ZAFFERANETTA
Sirio
Bruzzi corse esultante in camera della madre, agitando la lettera del
cugino arrivata or ora, datata da Banana su la foce del Congo.
- La porterà,
mamma! Ah, «mimmomammina» mia, come sono felice! La mia Titti! la mia
Titti! -Giongo- risale il fiume, lo -steamer- è in partenza! Povero
Giongo mio! caro il mio piccolo Gionghicello! deve andare per... non so più
dove per qual diavolo di pasticcio burocratico; uno dei soliti! Tra una
quarantina di giorni sarà a Mesània; forse c'è già, a quest'ora; corre
a Mokàla; prende la mia Titti, e ritorna, ritorna anche lui per sempre!
Su, va', mamma, va' ad annunziarlo alla zia Lena! chi sa come ne sarà
contenta anche lei! Io scappo da Nora. Uscendo dalla zia, vieni da «Nianò»
anche tu, a pigliarmi, eh? t'aspetto!
Si chinò a baciare
la mamma e scappò via, con quella lettera in mano.
La povera signora
Bruzzi restò un pezzo stordita, come le soleva avvenire a ogni nuovo
assalto di quel benedetto figliuolo. Ma il sorriso lieto, provocato
dall'esultanza di lui, a poco a poco le s'illanguidì sulle pallide
labbra.
Pensò che Norina,
la fidanzata a cui Sirio era corso a far leggere quella lettera, non
poteva certo in cuor suo esultare come lui per la notizia ch'essa recava;
ne doveva anzi provare afflizione, e tanto più forte, quanto più viva
avrebbe veduto ridere e gridare la gioja di lui. Non era questa gioja a
costo d'un suo sacrifizio? Sì, Norina vi s'era rassegnata; ma non per
questo Sirio avrebbe dovuto darle ora spettacolo di quella gioja, e quasi
pretendere che ne partecipasse. Ah, benedetto figliuolo, proprio non
ragionava più!
Quando mai però, a
dir vero, aveva ragionato il suo Sirio ?
Del padre, morto
giovine e tragicamente in duello, aveva preso la furia di gettarsi alle più
rischiose avventure. Pareva avesse dentro, per anima, una bufera:
investiva e scompigliava tutto. Quando non poteva altro, storpiava i nomi,
ruzzolava frasi sconclusionate, parole inconcludenti; s'abbaruffava con le
sillabe di esse, faceva far loro capitomboli: Nora, Nianò, Rorina, Elinanò.
Non sapeva più lei
stessa, la signora Bruzzi, come avesse fatto a condurlo sano e salvo
dall'infanzia alla giovinezza. Lo aveva fatto arrestare una prima volta,
quando le era scappato di casa, giovinetto, per correre in Grecia a
raggiungere la spedizione garibaldina; poi, una seconda volta, già in
partenza per l'Africa, in difesa dei Boeri. Alla fine, per il Congo, aveva
dovuto chiudere gli occhi e chinare la testa.
Sirio era già
maggiorenne.
Finiti insieme col
cugino Lelli i sei mesi d'ufficiale di complemento, tutti e due erano
andati nel Belgio a fare il corso coloniale e s'erano arruolati nella
milizia dello Stato libero del Congo. Dopo sei anni le era ritornato in
licenza, irriconoscibile: pieno di piaghe e con la dissenteria; e,
sissignori, appena rimesso in piedi, voleva ritornarci. E sarebbe
ritornato; i pianti, gli scongiuri, il pensiero di lei che, già vecchia,
malata di cuore, ne sarebbe morta certamente, non avrebbero avuto potere
di trattenerlo, se, a Nocera dove lo aveva condotto a villeggiare e per la
cura delle acque, non le fosse venuta in ajuto quella buona Norina, Norina
Rua, col fascino della sua grazia e della sua musica.
Appena s'era accorta
che quella signorina Rua riusciva a far breccia nel cuore di lui, le s'era
messa attorno, quasi a covare la passione nascente.
Approssimandosi man
mano il termine della licenza, Sirio, nel sentirsi già legato dall'amore,
aveva cominciato a dare in ismanie, a cadere in cupe malinconie, finché
una sera se l'era visto entrare in camera disperato; s'era messo a
piangere, a piangere come un bambino; era innamorato, straziato dal
rimorso d'aver turbato il cuore di quella cara fanciulla con vane
lusinghe; e doveva partire, partire per forza.
- Ma perché?
Ah, perché... Aveva
laggiù, nel «settore» di Mokàla, di cui era capo, una figliuola di
cinque anni, nata da una giovinetta negra, che un giorno gli si era
presentata, fuggiasca da un villaggio lontano; era stata con lui circa due
anni e poi era sparita, durante una sua escursione nella foresta,
abbandonando la bimba.
Ebbene: egli amava
più di se stesso quella sua creaturina, quel fiore selvaggio della sua
vita avventurosa; nessun altro amore avrebbe potuto vincere quello.
E, seguitando a
piangere, le aveva parlato di tutte le cure, di tutti gli stenti per
allevare quella piccina abbandonata, che per cinque anni aveva riempito la
solitudine atroce della sua vita laggiù. Non poteva più staccarsene:
doveva partire, ritornare a lei.
A un solo patto
avrebbe potuto rimanere, che cioè il cugino Lelli, il quale tra qualche
mese doveva ritornare in Italia, in licenza anche lui, gli portasse la sua
Titti, e che la signorina Rua... Ma come sperare che ella volesse
accettarlo più, ora, con quella bambina?
Aveva accettato, la
signorina Rua. Era andata lei, la mamma, a scongiurarla, e Norina aveva
accettato, non ostante che la zia, l'unica parente ch'ella avesse, con
molte e sagge considerazioni avesse voluto indurla almeno a riflettere
bene, prima di dire di sì, alla gravità e alle conseguenze di quel
sacrifizio. Senza dubbio, era una prova di bontà e di costanza,
quell'affetto per la piccina; l'unica prova, a dir vero, che potesse dare
un certo affidamento; perché il giovine, via, onesto sì, ma scapato,
impetuoso, disordinato...
Ah che sgraffii
avrebbe voluto allungare la signora Bruzzi sulla faccia di cartapecora di
quella vecchia mummia con gli occhiali! Tanto più lunghi e profondi,
quanto più in cuor suo riconosceva saggi veramente quei consigli e quelle
considerazioni.
Ma la Norina, per
fortuna, era innamorata davvero.
Certo
ormai che la piccina sarebbe presto arrivata col cugino, Sirio volle
affrettare le nozze.
La tempestosa
impazienza di far sua Norina, trattenuta a stento finora dal timore di
possibili difficoltà che il cugino avrebbe potuto accampare, si scatenò
al solito in una furia così veemente, che Norina, pur felice di sentirsi
rapita in essa come un turbine, n'ebbe quasi sgomento. Chiuse gli occhi e
vi si abbandonò.
Sirio s'era proposto
di dedicarsi ora all'agricoltura.
Voleva prendere in
affitto una tenuta della campagna romana e bonificarla. Là, nel suo
settore, a Mokàla, aveva bene imparato il governo colonico dei negri;
qua, invece dei negri, avrebbe governato la gente di Sabina.
Aspettava che
cadesse un po' il primo impeto d'amore, e un'altra cosa aspettava, con una
irrequietezza, che sua madre avrebbe voluto vedere almeno un po'
dissimulata.
- Quando arriva?
quando arriva?
E moveva convulso,
tutte le dieci dita delle mani per aria, o se le faceva scattare come in
galoppo su la fronte, sul naso, sul mento fino a sgraffiarsi; e sbuffava,
e correva a strappar dal naso alla zia gli occhiali, o ad abbracciare
forte forte la madre fin quasi a soffocarlo, o a stringere le braccia alla
mogliettina gridandole frenetica, man mano che stringeva vieppiù e la
sollevava da terra:
- Nianò. Nianò,
Nianò, naso di madreperla, pettine di tartaruga, pampino di vite!
- Lascia... no! ahi!
cattivo... guarda, i lividi... - gemeva Norina.
- E quest'è niente!
Vedrai! - le gridava egli allora. - Tu zapperai, io zapperò. Gente della
Sabina, udite il bando! Sirio Bruzzi, «bungiu» congolese, bonificatore
della campagna romana! Re d'un placido mondo, d'una landa infinita, a un
popolo fecondo voglio donar la vita! Tu canterai sul tuo liuto, in sonni
placidi io dormirò.
E si buttava a
dormire sul canapè.
Ancora Norina non
era riuscita a farsi raccontare le sue imprese coloniali, ad avere una
descrizione dei luoghi ov'era stato. Sul più bello del racconto, mentre
descriveva il gran fiume selvaggio, o la vita dei villaggi tra le palme e
le banane, o la corsa delle piroghe su le rapide, o la traversata delle
paludi entro la foresta senza fine, o la caccia all'elefante e al
leopardo, tranquillamente, nel vederla tutta intenta ad ascoltare
cominciava a infilzar pian piano, con viso fermo, senza cangiar tono, le
sue frasi sconclusionate:
-...e allora, là,
capisci? su tutto quel pacciame di foglie, tra il groviglio delle liane,
che è? che non è? un piccolo, piccolissimo punto a croce, con le
cavallette d'un disegno acrobatico, a nappe azzurre, a fiocchi neri, cara
mia, dietro l'indice teso del tuo salvatore mokungi...
Norina si ribellava,
s'arrabbiava; ma non c'era verso di richiamarlo più alla narrazione così
crudelmente interrotta.
Era già incinta da
un mese Norina, quando finalmente il cugino Lelli - «Giongo», come Sirio
lo chiamava col soprannome che i negri gli avevano affibbiato laggiù -
arrivò con la piccina congolese.
Norina aveva già
notato che su tutto Sirio scherzava, tutti i nomi storpiava, tranne quello
della figliuola, su la quale non scherzava mai: la Titti era sempre la
Titti; e ogni qual volta la nominava, gli occhi gli ridevano umidi di
commozione Aveva potuto anche argomentare quanto la amasse dalle notizie
che le aveva dato sul linguaggio di lei. La Titti comprendeva l'italiano e
lo parlava anche; ma parlava meglio il congolese che, a suo dire, era un
linguaggio da bambini. Come dicono i bambini? Dicono «bombo», dicono «bue».
Ebbene, così parlavano i congolesi, «molenghe ti bungiu», figli dei
bianchi. Volevano acqua? dicevano «n'gu».
Comprese, vide
l'enorme follia della sua condiscendenza, fin dal primo momento, allorché
Sirio, corso alla stazione ad accogliere la piccina, le entrò in camera
con le braccia e le gambe di quel mostriciattolo avviticchiate al collo e
al petto. Non vide dapprima che queste gambe e queste braccia, gracili,
color di zafferano, e i capelli ricci, gremiti, piuttosto lunghi, Soffici
e quasi metallici. Quand'egli alla fine riuscì a sviticchiarla da sé,
parlandole in quello strano linguaggio infantile, ed ella poté vederle la
faccia, anch'essa color di zafferano, con quel casco di capelli ricci
d'ebano quasi soprammessi, la fronte ovale, protuberante, gli occhioni
densi, truci, fuggevoli, smarriti, il nasino a pallottola e i labbruzzi
divaricati, non tumidi, un po' lividi, si sentì gelare: istintivamente
compose il volto a una espressione di pena e di raccapriccio:
- Carina...
poverina... - non poté dir altro, restringendo innanzi al seno le braccia
con le mani levate e raggricchiate quasi per paura ch'egli
gliel'accostasse e gliela facesse baciare.
- Eccola qua! eccola
qua, la mia Titti! - esclamava egli intanto, con le lagrime agli occhi. -
Ti par brutta, è vero? Anche a te, mamma? Ma non è brutta, non è brutta
la mia Titti! Poi la vedrete... vi abituerete... Guarda, non è mica
brutto questo nasino... questi labbruzzi qua non sono mica brutti con
questi dentini... ma sì, ma sì, perché «baba» era «bungiu», Titti
mia, se la mamma era nera! Titti mia! Titti mia! Su, su, fa' sentire la
tua vocina, cara! Di chi sono io? Di', di', di chi sono? Rispondi.
La piccina, in mezzo
alla camera, sperduta, così stridentemente diversa da tutto ciò che la
circondava, come una strana bambola di cera dipinta, rispose in modo
macchinale, con una voce che non parve sua:
- Mio.
Il padre le si
precipitò addosso e se la strinse al petto furiosamente, con la bocca
sulla bocca, quasi a succhiarsi, ingordo d'amore dopo tanti mesi d'attesa,
quella risposta.
- No, no, - riprese
poi, - di' come sai dire tu, cara; come dici «mio» tu? rispondi? di chi
sono?
La bimba allora, con
voce sua, dolcissima, e con un sorriso indefinibile, tendendo le braccia,
rispose:
- «Ti m'bi...»
Egli se la rapì di
furia e scappò via in un'altra stanza, seguito dal cugino.
Nora, la madre, la
zia restarono un pezzo silenziose, oppresse di stupore. Poi, Nora si
nascose il volto tra le mani, rabbrividendo. Ah, il modo con cui quella
piccina là, nel suo strano linguaggio, aveva detto «mio», escludeva
assolutamente ch'egli potesse essere d'altri, almeno nella stessa misura.
La madre si alzò,
si appressò alla nuora, si chinò a baciarla sui capelli, senza dir
nulla, e le fece appoggiare il capo sul suo fianco.
La zia, con gli
occhi fissi dietro gli occhiali, sospirò:
- Ve l'avevo detto
io?
No,
non era gelosia. Un altro sentimento era, duro rodente indefinibile,
quello che Norina provava e da cui si sentiva svoltare il cuore in petto:
rabbia fredda, invidia, dispetto, schifo e pietà insieme, nel vederlo già
padre, lì, sotto gli occhi suoi, di quella scimmietta; e senza un
pensiero dell'altro figlio che già cominciava a vivere in grembo a lei:
un altro per lui, ma per lei no, per lei il solo, il vero figlio.
Ecco! questo, questo
non poteva soffrire Norina: che il suo, domani, dovesse per lui essere un
altro figlio, accanto a quella pupattola ramata; e che fuori di lei ch'era
sua moglie, da mille e mille miglia lontano, da un altro mondo ch'ella non
sapeva neanche immaginare, ma che doveva esser pieno d'un grandioso
fascino ardente, fosse venuto a lui, vivo, chiuso in quella scorza
selvaggia il sentimento della paternità, di cui le dava spettacolo.
Vergogna le
suscitava inoltre quanto c'era di strano e di goffo, in questa paternità
di lui.
Pareva ch'egli non
se n'accorgesse; forse non se n'accorgeva davvero, perché attorno alla
sua bambina vedeva tutto quel mondo là lontano, vivo ancora e non poteva
perciò notarne la stranezza, che avventava invece agli occhi degli altri.
Ecco, e si portava a
spasso, felice, quel suo mostriciattolo esotico.
Tutta la gente,
certo, si voltava per istrada e forse i monelli lo seguivano; al caffè
gli amici gli avrebbero domandato:
- E tua moglie, che
ne dice?
E certo egli doveva
mostrar loro, che non gl'importava affatto ciò che ella potesse dirne.
Era innanzi a tutti,
e lì per casa, una violenza grottesca quella bimba; pareva che lei
stessa, la poverina, lo avvertisse e ne soffrisse.
Aveva negli occhioni
attoniti, non più truci adesso, ma anzi profondamente mesti e quasi
velati di fuliggine, uno smarrimento angoscioso. Teneva le labbra serrate
e le manine rattratte, e vibrava tutta a ogni minimo rumore, a ogni
sensazione, a cui certo non poteva rispondere dentro di lei un'immagine
che gliela chiarisse e la tranquillasse. Doveva essere invasa dallo
sgomento quell'animuccia selvaggia.
Norina stava a
mirarla in silenzio, quando Sirio non c'era; e, mirandola, s'accorgeva che
veramente «Zafferanetta» (l'avevano battezzata così la zia e la
cameriera) non era poi tanto brutta: solo la tinta, quella tinta ramata,
incuteva ribrezzo.
E Zafferanetta,
immobile, seduta su la sediolina di bambù, si lasciava mirare, battendo
le pàlpebre quasi con pena su gli occhioni fuligginosi. Ah, che
impressione faceva quel battito delle pàlpebre, quel movimento reale e
comune e presente, in quell'esseruccio che pareva finto, non vero, diverso
e lontano.
La signora Bruzzi si
profferì di persuadere Sirio a portar da lei quella piccina; ma Nora non
volle.
Era sicura che
Sirio, allora, avrebbe passato tutta la giornata in casa della madre.
Egli s'era accorto
che la piccina deperiva deperiva sempre più di giorno in giorno, e non
sapeva staccarsi più da lei un momento. Non pensava più alle trattative
già avviate per l'affitto della tenuta, e se ne stava quasi tutto il
giorno chiuso con lei e col cugino Lelli nello scrittojo, tra gli strani
ricordi portati da laggiù, a parlare, a parlare...
Troncavano il
discorso appena ella entrava; e, dal modo con cui egli si voltava a
guardarla, Norina intendeva che la sua presenza non solo non gli era
gradita, ma anzi lo urtava. Spesso lo sorprendeva seduto per terra, con la
figlia addormentata su le ginocchia, e gli occhi rossi di pianto.
- Che fa? sta male?
- domandava, non a lui, ma al cugino Lelli, che alzava gli occhi su lei
come a scusarsi.
- Sta male! sta
male! - le rispondeva lui irosamente e quasi con rancore.
Poi, cangiando voce,
chinandosi su la bimba e scotendola lievemente, le domandava:
- Che ti senti,
Titti mia? di' a «baba», di' a «baba» che ti senti...
La bimba schiudeva
appena gli occhi e rispondeva:
- «Kubela...»
(- Malata, -
traduceva piano il cugino Lelli a Nora.)
- «Kubela ti nie?»
- s'affrettava Sirio a domandare alla piccina.
Questa, allora,
richiudendo gli occhi e sollevando appena una manina, su cui era caduta
una grossa lagrima del patire sospirava:
- «M'bi ingalo pepè...»
-
- Che dice? -
domandava Nora.
- Dice, - rispondeva
il cugino Lelli, - che non lo sa, di che è malata.
Ma lo sapeva lui,
lui, Sirio, di che era malata la sua piccina: del suo stesso male era
malata: era malata di Mokàla, della vita di là che le mancava, della
foresta, del fiume, della solitudine immensa, del sole dell'Africa, che le
mancavano, era malata! Ah, via! via! via!
- Senti... a un solo
patto... - venne a dirle un giorno tutto stravolto, fremente, quasi
impazzito. - Che tu venga laggiù con me... che tu mi segua... se no, ti
lascio! Non posso, non posso vedermela morire così... Muore, la mia Titti
muore! Per carità, Nora mia, per carità!
- Ma tu sei pazzo!
Io, laggiù, con te? - gli gridò Nora.
- Pazzo, sì, pazzo!
Come tu vuol! Sono stato pazzo; sarò pazzo, e ti chiedo perdono, ma...
- Per quella lì?
Per quella lì? - inveì Nora, accesa d'ira e di sdegno. - Tu vuol
sacrificare me, la mia creatura, per quella lì?
- No, no! - la
interruppe egli. - Hai ragione! Ma io, come faccio io? Tu capisci che non
posso vedermela morire così? che non posso stare più qua neanche io?
Impazzisco, impazzisco! Muojo anch'io con lei! Per carità, lasciami
partire... Quando sarò lontano, forse ritornerò; certo ritornerò, perché
sarai tu allora la più forte... Ma ora lasciami partire con la mia Titti,
che non muoja qui, che non muoja qui... Morrà in viaggio; ne sono sicuro!
Ma potrò almeno consolarmi, pensando che ho voluto darle ajuto e che, per
lei, sono arrivato fino a lasciar te, qua, in questo stato! Lasciami
partire, per carità, Nora: dimmi di sì! dimmi di sì!
Nora comprese che,
per il suo cuore ormai, sarebbe stato inutile dirgli di no, anche se egli
fosse rimasto.
- Parti, - gli
disse.
E Sirio Bruzzi due
giorni dopo ripartì per il Congo, con la piccina inferma e col cugino
Lelli.
Non tornò più.
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