IL MONDO GRECO E ROMANO |
Come si comportavano i Greci e i Romani di fronte alla preghiera? I documenti mitologici in merito sono sterminati: limitati sono, invece, quelli specificamente dedicati alle preghiere in quanto tali, a segnalare come il fenomeno della preghiera, presso i Greci e poi presso i Romani, era meno centrale che per i Giudei. Anche nel mondo greco e poi in quello romano, non meno che in quello giudeo, la preghiera e il sacrificio vengono intesi come strettamente connessi tra loro: in particolare, la preghiera specifica le intenzioni per cui si compie il sacrificio e, in forza di ciò, è secondaria rispetto ad esso.
I Greci elaborarono una nutrita serie di preghiere, sia pubbliche sia private, oltre che una ricca innologia. Le preghiere private dei Greci presentano un’ambiguità ineliminabile: esse, infatti, paiono sempre al confine con la magia, in un equilibrio instabile che tende spesso a capovolgersi in favore del magismo. Una precisa analisi della preghiera è prospettata nell’Iliade (IX, 456-512):
ché i numi
stessi, sì di noi più grandi
d'onor, di forza, di virtù, son miti;
e con vittime e voti e libamenti
e odorosi olocausti il supplicante
mortal li placa nell'error caduto.
Perocché del gran Giove alme figliuole
son le Preghiere che dal pianto fatte
rugose e losche con incerto passo
van dietro ad Ate ad emendarla intese.
Vigorosa di piè questa nocente
forte Dea le precorre, e discorrendo
la terra tutta l'uman germe offende.
Esse van dopo, e degli offesi han cura.
Chi dispettoso queste Dee riceve,
ne va colmo di beni ed esaudito;
chi pertinace le respinge indietro,
ne spermenta lo sdegno. Esse del padre
si presentano al trono, e gli fan prego
ch'Ate ratta inseguisca, e al fio suggetti
l'inesorato che al pregar fu sordo.
Trovin dunque di Giove oggi le figlie
appo te quell'onor ch'anco de' forti
piega le menti.
Dal passo, si evince come la funzione delle preghiere, che sono “figlie” di Zeus, sia di porre riparo alle colpe umane. È un prezioso documento sulla preghiera greca. Nel I libro dell’Iliade (33-47), invece, è riportato il testo di una preghiera rivolta ad Apollo:
Dio dall'arco
d'argento, o tu che Crisa
proteggi e l'alma Cilla, e sei di Tènedo
possente imperador, Smintèo, deh m'odi.
Se di serti devoti unqua il leggiadro
tuo delubro adornai, se di giovenchi
e di caprette io t'arsi i fianchi opimi,
questo voto m'adempi; il pianto mio
paghino i Greci per le tue saette.
Sì disse orando. L'udì Febo, e scese
dalle cime d'Olimpo in gran disdegno
coll'arco su le spalle, e la faretra
tutta chiusa. Mettean le frecce orrendo
su gli omeri all'irato un tintinnìo
al mutar de' gran passi; ed ei simìle
a fosca notte giù venìa.
Si tratta di una richiesta di vendetta rivolta ad Apollo affinché punisca i Greci per la tremenda colpa di cui si sono macchiati. La preghiera si apre con l’invocazione del dio, di cui poi si tessono le lodi e si enumerano le illustre azioni compiute, per poi passare in rassegna le proprie azioni in favore del dio: quasi come se si cercasse di mercanteggiare al fine di convincerlo ad esaudire la preghiera che sul finale gli viene rivolta. Questo costituisce, in generale, il modello di preghiera a cui la tradizione greca resta legata: è evidentemente una preghiera di richiesta, ma va detto che i Greci conobbero anche preghiere di lode, di ringraziamento e di esaltazione. Tuttavia, rimase loro sconosciuta la preghiera di richiesta di perdono: e ciò alla luce del fatto che quella greca era una religione della colpa, intesa però come un qualcosa di cui non si deve chiedere perdono agli dèi. Sarà invece con la nozione ebraico-cristiana di “peccato” a subentrare la richiesta di perdono rivolta a Dio.
I Greci conobbero pure preghiere pubbliche con carattere cittadino, nelle quali si pregavano gli dèi della città: ad esempio chiedendo beni pubblici (prosperità, ordine) o, in tempo di guerra, chiedendo di vincere sul nemico o, come si verifica nei Sette contro Tebe di Eschilo, di essere assistiti dagli dèi negli scontri bellici. La cultura greca, inoltre, dà vita a una cospicua produzione di inni, che i Greci distinsero in inni rivolti agli uomini (epainoi) e inni rivolti agli dèi (umnoi). In questa prospettiva, ci imbattiamo in un gran numero di inni rivolti a Dioniso, a Demetra e, in età ellenistica, ad Apollo e a Iside. Anche gli inni riprendono lo schema della preghiera che abbiamo analizzato a proposito del passo dell’Iliade, ma lo arricchiscono con un’enfatizzata “aretologia”, vale a dire con l’elenco delle virtù proprie della divinità elogiata. Un altro fenomeno degno di nota è la celebrazione delle feste, nelle quali le preghiere vengono pronunciate pubblicamente.
Dal IV secolo a.C., la cultura greca si innesta con le culture orientali grazie alle imprese compiute da Alessandro Magno, il quale unifica il bacino del Mediterraneo e impone il greco (meglio: la koinh greca) come lingua ufficiale. Ora, anche la Palestina si trova coinvolta in questo processo, che provoca un fruttuoso incontro tra il pensiero greco e quello giudeo. Questo incontro, dà vita al cosiddetto “giudaismo ellenistico” sviluppatosi ad Alessandria con Filone.
Rispetto a quella greca, la preghiera dei Romani non è particolarmente innovativa: i Romani, infatti, fanno loro il pantheon greco, ereditandone gli dèi. Va però precisato che a Roma il rituale di preghiera è più rigido, più ordinato e più sistematico che non in Grecia. Infatti, i riti sono codificati più rigidamente e le preghiere pubbliche sono presiedute da sacerdoti specializzati che scandiscono le formule. In particolare, sappiamo di alcuni riti del gruppo dei Salii, i quali invocavano gli dèi danzando. Nelle preghiere pubbliche, si chiedevano generalmente beni pubblici per la collettività; nelle preghiere private, invece, si invocavano gli dèi affinché proteggessero le greggi o, in città, la famiglia. Ma la letteratura latina tramanda anche preghiere personali: è il caso di Enea che prega il fiume Tevere (Eneide, VIII, 71-78), inteso come divinità padre delle Ninfe, chiedendogli di allontanare i pericoli e di essere propizio.
“e tu con l’onde tue,
padre Tebro sacrato, al vostro Enea
date ricetto, e da’ perigli omai
lo liberate. Ed io da qual sia fonte
che sgorghi, in qual sii riva, in qual sii foce
(poiché tanta di me pietà ti stringe)
sempre t'onorerò, sempre di doni
ti sarò largo. O de l’esperid’onde
superbo regnatore, amico e mite
ne sia il tuo nume, e i tuoi detti non vani”.
Il modello con cui è strutturata la preghiera è, ancora una volta, quello greco della preghiera rivolta ad Apollo, modello che resta del tutto invariato nella sua struttura.
Fin dai tempi più antichi (pensiamo a Senofane, nemico giurato dell’antropomorfismo), i filosofi greci sottopongono a critica razionale la preghiera e, più in generale, la religione. Platone stesso, che molta attenzione riserva al divino, tuona contro la religione popolare e, nelle Leggi (X), contro quella della città. In particolare, nella prospettiva fatta valere da Platone, la preghiera è una richiesta rivolta agli dèi e, insieme al sacrificio, entra a far parte di un rapporto di scambio nel senso più banale del termine (cioè nel senso del do ut des). L’idea che sta alla base della preghiera è infatti, stando a Platone, che tramite doni o parole lusinghiere si possano piegare gli dèi alla propria volontà. Ma allora gli dèi sono corruttibili? Ed è davvero necessario o utile pregare, se la preghiera è banalmente questo scambio? Il problema della preghiera è sentitissimo anche dai filosofi successivi a Platone: così Aristotele scrive un trattato sulla preghiera (purtroppo andato perduto), gli Stoici si interrogano sul significato del pregare, Epicuro azzera il senso della preghiera. È col Neoplatonismo, specie con quello di Giamblico e di Proclo, che la preghiera assume particolare rilievo in sede filosofica. Ad esempio, Giambico è propulsore di una “mistica operativa” mirante alla fusione con l’Uno tramite la teurgia (ossia l’insieme degli atti che favoriscono il ritorno all’Uno). In questa prospettiva, la preghiera altro non è se non un’attività teurgica e, pertanto, priva di autonomia. Ne I misteri degli Egizi, Giamblico esplicita questa unione tra preghiera, teurgia ed estasi, sostenendo che dapprima (con la preghiera) ci si avvicina al divino, il quale secondariamente ci si offre, e infine si verifica la fusione ineffabile con l’Uno. Così intesa, la preghiera è un momento di questo percorso: essa istituisce un primo contatto col divino. Nel V secolo, Proclo scrive un trattato Sulla preghiera, nel quale sviluppa le intuizioni di Giambico, riprendendo le tre tappe del percorso e scandendole in maniera più marcata. In particolare, Proclo rivela di conoscere forme “basse” di preghiera rispetto a quella unitiva.
Occorre poi far menzione del corpo degli “scritti ermetici”, i quali confermano l’incontro del pensiero greco e giudeo. In tutti questi autori, la preghiera tradizionale cessa di essere un atto per passare ad essere un atteggiamento tutto interiore: è per tale via inaugurato il modo cristiano di dialogare con Dio. Come la ricerca unitiva dei Neoplatonici non si arresta mai, così il cristiano dialoga incessantemente col suo Dio, in una sorta di anticipazione della concezione monastica degli oranti notte e giorno. Significativamente, Origene dirà che tutta la vita del cristiano è preghiera.