IL VITALIZIO
I
Con
le braccia appoggiate sulle gambe discoste e lasciando pendere come morte
le mani terrose, il vecchio Maràbito sedeva sul logoro muretto accanto
alla porta della roba.
Casa e stalla
insieme, col pavimento fatto coi ciottoli del fiume (dove non mancavano),
quella vecchia roba cretosa e annerita gli faceva sentire, ancora
per poco, il suo alito: quell'odor grasso e caldo del concio, quel tanfo
secco e acre del fumo stagnato, ch'erano per lui l'odore stesso della sua
vita. Contemplava intanto il suo podere, sbattendo continuamente gli
occhietti vitrei infossati, che gli restavano duri e attoniti quasi a
dispetto delle palpebre.
Sotto il cielo
velato gli alberi stavano immobili, come se, sospesi nella pena con cui il
vecchio padrone ora li guardava, così dovessero durare anche quand'egli
non ci sarebbe stato più. Qualche gazza appostata, però, pareva
sghignasse beffarda, a quando a quando: mentre di tra le stoppie riarse,
sui piani e i poggi delle Quote, le calandre alternavano il loro ciaucìo
stridulo gioioso.
S'aspettavano le
prime acque, dopo le quali sarebbe cominciato il tempo delle fatiche per
la campagna: la rimanda, l'aratura, la semina.
Tre volte Maràbito
scosse la testa, perché ormai non erano più per lui quelle fatiche. Lo
riconosceva da sé. Tanto che entrando col marzo i mesi grandi, aveva
detto a sé stesso
« Questa sarà
l'ultima stagione! »
E s'era mietuto
l'orzo e abbacchiate le mandorle, lasciando ai nuovi padroni
l'abbacchiatura delle olive e la vendemmia. Quel giorno appunto dovevano
venire a prendere possesso del podere. Avrebbe fatto loro la consegna, e
addio!
« La morte, quando
il Signore comanda, verrà a picchiarmi alla porta lassù. »
Alzò gli occhi, così
pensando, a Girgenti che sedeva alta sul colle con le vecchie case dorate
dal sole, come in uno Scenario; e cercò nel sobborgo Ràbato, che pareva
il braccio su cui s'appoggiasse così lunga sdraiata, se gli riusciva
scorgere il campaniletto di Santa Croce, ch'era la sua parrocchia. Aveva là
presso un vecchio casalino, dove avrebbe chiuso gli occhi per sempre:
- E presto sia! -
sospirò. - Come avvenne a Ciuzzo Pace.
Prima di lui, Ciuzzo
Pace aveva ceduto per un vitalizio d'una lira al giorno l'attiguo
poderetto al mercante Scinè, soprannominato il Maltese; e, dopo appena
sei mesi, era morto
Ora il silenzio, che
pareva fervesse lontano lontano d'un sordo ronzio di mosche che pure erano
vicine, dava arcanamente il senso di quella morte; ma il vecchio non ne
aveva sgomento; piuttosto come un'angoscia
Era solo, perché
non aveva mai voluto né donne né amici; sentiva pena per quel suo
podere, a lasciarlo dopo tanto tempo. Conosceva gli alberi uno per uno; li
aveva allevati come sue creature: lui piantati, lui rimondati, lui
innestati; e la vigna, tralcio per tralcio. Pena per il podere e pena
anche per le bestie che tant'anni lo avevano aiutato: le due belle mule
che non s'erano mai avvilite a tirar l'aratro per giornate sane;
l'asinello che valeva più delle mule, e Riro il giovenco biondo
come l'oro, che tirava da sé senza benda né guida l'acqua del pozzo,
pian piano, com'egli l'aveva ammaestrato. La noria a ogni giro della
bestia dava un fischio lamentoso. Egli, da lontano, contava quei fischi;
sapeva quanti giri ci volevano a riempire i vivai, e si regolava. Ora,
addio Riro! E il fischio della noria, da quel giorno in poi, non l'avrebbe
più udito.
- Sette, - contò
intanto, ché, pur tra i pensieri, il conto dei giri per la lunga
abitudine non lo perdeva mai.
Le mule e l'asinello
erano impastoiate su l'ala a rimpinzarsi di paglia. Paglia, quanta ne
volevano! Anche ad esse il vecchio Maràbito rivolse uno sguardo. Come le
avrebbe trattate il nuovo padrone? Alla fatica erano avvezze, povere
bestie, ma anche alla loro razione d'orzo e cruschello, ogni giorno, oltre
la paglia.
O che avevano quel
giorno le calandre? Strillavano sui piani più del solito, come se
sapessero che il vecchio doveva andarsene e lo salutassero.
Dallo stradone,
tutt'a un tratto, venne un allegro rumor di sonagli. Ma il vecchio si
cangiò in volto.
- La carrozza:
eccolo: - disse; e andò incontro al nuovo padrone, tirandosi sulle spalle
la giacca che teneva appesa addosso, con le maniche spenzolanti.
II
Da
cassetta, Grigòli, il garzone che don Michelangelo Scinè teneva di
guardia al poderetto già di Ciuzzo Pace, gli gridò:
- Allegro, oh, zi'
Marà!
Ma allegro lui, se
mai, Grigòli, che da quel giorno avrebbe mangiato a due greppie,
abbattuto il morello di cinta che separava il podere di Maràbito da
quello del povero Pace. Fortuna e dormi! S'era cattivata la fiducia del
Maltese, chi sa poi perché, così tracagnotto, con gli occhi tondi e
ridenti, e quella puntina di naso che gli s'alzava quasi incuriosita,
all'insaputa della faccia da pacioccone senza malizia. Ma l'aveva, e come!
la sua malizia anche lui; bastava guardargli quel naso.
Intanto, con l'aiuto
del vetturino, don Michelangelo poté scendere dalla carrozza: uno di que'
sganasciati landò d'affitto con l'attacco a tre, che puzzano di rimessa
lontano un miglio e servono con gran fracasso di sonagliere per le
scampagnate. Ne scese con lo stesso stento la moglie si-donna Nela,
e subito, prendendosi con due dita la veste, cominciò a spiccicarsi
tutta; poi ne scesero le figlie: due ragazzone gemelle. Sembravano tutt'e
quattro un tino una botte e due caratelli. La carrozza, risollevandosi
sulle molle, parve rifiatasse; i cavalli no, poveri animali, tutti
imbrattati di schiuma e sgocciolanti di sudore.
- Serv'a Voscenza,
- salutò appena Maràbito.
Rotto al lavoro da
tanti anni, parlava poco di solito, e ora per giunta provava quasi
vergogna pensando che, per quella cessione che faceva del suo podere, il
mantenimento gli sarebbe venuto ancora da esso, ma non più in compenso
del suo lavoro.
Auff, si crepa! -
sbuffò lo Scinè, asciugandosi col fazzoletto il faccione congestionato.
- Quattro miglia di stradone! A guardare dalla città, non credevo che
fosse così lontano!
Era una prima botta,
questa, da mercantuccio rifatto, la quale dava a vedere come fosse venuto
col proposito di disprezzare tutto.
Non per nulla la
gente del paese se lo richiamava con piacere alla memoria lacero e
impolverato su per le viucole a sdrucciolo del quartiere di San Michele
con la balla della mercanzia sulle spalle e la mezzacanna in una mano,
tutto sudato mentre dell'altra si faceva portavoce nel gridare:
- Roba di Fràaancia!
S'era arricchito in
poco tempo con l'usura, e ora troneggiava, seduto sotto il lampadino della
Madonna, dietro il lungo banco del suo negozio di panneria, ch'era il più
grande di tutta la via Atenèa.
La signora Nela,
dalla faccia di melanzana piantata senza collo sopra le poppe enormi, non
apriva bocca se prima non si consigliava con gli occhi del marito. Ma a
una delle figliuole, girando lo sguardo sul ciglione lì vicino, su cui
sorgono i due Templi antichi, quello di Giunone da una parte e quello
detto della Concordia dall'altra, in un soprassalto d'ammirazione scattò
proprio dal cuore:
- Uh bello, papà!
Il Maltese la fulminò
con una guardataccia.
Sapeva bene il
valore del podere, e che Maràbito aveva già compiti settantacinque anni.
Ora, dandosi a vedere per un verso mal contento del podere e per l'altro
contento dello stato di salute del vecchio, sperava di potere ancora
lesinare sul vitalizio di due lire al giorno già convenuto. La terra è
terra, soggetta alle vicende del tempo, e due lire al giorno son due lire
al giorno.
Ma non gli venne
fatto. Visitando passo passo il podere, non ebbe proprio dove metter
pecca; e quell'animaluccio di Grigòli pareva glielo facesse apposta!
- Qua qua, guardi
qua!
E con le mani
sollevava i pampini d'una vite per mostrare certi grappoli più grossi
d'una poppa della signora Nela.
- Qua qua, guardi
qua!
E mostrava
nell'agrumeto, ch'egli chiamava giardino, certe lumìe, certi
portogalli, la cui vista soltanto, a suo dire, ricreava il cuore.
- Questo giardino,
Eccellenza, è vermiglio così tutto l'anno!
Michelangelo Scinè
guardava e chinava la testa, brusco. Non potendo far altro (o fors’anche
in grazia di quell'Eccellenza che Grigòli non gli risparmiava)
fingeva di sbuffare per il caldo.
- Si crepa! si
crepa!
Maràbito non
parlava: gli seccava anzi che parlasse tanto Grigòli, essendosi accorto
che lo Scinè a mano a mano s'intozzava dalla bile. Più volte, infatti,
come se non avesse udito i continui richiami di Grigòli, era passato
diritto o s'era fermato con gli occhi socchiusi e l'indice d'una mano
sulla punta del naso, quasi assorto in qualche conto complicato. Grigòli
però senza scomporsi, s'era rivolto alla si-donna Nela e alle due
ragazzone:
- Qua qua, guardino
qua!
Tanto che Maràbito,
alla fine, stimò prudente ammonirlo
- E zitto, via,
Grigoletto! I padroni hanno occhi per vedere da sé.
Fece peggio. Grigòli,
imperterrito, incalzò:
- Avete ragione! La
vostra bocca non parla mai! Ah, non per vantarlo di presenza, ma la verità
è verità: un altr'uomo fatto per la fatica come Zio Maràbito non c'è
mai stato e non ci sarà mai: vero maestro per la campagna, poi; quanto a
rimandare, a innestare, a potare, uguale forse sì, ma meglio di lui in
tutto il territorio di Girgenti non si ritrova. Qua, qua questi mandorli
innestati da lui; piante massaje come queste non ce n'è: ogni albero tre,
quattro staja l'anno, che Voscenza può contarci a occhi chiusi. E
questi albicocchi qua? Se Voscenza ne assaggia il frutto non se lo
può più levar di bocca: vera rarità! Pero, questo, signorinella; fa
pere grosse così! Terra come questa non ce n'è: non ci manca nulla! E
Maràbito, in coscienza, se l'è meritata, che ha saputo lavorarla come
Dio comanda. Peccato che ora è vecchierello...
Don Michelangelo non
ne poteva più. Proruppe:
- Che vecchierello,
somarone, che vecchierello! Non vedi che cammina meglio di me?
- Questo non vuol
dire! - rispose con un sorrisa da scemo Grigòli. - Voscenza m'è
padrone, e non per contraddirla, ma così bello grasso, voglio dire in
salute com'è Voscenza, non è tanto facile camminare ora qua per
la vigna.
La vigna era zappata
di fresco, e veramente ci s'affondava, col pericolo anche di slogarsi un
piede. Ne esalava poi un senso d'umido, corrotto in basso nell'afa di
quelle giornate ancora di sole caldo; e don Michelangelo, stronfiando, ne
soffriva come d'una smania che gli si fosse messa allo stomaco. Ma era
anche per la parlantina di quel ménchero là.
- E chétati una
buona volta! Parli più d'un giudice povero! Il podere è buono, il podere
è buono, non dico di no, ma... ma... ma...
E seguitò la frase
movendo l'indice e il medio d'una mano: il che significava: due lire al
giorno son due lire al giorno.
- Padrone mio, -
intervenne a questo punto Maràbito, fermandosi: - domani all'alba io me
n'andrò su al paese, e stia sicuro che ci andrò a morire, perché quella
ch'è stata finora la mia vita la lascerò qua, in questa terra. Non mi
piace parlare; ma ciò ch'è giusto glielo debbo dire. Non creda ch'io
stia facendo questo negozio per poca voglia di lavorare. Ho lavorato fin
da quand'ero ragazzo di sett'anni; e vita e lavoro per me sono stati
sempre una cosa sola. Sappia che lo faccio, non per me, ma per la mia
terra che con me patirebbe, perché non sono più buono da lavorarla come
il mio cuore vorrebbe e l'arte comanda. In potere di Voscenza e di
Grigoletto che sa l'arte meglio di me, sono sicuro che alla terra non
mancherà mai nulla e sono pronto a staccarmene ora stesso, senza neanche
fiatare. Ma se Voscenza non è più contento, me lo dica chiaro e
non ne facciamo più niente.
La signora Nela e le
due figliuole non s'aspettavano quest'uscita del vecchio e lo guardarono
allocchite. Ma don Michelangelo, da volpe vecchia, esclamò sorridendo,
rivolto a Grigòli:
- E tu mi dicevi che
non parla! alla grazia!
Poi, rivolto a Maràbito:
- O che debbo dirvi,
dunque, che siete vecchio stravecchio e in punto di morte?
- Come sono, Voscenza
lo vede, - rispose il vecchio, aprendo le braccia. - Gli anni miei non li
so. So che mi sento stanco. E Voscenza, ripeto, può star sicuro
che dei suoi belli denari con me non ne sciuperà molti. Prendo la via di
Ciuzzo Pace, ch'è per me la migliore, e lor signori si godranno il tondo
e spero in Dio che non me lo faranno patire.
III
-
Hanno abbattuto gli albicocchetti davanti la roba - diceva Maràbito,
appena quindici giorni dopo, alle vicine della Piazzetta di Santa Croce.
Chiudeva gli occhi e
li rivedeva tutt'e tre, quegli alberetti, lì sulla spianata del ciglione.
Erano così belli! Perché atterrarli?
- Certo com'è certo
Dio, questa è opera di Grigòli, che, per far legna, dà a intendere al
padrone che gli alberi sono secchi.
Ma s'ingannava. Non
passò neanche un mese, che vennero a dirgli: - Hanno abbattuto la roba.
La roba? Eh
già: il Maltese, al posto della vecchia roba, voleva far sorgere una
bella cascina nuova, e quei tre alberetti lo impicciavano.
- Godetevi in pace
il vitalizio! - lo esortavano le vicine. - Tre alberetti: state a piangere
come se vi avessero tagliato le braccia.
- E le bestie? -
soggiungeva allora Maràbito. - M'hanno detto che l'asinello l'animaluccia
mia, è ridotta così male che non si regge più in piedi. E Riro? Riro
non si riconosce più.
- Chi è Riro?
- Il giovenco.
- Credevamo che
fosse un vostro figliuolo!
Da un canto le
vicine sentivano pietà di lui; dall'altro, certe volte, non potevano
tenersi dal ridere.
- Ma se adesso il
padrone è quell'altro! Lasciategli fare ciò che gli pare e piace!
Ora appunto questo
non sapeva tollerare Maràbito. Che il Maltese fosse il padrone, sì; ma
che dovesse poi distruggergli il frutto di tante fatiche, maltrattargli le
bestie, questo no: questo il Signore non doveva permetterlo.
E si recava in fondo
al viale detto della Passeggiata, all'uscita del paese, di dove
poteva scorgere la sua terra lontana, laggiù laggiù nella vallata, tra i
due Tempii antichi. Guardava e guardava, come se con gli occhi potesse
impedire di lassù lo sterminio del Maltese. Il cuore però non gli
reggeva a lungo, e se ne ritornava pian piano, con le lagrime agli occhi.
Anziché da Porta di
Ponte preferiva prendere per la via Solitaria sotto San Pietro fino al
Piano di Ravanusella; con tutto che fosse malfamata quella via per tanti
delitti rimasti oscuri e, a passarci sul tardi, incutesse un certo
sgomento. I passi vi facevano l'eco, perché il pendio del colle troppo
ripido metteva lì quasi a ridosso i muri delle case. Case che, sul
davanti, nella straduccia più su, erano d'un sol piano e di misero
aspetto, qua di dietro avevano certi muri che parevano di cattedrale.
Dall'altro lato, in principio, la via mostrava ancora l'antica cinta della
città con le torri mezzo diroccate. Nella prima, chiusa appena da una
partaccia stinta e sgangherata s'esponevano i morti sconosciuti e si
portavano per le perizie giudiziarie gli uccisi. Attraversando quel
tratto, Maràbito avvertiva realmente, nel silenzio e tra l'eco dei passi,
come un sospetto che ci fosse qualcosa, in quella via, di misterioso; e
non gli pareva l'ora d'arrivare al Piano di Ravanusella, arioso. Ma vi
respirava per poco. Gli toccava di là risalire verso lo stretto di Santa
Lucia, anch'esso malfamato e quasi sempre deserto, per riuscire a Porta
Mazzata, dove imboccava la via del Ràbato.
Abituato a vivere in
campagna, entrando nella stretta delle case, si sentiva ogni volta
soffocare, anche se attraversava la città per la via maestra, ch'egli non
chiamava col suo nome - Via Atenèa - ma a modo di tutti (e chi sa perché)
la Piazza Piccola: di piazza non aveva proprio nulla; era una via un po'
più larga e più lunga delle altre, serpeggiante, lastricata, con case
signorili e botteghe in fila. Che fracasso facevano su quei lisci lastroni
scivolosi gli scarponi imbullettati di Maràbito che andava curvo e cauto,
con l'andatura dei contadini, le mani alla schiena e guardando a terra,
mentre la nappina della berretta nera a calza gli ciondolava sulla nuca a
ogni passo.
Si rimescolava
tutto, scorgendo da lontano, a destra, la bottega di panneria dello Scinè
con le quattro grandi vetrine sfarzose e la porta in mezzo. Era proprio
nel centro della via un poco prima del Largo dei Tribunali, dove la gente
s'affollava di più. Spesso don Michelangelo stava seduto davanti la
porta, col pancione che pareva un sacco di crusca tra le cosce aperte, e
così sbracato che la camicia gli strabuzzava perfino di sotto il
panciotto. Fumava e sputava. Vedendo Maràbito che veniva avanti pian
piano, gli figgeva gli occhi addosso e pareva se lo volesse succhiar vivo
con lo sguardo, come la vipera un ranocchio. Dispettoso, gli domandava,
sorridendo:
- Come si va? come
si va?
- Come vuole Dio, -
rispondeva duro Maràbito, senza fermarsi. E tra sé diceva: - A tuo
dispetto voglio campare!
E gli veniva la
tentazione di voltarsi e fargli le corna dalla via.
Se non che, poco
dopo, vedendosi solo nel suo vecchio casalino, s'avviliva.
- Che sto più a
farci?
- Zitto, vecchio
stolido! - lo rimbeccavano allora le vicine per confortarlo. - Chiamate la
morte? Ringraziate Dio piuttosto che ha voluto darvi la buona vecchiaja.
Ma il vecchio
scoteva il capo, levava una mano a un gesto di stizza: che buona
vecchiaja! E si metteva a piangere come un bambino:
- Mi rimprovera il
pane che mangio e questi quattro giorni che mi restano!
- E voi campate
cent'anni a suo marcio dispetto! - gli gridavano quelle a coro, aprendo il
fuoco contro lo Scinè. - Sanguisuga dei poveri! Succhiategli il sangue,
come lui l'ha succhiato a tante povere creature! Cent'anni, cent'anni
dovete campare! Il Signore e Maria Santissima delle Grazie debbono tenervi
in vita per farlo crepar di rabbia. Le ossa s'ha da rodere, così!
E stropicciavano in
giro, furiosamente, la punta di un gomito sulla palma dell'altra mano.
- Così! così!
Nello stesso tempo,
don Luzzo l'orefice, ch'era la peggior lingua di tutta la via Atenèa, e
il farmacista dirimpetto tenevano su per giù il medesimo discorso,
sebbene con minore efficacia di gesti e di frasi e in tono di scherno, a
don Michelangelo Scinè.
- Quel vecchio
cent'anni vi campa, caro Maltese!
Ma lo Scinè
spingeva in su le guance e la bocca in una smorfia d'incredulità
stizzosa. (Cosa strana, però: pure in quella smorfia, le sopracciglia
fortemente segnate, sotto la fronte tonda come un boccale, gl'imprimevano
nella faccia grassa stupida e volgare quasi un segno di tristezza
avvilita.)
Il podere, se l'era
fatto stimare, prima di fare il contratto: due salme e mezzo di
terra, tutta beneficata, per meno di dodici mila lire non avrebbe potuto
averle: Maràbito, settantacinque anni, non doveva compirli più: per bene
che stesse, quant'anni avrebbe potuto vivere ancora? tre, quattro;
abbondiamo, Uno a ottanta; dunque, da tre a quattro mila lire: Uno a
dodici mila, ci correva.
- Lasciatelo
campare, poverello: mi fa proprio piacere
Così il rodimento
lo dava lui agli altri. Anzi, per rappresentar meglio la sua parte, una
mattina, vedendo passare il vecchio davanti la bottega, volle fargli cenno
d'accostarsi
- E venite qua,
santo Dio! Perché mi fuggite così? Che male v'ho fatto?
- Nessuno, a me; -
gli rispose Maràbito - ma la terra io gliel'avevo raccomandata tanto, a Voscenza;
e anche le povere bestie; Riro, Riro è morto; non me ne so
dar pace!
- E io? - esclamò
il Maltese. - Non me ne parlate. Quel Grigòli è una canaglia. Per colpa
sua. Ma anche per colpa vostra, un poco!
- Mia?
- Vostra, vostra.
Perché se voi, col vostro brutto caratteraccio, invece di fuggirmi come
se v'avessi rubato, mentre Dio solo sa che sacrifizio sto facendo a darvi
queste due lire al giorno; se invece di fuggirmi, dicevo, mi aveste
aiutato coi vostri buoni consigli, né io né voi saremmo così scontenti,
né Riro forse sarebbe morto.
Rimase abbagliato
lui stesso, il Maltese, dalle sue parole. Difatti, ora che ci pensava, chi
meglio di Maràbito avrebbe potuto aiutarlo a guardarsi da
quell'imbroglione di Grigòli? Ma il vecchio restò ferito.
- Ah dunque Voscenza
vorrebbe dire che Riro è morto per me?
- Per voi, certo! Io
avrei seguito i vostri consigli, senza lasciarmi menar per il naso da
quello lì che s'approfitta della mia inesperienza, ruba a tutto spiano e
fa da padrone: spacca-e-lascia. Il padrone sareste rimasto voi invece, da
lontano, e tutto sarebbe andato per il meglio. Io vi voglio bene e voglio
che vi diate cura della vostra salute. Venite, venite da me.
C'intenderemo!
Proferì forte
quest'ultime parole, perché le udisse don Luzzo l'orefice.
- Quanto bene gli
volete, a quel vecchio! - sghignò infatti quello, appena Maràbito si fu
un poco allontanato. - Sia se cercate di persuaderlo con le buone a morir
presto, il fiato ci sprecate: cent'anni vi campa, quel vecchio, ve l'ho
detto!
Don Michelangelo
ripeté la solita smorfia e gli mostrò le cinque dita della manaccia.
- Ancora tanti,
vedrete!
IV
Ogni
quindici giorni, intanto, Maràbito si recava dal notaia Nocio Zàgara per
riscuotere le rate del vitalizio.
Don Nocio, per carne
addosso, non ne aveva meno dello Scinè; ma era molto più alto di
statura: un gigante panciuto che riempiva di sé tutta la stanza a terreno
dove teneva lo studio notarile. Affogata nel lardo delle garge enormi
aveva però una bionda ridicolissima faccina da bimbo, con due occhietti
chiari chiari e fervidi. Rosso e poroso come una fragola, il nasetto gli
spariva tra le ripiegature delle guance. Nella ridondanza della
pappagorgia gli spariva la tenera puntina del mento, da stringere tra due
dita, per la simpatia, con quel bucolico nel mezzo.
- Ho ancora
quattr'annunci, - soleva dire, - e m'hanno gonfiato così!
Sempre in tempera di
scherzare, vedendo entrare Maràbito, gli domandava con una vocetta di
naso («nànfara», come la chiamano in Sicilia):
- Che dice, che dice
quell'altro «archilèo»?
Maràbito non
comprendeva quella parola «archilèo», e restava a guardarlo sbattendo
gli occhi. Il notajo si spiegava meglio:
- Don Michelangelo,
via. Tanto contento di voi non dev'essere. Si comportò meglio Ciuzzo
Pace.
Maràbito allora si
stringeva nelle spalle.
- Segno che la mia
terra gli è piaciuta.
Sì, ma voi vi
dovreste sbrigare: so che siete un galantuomo!
E gli batteva una
mano sulla spalla.
Sapeva che gli
affari del Maltese, da un pezzo, non prosperavano più come prima. E
siccome gli piaceva il parlar figurato, per lo Scinè ripeteva
quest'apologo: «Un palloncino vide in cielo la luna, e gli venne il
desiderio di diventare luna anche lui. Pregò il vento che strappasse di
mano al ragazzo la funicella da cui era tenuto. Il vento lo secondò e lo
portò su, su, su. Troppo su! E il palloncino: pa! schiattò».
Quell'ultima pazzia
del vitalizio al Maràbito, per esempio, perché il gioco gli era riuscito
bene la prima volta con quel povero Pace! Ma la morte sa essere anche
buffona, se le gira: «Ah, mi tenti di nuovo? Bene. Andrò dal vecchio,
quando piacerà a me. E tu paga, intanto, paga!». - Due lire al giorno: e
che sono rena? Erano troppe veramente per Maràbito che non aveva da pagar
pigione di casa e, per mangiare, si adattava con un po' di pane e
companatico, la mattina, e un po' di cotto la sera: macco o
minestra, quando non erba sola e, tante volte, senza olio più da bestie
che da cristiani.
Si cucinava da sé
nel fornelletto dello stanzino a terreno, dietro la stanza grande dove
passava le giornate. Quel fornelletto era sotto la finestrina, munita in
fondo allo strombo d'una grata; e su quello strombo unto e affumicato
erano tutti gli attrezzi di cucina e di tavola: il tegame e la pentola di
coccio, una scodella di rozza terraglia smaltata e dipinta con certe
ditate di rosso e di blu che volevano esser fiori, una forchetta e un
cucchiaio di stagno: tutte compere nuove. Il coltello, di quelli a punta
col manico d'osso, Maràbito, come ogni buon contadino, lo teneva sempre
in tasca, anche per il solo pacifico uso d'affettarsi il pane.
Giù, la stanza
grande, col soffitto a travicelli, era divenuta gialla come la fame, e la
crosta dell'intonaco, a una parete, s'era come raggrinzita e cascava a
pezzettini. Il casalino, da venti anni disabitato e chiuso, aveva preso la
polvere; la quale, appassita, esalava un tanfo di vecchio che non se
n'andava più.
Maràbito non
l'amava, quel suo casalino; come non amava la città, a cui prima dalla
campagna non saliva quasi mai. Ora, a poco a poco, cominciava a
riconoscerne le viuzze, ma come da lontano, a certi odori che lo facevano
fermare, Perché gli ridestavano dentro svaniti ricordi dell'infanzia. Si
vedeva ragazzetto trascinato per mano dalla madre e su e su per tutti quei
vicoli a sdrucciolo, acciottolati come letti di torrenti e tutti in ombra,
oppressi dai muri delle case sempre a ridosso, con quel po' di cielo che
si poteva vedere nello stretto di essi, a storcere il collo, che poi
nemmeno si riusciva a vederlo, abbagliati gli occhi dalla luce che
sfolgorava dalle grondaie alte; finché non arrivava al Piano di San
Gerlando su in cima alla collina. Ma arrivato lassù, di tutta la città
non scorgeva altro che tetti: tetti tesi in tanti ripiani, tetti vecchi,
di tegole logore, o tetti nuovi, sanguigni, o rappezzati, che sgrondavano
di qua e di là, chi più e chi meno; qualche cupola di chiesa col suo
campanile accanto e qualche terrazza su cui sbattevano al vento e
sbarbagliavano al sole i panni stesi ad asciugare.
Della madre non
aveva buoni ricordi. Era una donna alta stecchita, di pochi capelli, con
certi occhi cupi adirati e un collo lungo lungo e sotto il collo
(ricordava) un po' di gozzo, come le galline. Rimasta vedova presto s'era
rimaritata con uno di Montaperto; e lui, ragazzo di sette anni, era stato
messo a lavorare in campagna da un compare del padre, uomo bestiale, rosso
di pelo, che con la scusa d'ammaestrarlo, lo picchiava ogni sera, senza
ragione.
Ricordi lontani,
quasi senza più immagini.
Anche degli anni
passati in America, a Rosario di Santa Fe, oltre l'impressione del tanto e
tanto mare che aveva corso per arrivarci e trovare che là di giugno era
inverno e di Natale era estate (tutto alla rovescia), non serbava ricordi:
s'era trovato tra compaesani emigrati con lui e condotti in branco a
lavorare la terra, ch'è da per tutto la stessa, come le stesse da per
tutto sono le mani che la lavorano. E, lavorando, lui non aveva mai
pensato a niente; concentrato tutto nelle sue mani e nelle cose ch'esse
adoperavano per il lavoro da compiere. Per più di quarant'anni, in
quell'appezzamento comperato col denaro ch'era riuscito a raggruzzolare
laggiù, tra lui e l'albero da potare, o la zappa da raffilare, o il fieno
da falciare non s'era mai messo nulla di mezzo a frastornarlo, e fuori del
filo acciaiato e lucente di quella zappa, e il taglio della sua ronca e
della sua accetta sul ramo di quell'albero, e il frusciare dell'erba
fresca appena stendeva la mano per acciuffarla e l'odore che quel fieno
spruzzava reciso dalla sua falce, non aveva né visto né sentito mai
altro. Tutte piene di cose da fare, allora, le sue giornate, anche quando
il Signore mandava la buona acqua sulle terre assetate: bisacce da
rattoppare, canestri e cestoni da accomodare, zolfo da pestare per la
vigna. A vedere ora là in un canto della stanza qualche resto dei suoi
attrezzi rurali, una vecchia falce arrugginita appesa a un chiodo accanto
all'uscio che metteva nello stanzino, provava in quell'ozio, che per lui
era vuoto, vuoto della mente e vuoto del cuore, un tale avvilimento, che
andava su nella stanza a solaio a raggricchiarsi sullo strapunto di paglia
per terra, come un cane ammalato.
Non poteva vedersi là
tra tutte quelle femmine e quei ragazzi della Piazzetta di Santa Croce: la
z'a Milla, ch'era la meglio del vicinato e dettava legge a tutti, placida
placida, fina e pulita come una signora; la z'a Gàpita, che pareva una
pentolaccia squarciata, con tanto di pancia, come se fosse sempre gravida;
la 'gna Croce che strillava dalla mattina alla sera non solo ai
cinque figliuoli, che non le lasciavano addormentare il sesto, sempre
attaccato a quella pellàncica cenciosa, che quando se la cavava dal
corpetto faceva sputare dallo schifo: ma alle otto galline e al gatto e al
porchetto che allevava in casa di nascosto alle guardie municipali; e la 'gna
Carminilla detta La Spiritata; e la z'a Gesa detta La Mascolina;
e tutte le altre che non finivano mai.
Noto com'era ch'egli
non aveva mai voluto saper di gonnelle, nemmeno da giovine, tutte queste
donne provavano ora per lui un curioso sentimento, che un po' le irritava
sotto sotto, e un po' le faceva sorridere di nascosto, specialmente certe
volte che lo vedevano impacciato e scontroso ripararsi ancora e schermirsi
da alcune innocenti attenzioni che, sapendolo solo, volevano usargli.
Nessuna punta di spregio in quel sentimento, ché anzi erano disposte a
riconoscergli una certa furberia per aver dimostrato di comprendere ciò
che di solito la cara minchionaggine degli uomini non comprende: che, cioè,
quello che esse danno, e che per gli uomini è tanto (tanto che perfino ci
fanno le pazzie), per loro è meno che niente, anzi il loro stesso
piacere. Ora, non esserselo preso, questo piacere, per non darlo alle
donne pagandolo come tutti gli altri uomini lo pagano, per loro era in
fondo da saggio; e provavano soddisfazione a fargli vedere che tuttavia
erano pronte a servirlo lietamente pur non avendo mai avuto nulla da lui.
C'era poi, più
palese, un altro sentimento, che non era tanto di carità per lui, quanto
di stizza contro il Maltese e di pena ancor viva per quel povero Ciuzzo
Pace, morto appena sei mesi dopo il contratto di vitalizio. Questa volta,
quella «sanguisuga dei poveri» non doveva averla vinta. E curavano a
gara Maràbito, quasi impegnate davvero a farlo vivere cent'anni, per far
la vendetta di quell'altro.
V
Se
non che, quella canaglia del Maltese doveva certo esser venuto a patti col
diavolo. «Altri cinque anni.» E difatti, ecco che entrato da pochi
giorni nel suo ottantesimo anno, Maràbito ammalò.
Vedendo quella
mattina rimaner chiusa la porta del casalino, le vicine impensierite, dopo
aver bussato a lungo invano con le mani, con le ginocchia, coi piedi,
mandarono a chiamar le guardie: restando nell'attesa davanti la porta a
chiamare in tutti i modi il vecchio:
- O zi' Marà!
- Vecchiuzzo nostro!
- Date almeno la
voce!
Forzata la porta,
corsero sé nella stanza a solaio, ormai certe di trovarlo morto.
- No, no: ha gli
occhi aperti; ha gli occhi aperti!
Lucenti, però, e
imbambolati dalla febbre. Dio, scottava! E là per terra, come un cane: su
quello strapunto di paglia!
Per prima cosa
pensarono di trasportarlo giù, nella stanza a terreno, perché avesse
almeno un po' d'aria e non fosse mangiato dai topi (era avvenuto qualche
volta). Gli approntarono alla meglio un letto, chi prestando i trespoli,
chi le tavole, chi una materasso, e un paio di lenzuola pulite e una
coperta; e mandarono per il medico. La z'a Milla intanto aveva sentenziato
ch'era una polmonite, ma di quelle proprio coi fiocchi. La 'gna
Croce, però, strillando al solito suo, con le braccia levate:
- Polmonite?
Levatevi! Che medico e medico! Questo è tutto malocchio! Lasciate fare a
me!
E con l'aiuto della
z'a Gàpita e della 'gna Carminilla si mise a parare il letto,
appena levato, appendendogli intorno ogni sorta di scongiuri: sferre di
cavallo, corna di capro, sacchetti scarlatti pieni di sale. Requisì poi
tutte le granate del vicinato e le appoggiò con la scopa all'insù al
muro del Casalino, di qua e di là della porta, come a guardia
dell'entrata.
Quando il medico
vide quel letto così parato, s'indignò:
- Levate via subito
codeste porcherie!
Confermò, con molta
soddisfazione della z'a Milla, ch'era caso di polmonite, e grave; e
consigliò che l'infermo fosse portato con tutte le cautele all'ospedale.
Ma a questo le vicine s'opposero con vivaci proteste: che c'erano loro per
assisterlo di giorno e di notte e curarlo amorosamente, secondo le
prescrizioni, senza bisogno di portarlo all'ospedale dove i poveri
andavano soltanto per far studiare i signori dottori e morire.
Andato via il
medico, appena la z'a Milla fece l'atto di dire: «Vedete che avevo
ragione io», la 'gna Croce le piantò in faccia due occhi così e
corse in casa a prendere la mantellina, gridando alla z'a Gàpita:
- Fatemi il favore
di dare un occhio alla casa e a queste sei creature!
Tornò di lì a poco
con la Malanotte, ch'era una vecchia strega, famosa per levare il
malocchio: nera come la pece, con certi occhi da lupa e una bocca enorme
da cui usciva una vociaccia roca maschile.
Costei si fece
portare una scodella piena d'acqua e un'ampollina d'olio. Ordinò che si
chiudesse la porta e che l'infermo fosse tenuto a sedere sul letto. Poi
accese un cero, pose sul capo al vecchio la scodella e vi fece cadere pian
pianino una goccia d'olio, lì sull'acqua, in mezzo. Tutt'intorno le
vicine guardavano, trattenendo il fiato. Con gli occhi fissi su quella
goccia d'olio galleggiante, la Malanotte si mise a borbottare
incomprensibili scongiuri, e quella a poco a poco cominciò a spandersi, a
dilatarsi.
- Vedete? vedete?
Nella scodella, al
lume incerto del cero, tremolava un disco lucente, come una luna.
Le vicine s'erano
rizzate sulla punta dei piedi, allibite; qualcuna si picchiava il petto
con le pugna, dallo stupore. La Malanotte buttò alla fine l'acqua
della scodella in un catino:
- Tutto malocchio
accumulato!
Versò altra acqua
nella scodella sul capo del vecchio, vi fece cadere un'altra goccia
d'olio, la quale questa volta si dilatò un po' meno agli scongiuri. Ripeté
altre volte quest'opera di magia, finché la goccia non rimase qual'era,
galleggiante in mezzo alla scodella. E allora la Malanotte annunciò:
- L'ho liberato. E
adesso a quel canaccio ci penso io!
Nessuno poté levare
dal capo alle vicine che il vecchio fosse guarito per opera della Malanotte.
- Vero miracolo!
E quando, poco dopo,
si sparse la notizia che al Maltese era sopravvenuto un male in cui
neppure i medici sapevano veder chiaro: «Giusta vendetta della strega!»
pensarono. E ci avrebbero messo le mani sul fuoco.
Maràbito s'era
levato da pochi giorni quando venne a sapere della malattia del Maltese.
Come avrebbero potuto mai immaginarsi le vicine che questa notizia dovesse
fargli tanta impressione? Lo videro piangere.
- Siete ammattito? E
che ve ne importa se muore? Ha tirato ad ammazzar voi, e s'è ammazzato
lui, invece, da sé. Ora, se la moglie e le figliuole non vi vogliono dare
ciò che vi spetta, dovranno restituirvi il podere. Non abbiate paura!
- Ma io non piango
per me! - protestò il vecchio. - Per me provvederà Dio. M'affliggo per
lui, che alla fin fine è padre di famiglia e tanto più giovane di me.
E appena ebbe
notizia che il Maltese, non ostante il grave stato in cui si trovava,
s'era fatto trasportare per forza giù al negozio su una seggiola, stimò
dover suo andargli a far visita Non erano amici, oramai?
Non s'aspettava,
povero vecchio, d'essere accolto a modo d'un cane.
Seduto presso il
banco lo Scinè appena lo vide entrare, diede un pugno e urlò, tentando
di levarsi in piedi:
- Avete il coraggio
di comparirmi davanti? Fuori! Uscite fuori, assassino! Cacciatelo via!
I commessi di
negozio accorsero ad afferrarlo per le braccia, per il petto, per le
spalle, e lo spinsero sulla strada, mentre il povero vecchio s'affannava a
ripetere:
- Ma che colpa ci ho
io, se la morte non m'ha voluto? Non si può fare apposta... Non è
mancato per me...
VI
Tra
fasci di vétrici, di vinchi, di vimini, lunghi come serpentelli, Maràbito
passava ora la giornata a intrecciar panieri, corbelli, cofani e cesti,
per consiglio delle buone vicine.
- L'ozio vi fa male.
Non ci siete avvezzo. Codesto è lavoro lieve e vi servirà di passatempo.
E lui, svelto come
un giovanotto. Bisognava vederlo. Col lavoro gli era tornata l'allegria.
- Quando n'avrò
fatti parecchi, ogni mattina me n'andrò in giro a venderli. «Ceste,
corbelli, panieri!» Voglio fare la dote ad Annicchia.
Annicchia era una
bambina, orfana di padre e di madre, Che una delle vicine, la z'a Milla,
s'era tolta in casa e trattava da figliuola. Le volevano bene tutti, lì
nella Piazzetta di Santa Croce; e perciò quella promessa del vecchio, di
farle la dote, fu accolta con gioja. Ogni mattina le vicine aiutavano Maràbito
a caricarsi delle sue ceste. Caricato, egli si faceva il segno della croce
e provava il bando:
- Ceste,
corbelli, panieri!
Poi si voltava a
domandare
- Va bene così?
- Benone! -
rispondevano quelle, ridendo. - E Dio vi accompagni, zi' Marà! E non
dimenticate di passar davanti la bottega di quel galantuomo; e strillate
forte allora: così la faccia gli diventerà più verde dalla bile.
Ma no, questo no,
Maràbito non voleva farlo, quantunque il Maltese l'avesse trattato a quel
modo, l'ultima volta. Per via Atenèa doveva passare per forza, ma quanto
più al largo gli fosse possibile dalla bottega di colui, e zitto, ché
quegli non l'udisse neppure da lontano. Non gli pareva giusto fargli
dispetto, tanto più che lo sapeva in istato di giorno in giorno più
grave, ostinato tuttavia a star lì nella bottega, a morir lì. Gliene
rincresceva sinceramente, ma più gli rincresceva che, conoscendo i suoi
sentimenti, il Maltese non lo chiamasse più come prima per parlargli
della campagna.
Dacché s'era
ammalato. non ne aveva quasi più notizie. Per averne, doveva aspettare
che venisse su in città Grigòli di tanto in tanto. E quelli per lui
erano giorni di festa. Domandava di quel tal mandorlo, di quel tale olivo
e della vigna e dell'agrumeto, e non gl'importava che la terra non fosse
più sua, purché facesse il suo dovere e, lasciando contento il nuovo
padrone, si facesse amare da lui.
- Di me non è
contento; sia almeno contento di lei! E le mule? Come stanno, le mule?
stanno bene? Anche l'asinella è morta, ho saputo! Pazienza! S'è levata
di patire. Le bestie, figlio mio, guardale bene negli occhi: t'accorgerai
che la fatica la capiscono; la gioia, no.
E dava a Grigòli i
buoni consigli ch'era solito di dare al Maltese prima della rottura.
- Bada, Grigoletto:
se non cadono le prime acque, non rimandare. La pianta ti resta ferita e
l'acqua le può far male. E un'altra cosa ti dico: appena piove, rompi la
terra e sta' ad aspettare che l'erba schiumi di nuovo; poi passa l'aratro,
e il terreno ti verrà netto, e allora sémina. Ma dimmi... non sai dirmi
nulla?
- Nulla, -
rispondeva Grigòli, scrollando le spalle. - Che volete che vi dica? Ogni
notte canta il gufo laggiù.
Il vecchio alzava le
lunghe sopracciglia e chiudeva gli occhi, scotendo il capo.
- Segno di buon
tempo! E se questa luna di settembre non ci porta acqua, siamo rovinati,
Grigoletto! Tutta l'annata se n'andrà leggera. Si scorge l'isola di
Pantelleria, sul tramonto, in fondo in fondo al mare?
Grigòli rispondeva
di no col capo.
- Abbiamo guai! «Se
si scorge Pantelleria, certo l'acqua sta per via.» Regola che non
falla delle nostre campagne. Porti fichi d'India al padrone? Tieni, vèrsali
qua, in questi due panieri nuovi: te li regalo io.
Se avesse saputo che
il Maltese, di lì a poco, quei due panieri nuovi li avrebbe fatti saltar
dalla finestra! Ma roba di colui in casa non ne voleva.
- Jettatore? Peggio!
- gridava col sangue agli occhi a Grigòli. - Vedi come m'ha ridotto?
Fattura della Malanotte, per ordine di lui! L'ho saputo. E se muoio
- oh! - mia moglie è avvisata: in galera debbono andare, in galera tutt'e
due! Assassinio premeditato. Altro che cerosi epàtica! Mi fanno ridere i
medici!
E, voltandosi alla
moglie, alzava una mano in segno di minaccia, come per ricordarle: «Guaj
a te, se non lo fai!».
La signora Nela,
rossa come un peperone, si mordeva il labbro per non piangere in presenza
del marito: sentiva spezzarsi il cuore nel vederlo ridotto in quello
stato, proprio agli estremi. Credeva anche lei che la Malanotte e
il Maràbito fossero cagione di quella sciagura. E quando, di lì a pochi
giorni, il Maltese, pur protestando nel delirio dell'ultima febbre che non
voleva morire, morì; davvero ella chiese consiglio a un avvocato, se non
fosse il caso d'agire contro i due assassini.
Maràbito, quel
giorno, vedendo le tre porte del negozio serrate, con la fascia nera di
traverso in segno di lutto, rimase un pezzo quasi inchiodato sul lastrico
della via. Se ne tornò al Ràbato come un cane bastonato. Le vicine si
radunarono in grande assemblea, discussero animatamente su ciò che al
vecchio convenisse di fare e alla fine decisero di mandarlo dal notaio Zàgara,
raccomandandogli però di tenersi ben fermo nei termini del contratto,
ch'era per lui una botte di ferro.
- Come! - esclamò
Nocio Zàgara, vedendosi davanti il vecchio con la berretta in mano. - Non
v'hanno ancora messo in prigione?
Maràbito lo guardò
dapprima stordito, poi sorrise mestamente e disse:
- La morte in
prigione, Eccellenza. Che colpa ci ho io?
- Voi e la Malanotte,
come no? - replicò il notajo. - La morte era venuta a casa vostra, e voi,
d'accordo con la strega, l'avete invece mandata da don Michelangelo! Tutto
il paese lo dice. E già la vedova, caro mio, sta pensando per voi.
- Per me? Oh! oh!
Non facciamo storie! Perché io, se mai, non c'entro né punto né poco! -
rimbeccò il vecchio, incrociando le braccia sul petto. - Glielo giuro,
signor notajo, su la salute dell'anima mia!
Non s'accorgeva che
il notajo voleva fargli paura per prendersi giuoco di lui.
- Ah, vedete?
Confessate voi stesso che il maleficio c'è stato. Ne farò testimonianza
davanti ai giudici.
- Io? - gridò
allora Maràbito, come smarrito all'improvviso nello spavento. - Io, ho
confessato? Ma se non ne so nulla, io! Ero in fin di vita, io! Ah, in
galera, per giunta, mi vogliono gettare? Levarmi il podere e gettarmi in
galera a ottant'un anni, perché non sono morto come quel poveretto di
Ciuzzo Pace, dopo sei mesi? Ma c'è la giustizia divina per i poverelli! E
già se n'è vista la prova: è morto lui, invece, lui che aveva tirato ad
ammazzare me!
- Basta, basta, -
disse il notaio che non ne poteva più dal ridere. - Speriamo che non
avvenga nulla... Ci sono altri guaj però. Eh, non vi siete contentato di
sbarazzarvi di lui soltanto: c'è anche un mondo d'imbrogli nell'eredità.
Maràbito, già
messo in guardia dalle vicine, corrugò le ciglia.
- Imbrogli? Non
voglio saperne! Per me c'è il contratto che parla chiaro. Mi ripiglio la
terra.
- Eh, vedremo... -
sospirò lo Zàgara alzandosi. - Lasciate che vada dalla vedova, e spero
d'accomodare ogni cosa. Tornate da me questa sera.
In casa della
signora Nela il notajo trovò il medico che venuto per una visita di
condoglianza, s'affannava a ripetere.
- Ma no; ma no,
signora! Sciocchezze... Non dia retta. Caso tipico di cirrosi epàtica.
Caso tipico!
E aveva sulle labbra
un sorriso di compatimento per l'ignoranza dell'enorme signora.
Andato via il
medico, la signora Nela ebbe come un terremoto nelle poppe, che alla fine
eruppe spaventosamente in singhiozzi e strilli: un'ira di Dio. Nocio Zàgara
soffriva il contagio del pianto. Vedendo sussultare quella montagna di
carne, anche la sua si mise a sussultare come per un altro terremoto Ma
subito si alzò, irritatissimo, e quasi per castigare il pianto in sé e
nella vedova, esclamò:
- E questo è nulla,
signora mia! C'è di peggio! di peggio!
L'esclamazione non
giovò. E allora don Nocio, risolutamente, venne a piantarsi di fronte
alla signora Nela.
- O lei si calma un
momento, signora, o io me ne vado. Lei è madre di famiglia e deve pensare
alle sue figliuole. Parliamo d'affari!
Come se fossero roba
da ridere, gli affari! La signora Nela, appena venne a sapere che la
posizione finanziaria del defunto marito non solo era scossa, ma anche
mezzo rovinata, se prima piangeva, ora levò certi strilli da spaccare i
muri della casa. Nocio Zàgara s'avvilì; pensò di traviar la furia di
quella disperazione rovesciandola addosso al Maràbito.
- Per carità, non
me ne parli! - urlò la signora Nela, levando le braccia.
- Se la buon'anima
avesse voluto darmi ascolto! - sospirò il notaio. - Intanto, cara
signora, bisogna pure parlarne. Che vuoi fare? Per me, è come lasciarsi
aperta una vena e perdere sangue a goccia a goccia. Gutta cavat lapidem.
- Mai più! Mai più!
- esclamò la vedova. - Quell'assassino è capace di far morire anche me e
le mie figliuole. Via, via! non voglio più sentirne parlare!
- Bene, - concluse
il notaio: - in questo caso, avrei da presentarle una proposta. C'è già
chi s'assumerebbe gl'impegni del contratto col Maràbito. Un amico mio.
Gli feci notare che il povero don Michelangelo pagò per sei anni il
vitalizio. « Dolentissimo », mi rispose l'amico, « ma chi glielo fece
fare? Peggio per lui che pagò! » - Gli parlai allora della cascina nuova
che costa già parecchie migliaia di lire e non è ancor finita. In
groppa, anche questa? No. Per la cascina, dice, sarebbe disposto a dare
qualche cosa, da tre a quattro mila lire. Ora, se lei accetta questa
proposta, ci sarebbe da cogliere, come suoi dirsi, due piccioni a una
fava; e cioè, liberarsi del jettatore e d'un vecchio debito. Come lei ha
potuto vedere dalle carte che le ho presentate, il povero don Michelangelo
mi doveva cinque mila lire. Le tre o quattro mila (speriamo che siano
quattro!) che il nuovo contraente darà per la cascina, andrebbero, non a
scomputo, ma a saldo del mio credito. Io mi contento. È contenta lei?
Contentissima, la
signora Nela. E il notaio se ne tornò allo studio, ch'era già sera
chiusa.
Maràbito lo
aspettava.
Don Nocio, come lo
vide, gli posò le mani sulle spalle e disse, traendo un gran sospiro:
- Una volta c'era un
padre che si lamentava così: « Non piango perché mio figlio perde al
giuoco; piango perché vuol rifarsi giocando ancora! ». Ero in credito di
cinque mila lire col Maltese. Per non perderle, sto commettendo la più
grossa pazzia della mia vita. Sedete. Quant'anni avete?
- Ottantuno, -
rispose Maràbito, sedendo.
- E non siete ancora
soddisfatto? Che intenzione avete?
Il vecchio rimase a
guardarlo senza comprendere.
- Ah, fate finta di
non capire? Campate troppo, caro mio. Brutto vizio! E dovreste levarvelo.
Maràbito sorrise e
alzò una mano a un gesto vago.
- La vita,
Eccellenza? - disse. - Pare lunga, ma passa. A me è passata, come stando
affacciato a una finestra.
- Benone! - esclamò
don Nocio. - E avete intenzione di starci affacciato ancora a lungo a
codesta finestra?
- Per me, - rispose
il vecchio, - se la morte viene a chiudermela anche domani, mi fa piacere.
Morire, sì, Eccellenza: ci vuol niente; ma campare apposta non si può,
se Dio vuole. Deve dirlo Lui, e io sono pronto. Che comandi ha da darmi?
Il notaio gli diede
convegno per il giorno appresso: avrebbe rinnovato il contratto del
vitalizio, assumendosi lui gl'impegni del Maltese.
- Purché... - gli
disse, aprendo le braccia e abbandonando a quel gesto la frase.
Il vecchio, dalla
via, alzò un dito al cielo pieno di stelle e poi congiunse le mani, per
significare
- Preghi il signore.
VII
Quando
la signora Nela venne a sapere che l'amico di cui le aveva parlato il
notaio Zàgara a proposito del vitalizio era proprio lui, il notaio
stesso, parve addirittura che volesse arrabbiare. Già sosteneva che don
Nocio doveva essersi mangiata mezza l'eredità del marito. Era mai
possibile che il più ricco mercante del paese avesse lasciato la famiglia
in così tristi condizioni? La prova, eccola lì, del resto: lo Zàgara
non aveva avuto il coraggio di confessarle che il contratto col vecchio
l'avrebbe rinnovato lui, per conto suo, a quei patti da vero giudeo. E se
lo rinnovava per conto suo, non era segno che l'affare era buono?
Approfittarsi d'una
povera vedova! di due povere orfane! - gridava alla gente che veniva a
condolersi della sciagura.
Azionaccia che grida
vendetta davanti a Dio! Ladro! ladro! Causa d'ogni male non era più il
Maràbito, adesso, ma il notajo. Fidava in Dio, però, che quel podere
dove la sant'anima del marito aveva buttato tanti denari, quel podere,
come non se l'era goduto lei, non se lo sarebbe goduto neanche colui. E un
giorno mandò a chiamare il vecchio.
Maràbito le si
presentò tutt'afflitto e imbarazzato. La signora Nela, appena lo vide,
rinnovò i pianti e gli strilli; poi proruppe:
- Vedete? vedete che
avete fatto?
Il vecchio aveva
anche lui le lagrime agli occhi.
- Non piangete! non
piangete! - gli gridò subito con rabbia la signora Nela. - A un solo
patto posso perdonarvi: a patto che facciate a lui, a quel brigante, ciò
che faceste a mio marito! Scorticatelo vivo, fatelo morire prima di voi, e
vi perdono! Non v'arrischiate di morire ora, sapete! Non deve goderselo il
podere, quel brigante! non deve berselo il sangue di mio marito! Se siete
cristiano, se avete coscienza, se vi preme l'onore, campate! campate!
sempre in salute, mi raccomando! vegeto e forte, finché egli non crepi!
Avete capito?
- 'Cillenzasì,
come voscenza comanda, - rispose il vecchio investito, stordito da
quella furia rabbiosa di parole. - Ma signora mia, mi creda, sono
mortificato, e Dio solo sa quello che provo dentro di me in questo
momento. Potevo mai credere, potevo mai aspettarmi, che dovessi campar
tanto?
- E altrettanto,
altrettanto dovete campare! - riprese con nuova furia la signora Nela. -
Per castigo di quell'imbroglione! Datevi curai Se vi bisogna qualche cosa,
ditelo, venite da me. Perfino il pane di bocca mi leverò per darlo a voi!
Siete provvisto d'abiti? Aspettate: ve ne darò io... ora posso darvene...
quelli della buon'anima... Dovete guardarvi dal freddo, ora che l'inverno
è alle porte. Aspettate, aspettate!
E per forza volle
fargli un fagotto d'alcuni abiti grevi del marito. Nel toglierli
dall'armadio, piangeva, si mordeva il labbro, strizzava gli occhi,
inghiottiva.
- Aspettate...
aspettate... ecco, anche questo mantello... Se lo metteva, sant'anima,
quand'andava laggiù, alla vostra campagna... Tenete, tenete...
portatevelo... Vi terrà caldo; vi riparerà dalla pioggia e dal vento...
Guardatevi dal prender aria, all'età vostra! C'è sempre tanto ventaccio
in questo nostro paese!
Maràbito non poté
fare a meno di caricarsi di quei doni, che non dimostravano né carità né
benevolenza per lui, e se ne tornò avvilito al casalino.
- Caccia, Maràbito?
Che portate? - gli domandarono le vicine allegramente, credendo ch'egli
portasse roba per il corredo dell'orfana. Ma, vedendo gli abiti e il
mantello del Maltese, fecero gli scongiuri di rito.
- Codesta roba vi
siete presa? Buttatela subito via, senza toccarla con le mani!
Il vecchio scrollò
le spalle e rifece pian piano il fagotto. Ma quella notte, con gli abiti
del morto in casa, non poté chiudere occhio e gli parve mill'anni che
spuntasse il giorno per disfarsene, dandoli in elemosina ai più bisognosi
di lui.
Gli rimase da allora
come un'ombra di tristezza sul volto che s'incupiva di più in più, ogni
qual volta ritornava dal riscuotere le rate del vitalizio. Il notaio, per
dir la verità non lo trattava male; ma sempre a battergli in faccia la
stessa cosa, del brutto vizio di campar troppo. E il povero vecchio se ne
crucciava. Non era mai stato di peso a nessuno in vita sua, ed ecco che
ora viveva unicamente per esser di peso a sé e agli altri. Quell'andare
ogni quindici giorni a farsi pagar lo scotto di quel peso era divenuto per
lui una vera condanna e con tutto il cuore desiderava, ogni volta che ne
ritornava, che quella fosse l'ultima. Ma i giorni passavano, passavano i
mesi e gli anni; la tristezza cresceva, e la morte non veniva; non veniva.
Le vicine, vedendolo
così, avevano raddoppiato le cure: non permettevano ch'egli s'indugiasse
più tanto, la sera, a conversare con loro, seduto davanti la porta del
Casalino.
- Rientrate: fa
fresco. Or ora verremo noi!
Aspettavano che i
loro uomini ritornassero dal lavoro, o su dalle campagne, o dalle fornaci,
o dalle fabbriche: la prima visita era per il vecchio. E lì, nel
Casalino, dopo la magra cena, si raccoglievano le sere d'inverno a
tenergli compagnia, gli uomini fumando a pipa, le donne facendo la calza,
e forzavano il vecchio taciturno a parlare della sua lunga vita,
dell'America lontana, dov'era stato da giovine, e dove s'era adattato a
far di tutto.
Meglio nero pane,
che nera fame.
Così aveva potuto
mettere insieme il capitaluccio, col quale, tornato in patria, aveva
acquistato il poderetto laggiù. E a mano a mano, parlando degli anni
lavorati, il vecchio si sollevava dal peso della malinconia. Parlava di
tutto: sapeva di tutto; ne aveva viste tante!
- Voi? Oh santa
Maria! E che sapete voi? - gli diceva cerò, scrollando il capo e
socchiudendo gli occhi, qualcuna delle più giovani vicine. - Siete come
un bambino, siete!
E tutte le altre
donne ridevano.
Quelle conversazioni
serali non si protraevano però a lungo, sia perché gli uomini dovevano
poi levarsi ai primi albori per le loro fatiche, sia per non stancar
troppo il vecchio. Gli auguravano la buona notte; gli raccomandavano di
serrar bene la porta e di chiamare a un bisogno; poi si scambiavano a
bassa voce, per via, le loro impressioni su lo stato di lui.
- Cent'anni,
cent'anni campa, com'è vero Dio! Già poco ci manca... Sta benone!
- Sì sì, ma tante
volte, anche stando così bene... tutt'a un tratto... A quell'età, non si
sa mai... Muoiono come gli uccellini.
E si voltavano a
guardar costernati la porta chiusa del casalino nella piazzetta deserta
coi ciottoli luccicanti sotto la luna. Chi sa se il vecchio domani la
avrebbe riaperta, quella porta?
VIII
Per
anni e anni, la prima a riaprirsi, all'alba, nella piazzetta fu sempre
quella porta.
Era, senza dubbio,
una beffa della morte, al Maltese prima, ora al notaio Zàgara. E se ne
faceva un gran ridere in tutto il paese. Non c'era giorno che tre o
quattro curiosi non si recassero al Ràbato per vedere il vecchio che «
per castigo non moriva ».
Essendosi però
formata in paese, intorno al Maràbito, una specie di leggenda che lo
raffigurava ilare, vegeto, ostinato a campar per dispetto, quei curiosi
provavano a prima giunta un disinganno nel vedersi invece davanti un
vecchierello curvo, magro, umile e schivo, il quale si schermiva rudemente
dalla loro vista e dalle loro domande, che sonavano ai suoi orecchi
derisione per il povero notajo, di cui egli non solo aveva da lodarsi, ma
rimpiangeva sinceramente il danno che quel suo vivere increscioso e
dispettoso gli arrecava senza alcun suo piacere.
- Lasciatemi stare!
Mi sono seccato! - gridava, avvilito e con esasperazione, alle vicine che
andavano a scovarlo dentro il casalino, dove s'era rintanato all'apparire
di qualche sconosciuto nella piazzetta di Santa Croce.
Le vicine non lo
facevano per male. Quella curiosità di tutto il paese pareva loro di buon
augurio al vecchio che esse tenevano in custodia, come se qualcuno lo
avesse affidato alle loro cure perché veramente un miracolo si compisse;
e perciò a gara lo mostravano a tutti:
- Doman l'altro,
novantaquattro anni! Non muore più.
Circa vent'anni
addietro, quand'egli cioè dalla campagna era venuto ad abitare in quel
Casalino, esse avevano ancora i capelli biondi o neri; e ora, eccoli qua:
- grigi! bianchi! mentre il vecchio era rimasto tal quale. Per tutti il
tempo era passato; per lui solo, no. Il tale era morto, era morto il tal
altro, lì accanto; non era dunque da dire che la morte non fosse passata
per quella piazzetta; ma come se la casa del vecchio per lei non ci fosse
stata.
Maràbito ascoltava,
attonito, quel racconto delle vicine, tante volte ripetuto; ma ogni volta
sentendo nominare i morti del vicinato, tutti meno vecchi di lui e utili
ancora alle loro famiglie, si metteva a piangere silenziosamente con gli
occhietti calvi, risecchi dagli anni. Le lagrime gli scendevano giù per i
solchi delle rughe fino alla bocca infossata e raggrinzita; e allora
levava una mano tremolante e con le dita nodose si stringeva le labbra.
- E questa qui? -
dicevano le vicine per distrarre subito il vecchio, indicando Annicchia,
l'altra loro protetta. - Aveva appena due anni, povera orfanella, quando
lui venne quassù. E ora, che ragazzona, eh! Il nonno aveva promesso di
pensare a lei; ma da un pezzo in qua fa il cattivo e dimostra di non voler
bene a nessuno.
Infatti Maràbito di
quella sua longevità s'era fatta a poco a poco una vera fissazione: aveva
davvero cominciato a credere che la morte si fosse apposta dimenticata di
lui per far quella beffa che tutti dicevano. Già il podere, tra i denari
che s'era presi dal Maltese e quelli che tuttavia si prendeva dal notaio Zàgara,
lo aveva avuto pagato e strapagato: la morte dunque, tenendolo ancora in
piedi, si divertiva proprio a fargli commettere una cattiva azione, a
fargli far la parte dello scroccone, ecco. Egli non voleva. Tutto il paese
ne rideva, come se lui ci provasse gusto a vivere così alle spalle
altrui; e invece no, no; non voleva, non voleva più! E le cure, le
raccomandazioni premurose delle vicine lo stizzivano. Non volevano forse
ridere anch'esse alle sue spalle? E s'esponeva al freddo, apposta; usciva
di casa col tempo minaccioso, apposta; e apposta ritornava zuppo di
pioggia, e si ribellava se quelle gli davano del vecchio stolido e lo
cacciavano subito dentro per farlo cambiare e mettere a letto.
- Lasciatemi stare!
Lasciatemi morire! Appunto questo vo cercando! Mi sono seccato!
Gli sorse perfino il
sospetto che una forza arcana, d'oltre tomba, lo tenesse in piedi: l'anima
penante di Ciuzzo Pace, il quale piangeva certo ancora il poderetto suo
perduto per pochi soldi. Ecco, sì, Ciuzzo Pace era, Ciuzzo Pace che
voleva essere vendicato da lui.
E prese a far dire
ogni domenica una messa in suffragio di quell'anima in pena.
- Se si libera lui,
mi libero anch'io.
Queste e altre
notizie, confidate dalle vicine a quei curiosi venivano poi riferite al
notajo Zàgara, il quale teneva testa, come meglio poteva, alle beffe che
tutti si facevano di lui.
- Beffatemi!
beffatemi! - esclamava. - È sempre poco il danno, son sempre poche le
beffe: ben altro mi merito: nerbate! ma non mi dite male del vecchio, vi
prego. Galantomone, poveretto! Lo so: sta piangendo anche lui il castigo
che io mi sono meritato. Gli debbo, non solo gratitudine, ma un compenso,
e glielo darò. Se arriva a cent'anni, come gli auguro: vedrete! Musica,
luminaria, un banchetto da far epoca! V'invito tutti fin da ora.
Non aveva parenti, né
prossimi né lontani: poteva dunque pigliarsi il gusto di coronare
trionfalmente la bestialità commessa. E un giorno che scadeva la rata del
vitalizio, non vedendo il vecchio presentarsi allo studio, s'addolorò
veramente e volle recarsi al Ràbato per averne notizie.
Trovò Maràbito
seduto, al solito, davanti la porta del casalino, tutto raccolto sotto un
debole raggio di sole invernale.
- Bel gusto a far
muovere le montagne! - gli disse ansante, calandosi pian piano a sedere su
una seggiola, che una delle vicine corse ad offrirgli. - Che vi sentite?
Perché non siete venuto oggi allo studio?
Invece del Maràbito
rispose la z'a Milla, appressandosi insieme con le altre vicine:
- Voscenza
vuol sapere perché? Perché il nostro vecchio è stolido o ammattito.
- No, nient'affatto!
né stolido, né ammattito, Eccellenza, - disse Maràbito, corrugando le
ciglia. - Mi sono fatto il conto. La terra Voscenza me l'ha pagata
da un pezzo. Sono povero, ma onesto. Denari non ne voglio più.
Nocio Zàgara rimase
un po' a guardarlo, ammirato, poi gli disse:
- Caro vecchio mio,
siete più imbecille di me. Vi ringrazio di quanto mi dite, ma non posso
accettare. Debbo pagare fino all'ultimo centesimo, e pago col mio gusto e
il mio piacere.
- Ma lo sa Voscenza,
- riprese Maràbito con ira, - che se non faccio così, non muoio più? Le
giuro, che se non fosse peccato, da un pezzo... Ma vedrà Voscenza
che verrà da sé, la morte, appena io non prenderò più neppure un soldo
di questi denari che, in coscienza, non mi spettano. Il fondo, le ripeto,
l'ho avuto pagato più di quanto valeva.
- Non ancora da me,
- replicò il notajo. - Io porto con voi la croce da quattordici anni, è
vero? Vuol dire che finora v'ho dato... eccolo qua, il conto: me lo son
fatto anch'io... vi ho dato diecimila duecento venti lire. Il podere fu
stimato dodici mila: dunque ho ancora parecchi anni da pagare.
- E quelli che mi
son presi dalla buon'anima del Maltese? - gli fece notare Maràbito.
- Non sono affar
mio.
- Ma l'affare, mi
scusi, l'ho fatto io o l'ha fatto Voscenza? Oh quest'è bella! Non
sono dunque padrone di morire?
Il notaio alzò la
testa con comica serietà:
- No, finché io non
vi abbia pagato fino all'ultimo centesimo. Se poi volete vivere ancora,
tanto piacere! Vi prometto che ci divertiremo.
E se n'andò,
lasciando il denaro.
IX
Uomo
di parola, il notaio Zàgara. La mattina del gran giorno, il sobborgo Ràbato
fu destato dall'allegro strepitar della banda musicale che, a suon di
marcia, si recava all'abitazione del vecchio centenario. Il casalino era
stato parato festosamente di ghirlande e bandiere, durante la notte,
mentre il vecchio dormiva. Nella piazzetta erano rizzati i pali per la
girandola. E un'altra sorpresa le buone vicine avevano preparato al loro
vecchietto: un abito nuovo per la festa, tagliato e cucito da loro.
Quando la folla,
insieme con la banda, si riversò nella piazzetta, la porta del casalino
era ancora chiusa.
- Evviva Maràbito!
Fuori! Fuori, Maràbito!
Niente. La porta
restava chiusa. Invano i vicini vi bussavano con le mani e coi piedi. Lo
strombettio e le grancassate furiose della banda, tra il frastuono confuso
delle grida e degli applausi assordava, e invano di qua, di là qualcuno
si levava, interprete della costernazione del vicinato, a far cenni di
tacere, d'aspettare che il vecchio aprisse e desse segno di vita
A un tratto, un
nuovo grido partì dalla folla:
- Viva il notajo!
Nocio Zàgara si
sbracciava, con la tuba in mano, a ringraziare, sovrastando tutti con
l'alta persona. Li pagava cari quegli evviva, che non eran per beffa quel
giorno: la gente si divertiva alla festa straordinaria e del divertimento
gli era grata: non l'avrebbe certo tenuta il Maltese, quella festa.
Sì, ma non
l'avrebbe tenuta neanche il notajo, se avesse potuto supporre che essa
avrebbe cagionato al vecchio tanto dolore e tanto avvilimento. Lo
comprese, appena pervenuto tra quel gran rimescolio di gente, davanti la
porta del casalino. Si fece far largo; ordinò ai vicini di guardare
l'entrata per impedire che la folla si rovesciasse dentro, e picchiò alla
porta col bastone, dando la voce.
Il vecchio
finalmente aprì, e allora scoppiarono più calorosi gli applausi e le
grida della folla.
- Come! Perché? -
esclamò don Nocio, vedendo Maràbito tutto tremante e in lagrime. - Un
popolo intero vi fa festa, e voi piangete? Così mi ringraziate d'aver
voluto festeggiare i vostri cent'anni?
Non ci fu verso di
fargli intendere che quella festa non era per metterlo in berlina. E
quando alla fine, spinto dal notajo s'affacciò alla finestrella sulla
porta del casalino, piangeva e tentennava il capo agli evviva e agli
applausi della folla.
Annicchia gli recò
l'abito nuovo, insieme con le altre vicine, poi nella chiesa di Santa
Croce fu detta una messa, a cui anche il notajo volle assistere:
- La prima e
l'ultima!
E, all'uscita, spari
di mortaretti e stamburate. Venne alla fine l'ora del banchetto.
Nocio Zàgara aveva
preso in affitto, per quest'avvenimento, un magazzino a pian terreno,
lungo che non finiva mai: da un capo all'altro correva la tavolata. Vi
presero posto, da una parte gli amici del notajo, dall'altra il vicinato.
Maràbito vi fu portato in trionfo, quasi a viva forza, e fu fatto sedere
al posto d'onore, accanto allo Zàgara. Era sbalordito. In mezzo alla
baraonda, si voltava ora verso l'uno ora verso l'altro dei commensali che
lo chiamavano coi bicchieri levati per augurargli di vivere altri
cent'anni, e chinava il capo in segno di ringraziamento. Egli solo non
rideva, non mangiava, non beveva. Alcuni, a principio, s'erano messi a
forzarlo, ma poi, pregati dal notajo, avevano smesso. La festa non era per
lui; era per gli altri; egli rappresentava lì solo i cento anni: i cento
anni che non volevano dire più nulla. A pensarci veramente, tutta quella
baldoria era, nella sua sguajataggine, così triste da far cascare le
braccia e il fiato. E per giunta si volle che il vecchio parlasse, facesse
un brindisi, dicesse almeno due parole. Tanto insistettero, che alla fine
lo fecero levare in piedi, col bicchiere che gli tremava in mano.
- E che debbo dire?
La mia vergogna, Dio solo la vede. Ringrazio questo mio benefattore. E non
mi resta che di mettere un bando per la città: che la gente, nelle cui
case entra la morte, le dica che a Santa Croce al Ràbato c'è un vecchio
che da tant'anni la aspetta, che se lo venga a prendere...
Ma a questo punto
Maràbito fu interrotto dal levarsi frettoloso d'alcuni convitati, i
quali, in mezzo al coro delle risa che accompagnava ogni sua parola,
avevano visto il notajo impallidire tutt'a un tratto e piegar sul petto il
grosso testone. Tutti si voltarono a guardare, sorsero poi tutti in piedi
e s'affollarono a precipizio attorno allo Zàgara. Si credette dapprima
che il frastuono, il troppo ridere, il vino, avessero cagionato al povero
notajo quel malore improvviso. Tra lo scompiglio generale, Nocio Zàgara
fu portato su la stessa seggiola in una casa vicina, sorretto da tante
braccia: aveva gli occhi chiusi e la bocca spalancata, da cui usciva un
rantolo angoscioso.
Il lungo magazzino,
con la mensa tutta in disordine, le seggiole rovesciate, restò vuoto.
Nessuno aveva badato al vecchio centenario, il quale era caduto per terra
in preda a un tremito convulso, nell'atto d'accorrere con gli altri dietro
a colui ch'egli poco prima aveva chiamato suo benefattore.
X
Qualche
rara goccia su la tremula mano tesa: poi, appena percettibile, il
picchiettar delle prime gocce su i pampini mezzo ingialliti della vigna.
Ora, ecco, le gocce infittiscono, ed è un vasto crepitio continuo.
- Nonno, piove?
Il vecchio Maràbito
china più volte il capo, sorridendo a Nociarello che gli sta seduto
accanto, sulla soglia della cascina che il Maltese aveva fatto fabbricare
al posto dell'antica roba.
Grigòli e
Annicchia, marito e moglie da quattro anni, sono per la campagna, tornata
in potere di Maràbito dopo la morte del notajo: Grigòli su per gli
alberi abbacchia le ulive; Annicchia le raccoglie da terra. Poveretta! è
incinta di nuovo; e il vecchio vorrebbe ajutare la sua figliuola adottiva.
Non gli pesano più, ormai, i suoi cento cinque anni... Ma quelli non
permettono e lo lasciano a guardia del bambino, a cui, per gratitudine,
hanno imposto il nome della buon'anima del notajo.
- Nonno, e mamma? -
domanda di nuovo Nociarello, costernato dalla pioggia.
- Adesso verrà di
corsa, - risponde il vecchio. - Lascia piovere, ché la terra ha sete, e
questa è acqua buona!
Da presso e da
lontano i galli annunziano lievemente quella prima rivoltura del tempo. Le
calandre s'indugiano ancora su i piani, quasi in dubbio che quelle nuvole
non vogliano far sul serio, e di tratto in tratto si scambiano qualche
trillo breve, come per consigliarsi:
- Scappiamo? |