SOVRANITA' E AUTORITA'



Dobbiamo ora occuparci di due categorie di fondamentale importanza per il nostro percorso: la sovranità e l’autorità. Nel lessico latino vige una netta contrapposizione, assente nella terminologia greca, tra potestas e auctoritas; si tratta di una dicotomia destinata a godere di grande fortuna soprattutto in età medievale, in relazione al dualismo tra il potere imperiale (potestas) e quello papale (auctoritas). La sovranità si configura come determinazione giuridica della potestas ed è un qualche cosa che riscontriamo in ogni formazione politica ma che soltanto nello Stato assume quella nitidezza di profili che le sarà propria in virtù della teoria giuridica moderna. Come già abbiamo rilevato, lo Stato ha intrinsecamente a che vedere col monopolio e quest’ultimo è connesso con la sovranità: essa è presente nel caso in cui si venga a instaurare una gerarchia piramidale dal cui vertice si dipartono quegli impulsi di comando saldamente controllati da un centro costituente la summa potestas, detta appunto “sovranità”. Il primo teorizzatore della sovranità è sicuramente Jean Bodin, che nel 1576 pubblica il suo De la republique, tradotto in italiano con Del sistema politico o, più spesso, con Dello Stato. Nel cap.8 del libro I, troviamo un’attenta trattazione del concetto di sovranità: Bodin asserisce che un sistema politico si distingue da altre forme di comunità (come ad esempio le famiglie, le tribù, ecc) in forza della summa potestas, che altro non è se non il potere “superiorem non recognoscens”. Affermare che tale potere non ne riconosca in toto uno ad esso superiore non è del tutto corretto, poiché al di sopra vi sono il potere divino e quello della legge naturale: si tratta tuttavia di un altro campo, esulante da quello della politica cui Bodin si riferisce. Occorre tener presente che, quando si parla di norme giuridiche, ad esse si possono applicare le categorie della giustizia, della validità e dell’efficacia. Pertanto una norma si dirà giusta se è in accordo con la legge naturale (o con i precetti divini). Potrà però essere valida, a prescindere dal suo valore morale e dal suo accordo con le leggi di natura, semplicemente per il fatto che è stata statuita dall’organo competente ad emanarla. Sottostante alla distinzione tra giustizia e validità di una norma v’è quella tra una concezione giusnaturalistica (che bada alla giustezza delle leggi) del diritto e una positivistica (che si cura invece della validità delle leggi); così la storia è piena di norme valide ma non giuste e, in tal senso, un caso esemplare è quello del Nazionalsocialismo in Germania. Hans Kelsen, che del positivismo giuridico fu uno dei massimi sostenitori, pur essendo di orientamento liberal/democratico e di origine ebrea, ha sempre riconosciuto che le ingiuste norme del nazismo erano valide. Ci possono essere – e per lo più è così – norme valide che sono anche giuste e lo sforzo della storia del diritto consiste appunto nel tentativo di far convergere validità e giustizia delle leggi. Si possono però avere anche norme giuste e valide ma che di fatto non sono efficaci perché vengono trasgredite da tutti: sicché, perché si abbiano norme giuridiche in senso pieno, ci deve essere, accanto alla validità e alla giustizia, anche l’efficacia. Quando parliamo di sovranità, ci riferiamo a un potere che sia valido, cioè superiore a tutti non per giustizia (ché sono superiori quelle divine) o per efficacia, ma per validità; ciò era già evidente nella definizione weberiana dello Stato, nella quale – come si ricorderà – rientravano tanto l’efficacia (lo Stato agisce “con successo”) quanto la giustizia (lo Stato ha il monopolio della “coercizione legittima”) e la validità. Nel De cive e nel Leviatano, Thomas Hobbes definisce con rigore la sovranità in maniera positivistica, arrivando a sostenere che, una volta stabilita la legge positiva, non è nemmeno più possibile opporsi ad essa in nome delle leggi naturali. Tuttavia, all’indomani della seconda guerra mondiale e delle sue catastrofi, soltanto pochi giuristi sono rimasti fedeli all’assunto positivistico (tra questi il già ricordato Kelsen), consapevoli del fatto che, accontentarsi della validità delle norme, può portare ad esperienze tragiche come il Nazismo. Bodin, nel definire la sovranità, asserisce che essa è “assoluta, perpetua, indivisibile, inalienabile, imprescrittibile”, e la stagione politica dell’assolutismo nasce proprio da questa prospettiva, ossia dall’assolutezza della sovranità, con la quale i re rivendicavano piena sovranità. Ma una tale definizione, al giorno d’oggi, non è più accettabile; sicché, per meglio capire la nozione di sovranità in tutte le sue sfumature, possiamo fare riferimento a quattro categorie esplicative:

 

1] Originarietà: la sovranità non deriva da nessun altro potere preesistente, è dunque un potere inderivato. Da ciò segue che esso ha la capacità di modellare interamente lo spazio sociale, di trasformarlo a suo piacimento; e di fatto gli autori moderni, da Hobbes in avanti, svilupperanno una concezione artificialistica del potere, quasi come se esso fosse imposto e sovrapposto alla società, che si lascia plasmare come argilla dal potere sovrano. Controcorrente rispetto a queste posizioni è Michel Foucault, il quale ha scorto nella sovranità un artificio giuridico volto al nascondimento di pratiche di dominio che si innervano nella società e producono assoggettamento degli individui. Il fatto che si tratti di un potere inderivato implica che esso può dare alla volontà un contenuto che faccia di essa un ordinamento giuridico: questo potere inderivato e originario può modificare le cose senza limiti e il teorizzatore di ciò è l’abate Sieyès ai tempi della Rivoluzione francese; l’idea che ne nasce è quella del potere costituente, ossia l’idea che un popolo possa costituire lo Stato e dargli determinate istituzioni.

 

2] Universalità: è la facoltà dei detentori del potere politico di prendere decisioni legittime ed effettivamente operanti (giuste, valide, efficaci) per tutta la collettività. Il sovrano, infatti, si trova a decidere non già per un singolo individuo o per un gruppo ristretto, bensì per l’universalità dei suoi sudditi. Ciò non è sempre stato valido e ce ne accorgiamo se, ad esempio, volgiamo lo sguardo all’età medievale, nella quale le decisioni riguardavano sempre le corporazioni e mai l’universalità.   

 

3] Esclusività: la comunità politica esercita la sua supremazia senza alcuna interferenza di altri enti e senza che, contro la propria volontà, qualsiasi altro potere possa limitarla. Pertanto uno Stato è sovrano se nel suo territorio e tra i suoi membri è il solo a poter avanzare pretese di comando e di obbedienza.

 

4] Inclusività: è la facoltà di intervenire imperativamente in ogni sfera di attività dei membri del gruppo politico attraverso lo strumento del diritto giuridico. Se è vero che gli altri Stati non possono interferire con l’attività dello Stato, è anche vero che quest’ultimo può interferire con le attività dei suoi membri. Così lo Stato come lo intendevano Bodin e Hobbes era estremamente inclusivo, a tal punto da determinare direttamente la vita dei suoi membri. Grazie alle politiche liberali, si è progressivamente affermata l’idea che ogni individuo abbia una sua sfera privata inaccessibile anche allo Stato.

 

La storia di queste quattro determinazioni della sovranità è la storia di un graduale “indebolimento”, per usare un’espressione cara a Vattimo. In particolare, possiamo notare come ciascuna di esse abbia una sua precisa causa di indebolimento: il costituzionalismo, il pluralismo, il federalismo, il cosmopolitismo. Il costituzionalismo, ossia la dottrina dei limiti del potere sovrano (limiti dati innanzitutto dal riconoscimento dei diritti dell’uomo, ovvero di diritti che vengono prima dello Stato) e della divisione dei poteri, indebolisce molto l’originarietà della sovranità. L’idea secondo cui la divisione dei poteri serve a scongiurarne gli abusi è già presente in Locke e Montesquieu. Nel 1922, nella sua opera Teologia politica, Carl Schmitt formula la tesi secondo cui, negli Stati contemporanei, è sovrano chi decide nelle situazioni d’eccezione come la guerra; nella normalità della vita politica, invece, non si vede più alcun sovrano e ciò è una spia che ne segnala l’indebolimento. L’universalità del potere è, dal canto suo, messa in discussione e resa debole da quel pluralismo politico che si manifesta col proliferare di sindacati e partiti che limitano il cosiddetto potere sovrano. La realtà delle nostre democrazie è sempre più il pluralismo di gruppi sociali e di unioni che acquistano un peso tale da condizionare il potere sovrano indebolendone l’universalità. Un tale processo si è in Italia avviato già ai tempi degli scioperi sindacali dell’età giolittiana: di fronte ad essi, Gaetano Mosca si è servito dell’efficace espressione di “feudalesimo funzionale”; egli già si stava accorgendo che il nascere di questi nuovi poteri antagonisti implicava la morte del potere sovrano. Iniziano a contare sempre più i gruppi (pensiamo ai Soviet nel 1917) e perfino quelli esterni (le multinazionali). Parlando di esclusività, abbiamo visto come lo Stato non tollera al proprio interno alcuna interferenza: eppure oggi l’evoluzione del sistema giuridico in direzione federale, dalla Società delle Nazioni all’Organizzazione delle Nazioni Unite, ha invertito tale tendenza, cosicché gli Stati devono sempre più fare i conti con interventi internazionali. Anche per quel che riguarda l’inclusività, le cose sono assai cambiate: essa è stata ridimensionata in quanto la prassi costituzionale degli Stati liberali ha consolidato diritti fondamentali considerati attributi non del cittadino, ma dell’uomo in quanto tale; tali diritti, che neppure lo Stato può permettersi di scavalcare, sono stati sanciti ad esempio dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Considerata la sovranità, prendiamo ora in esame l’autorità: essa rimanda alla dimensione positiva del potere giacché è uno di quegli aspetti del potere che hanno carattere protettivo ed è dunque opposta alla violenza. Sicchè la nozione di autorità ci riporta sul versante della legittimità del potere e ci segnala il fatto che lo Stato non è soltanto forza, potenza ma è anche autorità. E quando parliamo di legittimità di un sistema, suggeriamo l’idea che quel regime non solo è efficace nell’imporre i comandi, ma riesce anche a sedurre le persone con la misteriosa aura dell’autorità. Tra i filosofi contemporanei, Hannah Arendt è sicuramente una di quelle che più se n’è occupata, in particolare nel saggio Che cos’è l’autorità? – contenuto nella raccolta Tra passato e futuro – e nell’opera Sulla rivoluzione (1963), che è una riflessione sulle grandi rivoluzioni moderne e sulle dissociazioni tra potere e autorità che in esse avvengono. L’autorità, coinvolgendo l’ambito della legittimità, pone un problema che va al di là del diritto positivo: infatti, il problema della modernità è che la nozione di potere è quella di un potere fondato sul diritto e da esso limitato; e nella misura in cui il diritto positivo presuppone l’effettività dell’ordinamento, il potere fondato sul diritto si riduce ad essere potere fondato sul potere. Ciò non significa, tuttavia, che quel potere sia dominio occasionale dell’arbitrio e mera prevaricazione, giacché si tratta di un potere impersonale (regolato da norme) e astratto: ed è proprio da qui che affiora l’elemento di razionalità del potere stesso, l’aver superato i capricci di chi detiene il potere e lo usa in forma tirannica. Ne segue che la dottrina moderna dello Stato è al contempo dottrina razionale dello Stato e dottrina dello Stato razionale. Questo potere fondato sul potere è capace di pacificare, ossia di neutralizzare i conflitti: e molti pensatori si trovano d’accordo nel sostenere che lo Stato moderno nasce appunto come istanza finalizzata al superamento di guerre civili di religione. È infatti a partire dalla metà del Cinquecento, con la rottura della res publica cristiana causata dal successo della Riforma protestante e col il politicizzarsi sempre più accentuato della questione (pensiamo alla guerra civile in Francia tra Cattolici e Ugonotti), che nascono gli Stati moderni e non è un caso che Bodin scriva in quest’epoca. Un altro importante esempio del rapporto tra vicenda storica e politica è quello costituito dall’opera di Thomas Hobbes, il quale scrive nel mezzo dell’infuriare della Guerra Civile inglese negli anni Quaranta del Seicento. Per neutralizzare i conflitti e far trionfare la pace, lo Stato doveva naturalmente fondarsi sul diritto, ma tale fondarsi sul diritto era in realtà un fondarsi sul potere e sulla forza, la quale, in quanto capace di placare i conflitti, andava vieppiù legittimandosi. Ma l’autorità vuole essere qualcosa di più rispetto a ciò: quando in politica ci si interroga su di essa, si vuole mettere in questione il fatto che il potere fondato sul diritto non basta e la legittimazione del potere richiede qualcosa in più. Proprio a ciò provvede l’autorità, l’auctoritas. Questa presenta un’etimologia alquanto interessante: deriva dal termine auctor, a sua volta riconducibile al vero augere, che significa “accrescere”, “aumentare” e “rafforzarsi”. Auctor designa colui che fa nascere e che dà inizio: si tratta di una tematica importante, già messa in evidenza da Agostino con l’idea che gli uomini, nascendo, portino qualcosa di nuovo (storie, vicende, vissuti, ecc) modificando così il teatro sussistente. Quindi il campo semantico del termine auctoritas ci fa capire come il concetto di autorità sia strettamente connesso all’origine, alla fondazione di un ordine e alla sua durata nel tempo. Inoltre v’è una terza radice etimologica del termine, accanto ad auctor e ad augere: è augur, termine latino che designa colui che pronostica il futuro interpretando segni attraverso una tecnica che non appartiene alla quotidianità, ma che sfocia nel trascendente. Ci si mette così sulle orme di una nuova determinazione del termine auctoritas che ci aiuta a capire come esso appartenga sia alla politica (auctor) sia alla religione (augur). Ciò appare evidente anche se appuntiamo la nostra attenzione sulla storia del concetto di autorità: subito ci accorgiamo, infatti, del fatto che esso ha progressivamente assunto un ruolo antitetico a quello della tecnica e, dunque, del mondo razionalizzato. Se la tecnica è l’insieme di pratiche razionali volte alla trasformazione del mondo in vista dell’utile complessivo, allora, rispetto alla dimensione tecnica e utilitaristica, l’autorità si pone al polo opposto: essa confligge a viso aperto con la crescente razionalizzazione e non è un caso che troviamo una nutrita serie di interpretazioni epocali della modernità che ci dicono che la modernità stessa è perdita dell’autorità lungo il cammino della secolarizzazione (il che, tra l’altro, conferma come l’autorità rimandi a qualcosa di trascendente rispetto all’utile e al potere). Nel corso del Novecento, moltissime sono le letture della modernità come divorzio tra potere e autorità: così, in Potere (uscito a inizio anni ’40 del Novecento), Guglielmo Ferrero si interroga sulla legittimità, su quelli che egli definisce come “geni invisibili della città” e insiste sul carattere numinoso della legittimità. Anche B. De Jouvenel sostiene che la storia moderna è la storia di una disgiunzione tra potere e autorità, mettendo in luce (e Arendt concorda) come nella società moderna vi sia sempre più potere e meno autorità, sempre più quantità di potere e sempre meno qualità. Se ne evince, dunque, che il potere ha eclissato l’autorità e ciò si verifica come termine di un lungo processo che da secoli mina la religione e la tradizione. Arendt mette a tal proposito in evidenza come, nonostante spesso l’autorità sia ridotta a violenza e a potere, ciò non sia vero: “l’autorità esclude qualsiasi coercizione esteriore; dove si usa la forza, l’autorità ha fallito […]. Del resto l’autorità è incompatibile con la persuasione, che presuppone eguaglianza e richiede un processo di argomentazione”, richiede cioè quello che Habermas e Apel hanno definito come “comunità di discorso” priva di violenza. Prosegue la Arendt: “dove si usano argomenti di persuasione, l’autorità è messa a riposo […] l’ordine dell’autorità è sempre gerarchico”; la gerarchia è, per Arendt, naturale e, per questo motivo, non abbisogna di argomentazioni. Dietro a questa concezione sta il modello di potere che possiamo etichettare come ex generatione; il potere della persuasione è invece quello ex contractu, mentre il potere della violenza è ex delicto. Che l’autorità sia un potere ex generatione appare evidente già all’interno della famiglia, che è il primo ambito in cui la incontriamo: significativamente, Hans Jonas, che seguì con Arendt le lezioni di Heidegger, scrive Il principio responsabilità e, in tale opera, cerca un nuovo paradigma etico che possa valere per le società tecnologiche, sulla base del fatto che le antiche etiche erano rivolte a ristretti gruppi; si tratta – dice Jonas – di rinvenire una macroetica valida su scala globale, tenendo conto del fatto che oggi abbiamo un potere di cambiare la natura con conseguenze incalcolabili. Creando questo nuovo paradigma etico, Jonas ricorre all’idea di responsabilità e individua l’archetipo della responsabilità proprio nella famiglia, in particolare nel rapporto tra padre e figlio; un po’ come il padre agisce verso il figlio, così noi oggi dobbiamo agire verso le generazioni future. L’autorità è un rapporto asimmetrico che si fonda su una gerarchia naturale e non sulla persuasione o sulla violenza: “l’una e l’altra parte hanno a che fare con la gerarchia, che riconoscono come giusta e legittima” (Arendt). Il mondo moderno ha però messo in dubbio la nozione stessa di gerarchia e ciò appare lampante nel caso del motto della Rivoluzione francese: rivendicando l’uguaglianza, essa tende a negare l’autorità. La modernità, in questo senso, è ormai soltanto più capace di relazioni di potere giuridico (prodotte dalla sovranità), economico (generate dalla potenza economica) e egualitario/dialogico (create dalla persuasione all’interno di una comunità di parlanti che si confrontano fra loro senza gerarchie). Una prospettiva illuministica e razionalistica potrebbe affermare che dell’autorità se ne può tranquillamente fare a meno all’interno di una società i cui rapporti sono basati sul diritto, sull’interesse e sull’uguaglianza: e infatti questa è una delle possibili vie perseguite dalla modernità. Ancora oggi, nel mondo moderno, agli Stati si attribuisce potere (e non autorità) e, al di sopra di essi, sta l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), che propriamente non dispone di molto potere ma ha autorità ed è in certo senso il corrispettivo del papato in età medievale: come quest’ultimo non organizzava la forza, ma faceva da paciere con la sua autorità oppure, in certi casi, istigava il conflitto, così l’ONU non dispone di forze armate ma può influire con la sua autorità sulle decisioni da prendere, organizzando le forze per i conflitti (come accadde nella Prima Guerra del Golfo) o negando la liceità della guerra (come accadde nella Seconda Guerra del Golfo).                    

 

 


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