva veduto sorgere dapprima timido, nella sua
tremula esilità, oltre i due macigni ingrommati, quasi avesse paura e
insieme curiosità d'ammirar lo spettacolo che si spalancava sotto, della
verde, sconfinata pianura; poi, su, su, sempre più alto, ardito,
baldanzoso, con un pennacchietto rossigno in cima, come una cresta di
galletto.
E ogni giorno, per
una o due ore, contemplandolo e vivendone la vita, aveva con esso
tentennato a ogni più lieve alito d'aria; trepidando era accorso in
qualche giorno di forte vento, o per paura di non arrivare a tempo a
proteggerlo da una greggiola di capre, che ogni giorno, alla stess'ora,
passava dietro la chiesetta e spesso s'indugiava un po' a strappare tra i
macigni qualche ciuffo d'erba. Finora, così il vento come le capre
avevano rispettato quel filo d'erba. E la gioia di Tommasino nel
ritrovarlo intatto lì, col suo spavaldo pennacchietto in cima, era
ineffabile. Lo carezzava, lo lisciava con due dita delicatissime, quasi lo
custodiva con l'anima e col fiato; e, nel lasciarlo, la sera, lo affidava
alle prime stelle che spuntavano nel cielo crepuscolare, perché con tutte
le altre lo vegliassero durante la notte. E proprio, con gli occhi della
mente, da lontano, vedeva quel suo filo d'erba, tra i due macigni, sotto
le stelle fitte fitte, sfavillanti nel cielo nero, che lo vegliavano.
Ebbene, quel
giorno, venendo alla solita ora per vivere un'ora con quel suo filo
d'erba, quand'era già a pochi passi dalla chiesetta, aveva scorto dietro
a questa, seduta su uno di quei due macigni, la signorina Olga Fanelli,
che forse stava lì a riposarsi un po', prima di riprendere il cammino.
Si era fermato, non
osando avvicinarsi, per aspettare ch'ella, riposatasi, gli lasciasse il
posto. E difatti, poco dopo, la signorina era sorta in piedi, forse
seccata di vedersi spiata da lui: s'era guardata un po' attorno: poi,
distrattamente, allungando la mano, aveva strappato giusto quel filo
d'erba e se l'era messo tra i denti col pennacchietto ciondolante.
Tommasino Unzio
s'era sentito strappar l'anima, e irresistibilmente le aveva gridato: -
Stupida! - quand'ella gli era passata davanti, con quel gambo in bocca.
Ora, poteva egli
confessare d'avere ingiuriato così quella signorina per un filo d'erba?
E il tenente De
Venera lo aveva schiaffeggiato.
Tommasino era
stanco dell'inutile vita, stanco dell'ingombro di quella sua stupida
carne, stanco della baja che tutti gli davano e che sarebbe diventata più
acerba e accanita se egli, dopo gli schiaffi, si fosse ricusato di
battersi. Accettò la sfida, ma a patto che le condizioni del duello
fossero gravissime. Sapeva che il tenente De Venera era un valentissimo
tiratore. Ne dava ogni mattina la prova, durante le istruzioni del Tir'a
segno. E volle battersi alla pistola, la mattina appresso, all'alba,
proprio là, nel recinto del Tir'a segno.
Una palla in petto. La ferita dapprima, non parve tanto grave; poi
s'aggravò. La palla aveva forato il polmone. Una gran febbre; il delirio.
Quattro giorni e quattro notti di cure disperate.
La signora Unzio,
religiosissima, quando i medici alla fine dichiararono che non c'era più
nulla da fare, pregò, scongiurò il figliuolo che, almeno prima di
morire, volesse ritornare in grazia di Dio. E Tommasino, per contentar la
mamma, si piegò a ricevere un confessore.
Quando questo, al
letto di morte, gli chiese:
- Ma perché,
figliuolo mio? perché?
Tommasino, con gli
occhi socchiusi, con voce spenta, tra un sospiro ch'era anche sorriso
dolcissimo, gli rispose semplicemente:
- Padre, per un
filo d'erba...
E tutti credettero
ch'egli fino all'ultimo seguitasse a delirare.
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