Lo spinozismo in Goethe e Hölderlin

di Alessandro Sangalli

 

 

 

Premessa. Lo “Spinozastreit” e la rinascita degli studi spinoziani

Nella prima metà degli anni ‘80 del XVIII secolo, quando nelle sue lettere Sulla dottrina di Spinoza Friedrich Heinrich Jacobi comunicò a Moses Mendelssohn – e a tutto il mondo culturale tedesco – che Lessing, poco prima di morire, gli avrebbe confidato di condividere le posizioni panteistiche del filosofo olandese, lo scalpore suscitato andò forse al di là delle intenzioni originali dello stesso Jacobi. Se il suo obiettivo era stato infatti quello di denunciare il panteismo spinoziano e il pericolo costituito dall’ateismo in esso nascosto, la sua rivelazione scatenò invece il cosiddetto Spinozastreit, una polemica alla quale parteciparono i maggiori esponenti della cultura del tempo e che, attraverso la rinascita dell'interesse per un autore quasi dimenticato, finì per dare ancora più vigore a quella tendenza panteistica che già animava la nuova cultura post-illuministica in Germania. Questa complessa polemica, inizialmente intesa a scagionare Lessing da una accusa considerata infamante[1], prese ben presto tutta un’altra piega e si trasformò in un’impetuosa ripresa degli elementi naturalistici e panteistici del sistema di Spinoza, una volta liberato dalla pesante architettura matematico-geometrica tipicamente seicentesca che lo caratterizzava.

Il panorama culturale di questi anni è quindi profondamente segnato dallo scontro di due opposte tendenze: se da una parte abbiamo la critica radicale dello spinozismo, visto come il frutto di un esasperato razionalismo che tende a negare la validità della fede e della rivelazione cristiana e che si risolve in ultima analisi in un inevitabile ateismo, dall’altra assistiamo invece ad una sostanziale rivalutazione del pensiero di Spinoza, a opera di alcuni tra i più illustri personaggi della scena filosofica di fine Settecento. Uno tra i primi fu proprio Mendelssohn, il quale si dichiarò sempre convinto che l’esistenza di Dio fosse razionalmente dimostrabile e che questa idea fosse compatibile con una sorta di “panteismo spinoziano purificato”; non dimentichiamo poi Johann Gottfried Herder, che della dottrina di Spinoza apprezzò in modo particolare la concezione della natura e ne fece largo uso nelle sue Idee per la filosofia della storia dell’umanità; in ultimo – e forse in misura maggiore – non si può fare a meno di citare Johann Wolfgang von Goethe, il quale è annoverabile tra i sostenitori dello spinozismo in un senso particolare che cercheremo qui di definire.

 

 

Il congeniale spinozismo di Goethe

In un recente saggio dedicato al filosofo e letterato tedesco, Klaus Michael Meyer-Abich sostiene che Goethe nel corso della propria vita percepì sempre quella profonda parentela spirituale che lo legava a Spinoza, un’affinità testimoniata, fra le altre cose, dai numerosi elementi che le loro concezioni della natura e del mondo hanno in comune[2].

Lo studio e l’osservazione della natura è senza dubbio un ambito molto rilevante dell’opera di Goethe, insieme scienziato, artista e uomo di lettere. L’atteggiamento che lo scienziato della natura goethiano deve assumere nei confronti del suo oggetto di studio è però profondamente diverso dall’osservazione asettica e distaccata che contraddistingue lo spirito scientifico comunemente inteso: una scienza di questo tipo si smarrisce infatti in una dannosa astrazione, preferendo freddi rapporti matematici alla viva datità sensibile. Nell’ottica di Goethe, al contrario, lo scienziato deve innanzitutto possedere una chiara consapevolezza della sua appartenenza alla natura, del suo essere in comune (Mitsein) con il Tutto. Soltanto da questa preliminare conoscenza di sé procede una scienza che può essere davvero definita una valida espressione di ciò che la natura effettivamente è, e non di ciò che la natura è per lo scienziato.

I tratti di quella “profonda parentela spirituale” tra Goethe e Spinoza cui accennavamo poc’anzi risultano ben evidenti anche dopo queste prime brevi considerazioni. L’idea dell’uomo come parte della natura è infatti un’idea eminentemente spinoziana: nel pensiero del filosofo di Amsterdam, l’uomo è in tutto e per tutto un ente naturale, soggetto a quella stessa necessità che governa fenomeni naturali come i fulmini, la pioggia o le tempeste. Coloro i quali, insistendo troppo sul libero arbitrio, hanno cercato in qualche modo di salvare la peculiarità dell’essere umano, hanno in realtà escluso l’uomo dal mondo naturale di cui è parte, concependo erroneamente «l’uomo nella natura come un impero in un impero»[3]. Sia per Spinoza che per Goethe, quindi, l’antropocentrismo è un’illusione precipua della specie umana, un autoinganno che va estirpato e combattuto, poiché l’uomo non ha nessun statuto speciale all’interno della natura, ma è semplicemente un ente tra altri enti, spinozianamente un modo transeunte della Sostanza, o, goethianamente, «talmente inseparabile dal tutto che le stesse parti possono essere comprese soltanto nel e con il tutto»[4]. Interessante, inoltre, è notare come Goethe, seguendo le orme dell’olandese, sviluppi la propria idea di Dio proprio a partire da alcune considerazioni naturalistiche: il carattere panteistico della concezione goethiana della divinità è sicuramente frutto della rielaborazione del Deus sive Natura dell’Ethica.

La concezione dell’uomo nella natura e la teoria della non-trascendenza di Dio sono forse i tratti più profondi che ci permettono di definire le dottrine dei nostri due autori per molti versi sovrapponibili, e che portano Meyer-Abich ad affermare che «il pensiero di Goethe è qui così vicino a quello di Spinoza da meritare senz’altro di essere definito come un congeniale spinozismo»[5].

 

 

En kai Pan: lo Spinoza di Hölderlin

Nella sua straordinaria ricchezza di fonti e influenze, la formazione culturale di Hölderlin attinge indistintamente da fonti antiche e moderne, filosofiche e religiose, entrando ovviamente in contatto anche con le principali tematiche del dibattito neoclassico e romantico. Citando – rapsodicamente – alcuni tra i più importanti riferimenti di carattere filosofico del giovane Hölderlin, si potrebbero nominare autori quali Platone, Spinoza, Leibniz, Wolff, Shaftesbury, Rousseau, Hemsterhuis, Kant e Jacobi. La costellazione concettuale che deriva da queste letture giovanili va a costituire quella sorta di “arsenale teorico” che sta alla base del progetto hölderliniano di fondazione ed elaborazione di una nuova estetica moderna cui il poeta dedicò gran parte dei suoi sforzi. Senza dubbio, uno dei punti di riferimento più significativi di questo percorso formativo è rappresentato dalle idee di Spinoza, autore che abbiamo visto essere al centro di una nota polemica nella Germania di fine 1700. Secondo la ricostruzione di Riccardo Ruschi[6], è probabile che Hölderlin si sia interessato a Spinoza fin dai tempi dello Stift di Tubinga (1788-1793), dove condivise con Hegel e Schelling un periodo di grande fermento di idee e aspirazioni.

La ricezione hölderliniana dello spinozismo è di fatto sicuramente determinata da una parte dalla lettura di Jacobi e dall’altra dalla commistione con le idee di Leibniz. Così come quello di Jacobi, lo Spinoza di Hölderlin è perciò in ultima analisi un pensatore panteista, sostenitore dell’esistenza di un principio immanente (Dio-Sostanza-Natura), che tutto comprende e all’interno del quale tutte le cose si muovono: in altre parole è la filosofia dell’En kai Pan, formula greca con la quale si indica l’identità dell’Uno col Tutto. Riprendendo alcuni passi di Jacobi riferiti a Lessing (e perciò a Spinoza), Hölderlin scrive: «Le concezioni ortodosse della divinità a lui non si confacevano. Non le poteva soffrire. En kai Pan! Altro non voleva sapere»[7]. Tuttavia, una simile concezione è in stretto legame con alcuni fondamentali tratti del sistema leibniziano – vera e propria filosofia dominante nella cultura tedesca del secolo – e soprattutto con il concetto di Weltharmonie, da Leibniz utilizzato per illustrare la relazione organica della monade con l’universo e del particolare con l’universale, in quanto nella singola monade è sempre contenuto l’universo nella sua interezza. Il Tutto, in definitiva, è organicamente concepito come un insieme di parti discrete ma che si rimandano continuamente l’un l’altra, all’interno di una “armonia universale” che lega ogni cosa.

Hölderlin pone quindi il panteismo spinoziano all’interno di una cornice teorica di matrice leibniziana, adoperando gli strumenti concettuali che ne derivano allo scopo di risolvere il dualismo kantiano tra sensibilità e morale, tra il soggetto pensante e il noumeno inconoscibile che gli sta di fronte. Per tentare di superare la scissione criticista tra soggetto e oggetto, Hölderlin «opta per un’identità radicale, un rapporto di uguaglianza e compenetrazione di soggetto e oggetto»[8], che ha nell’esaltazione poetica della Weltharmonie naturale la sua più alta espressione insieme artistica e filosofica. Caso paradigmatico è l’Inno alla Dea dell’Armonia, lirica che fa parte dei cosiddetti “Inni di Tubinga”: già dall’epigrafe dedicata ad Urania[9], il poeta manifesta una Weltanschauung che, per quanto abbiamo detto finora, si potrebbe definire di tipo spinoziano-leibniziano: «Urania, vergine splendente, con la sua incantata cintura tiene unito l’universo in un’estasi fremente»[10]. Numerosi e continui, nel testo della lirica, i richiami al concetto di armonia, gli accenni al legame indissolubile tra parte e Tutto e le lodi all’Eros (neo)platonico, medium di fondo del dispiegarsi della Weltharmonie:

 

E per stringere il grande patto dell’amore

Incontro a lui canta Urania:

“Vieni, figlio della dolce ora

Della creazione, vieni, eletto! e amami!

I miei baci ti consacrarono al patto,

In te infusero lo spirito del mio spirito.

Il mio mondo è specchio della tua anima,

Il mio mondo, figlio!, è armonia,

Rallegrati! Quale sigillo manifesto

Del mio amore vi creai entrambi.

Spoglia è la bella veste delle creature,

Se la forza del mio braccio non l’annoda”[11]

 

Tralasciando l’analisi della lirica e tornando al nostro argomento principale, possiamo aggiungere, in conclusione, che Hölderlin non ereditò da Spinoza solo i principi di una concezione panteistica del mondo elaborata e sviluppata nel modo che abbiamo esaminato, ma anche – di conseguenza – un atteggiamento critico contro ogni dogmatismo e ortodossia in materia religiosa. Nello scritto Sulla religione, Hölderlin definisce infatti il fenomeno religioso come una connessione superiore tra l’uomo e il proprio mondo, come una vita umanamente più elevata, al di sopra del bisogno fisico e morale[12]: nessun elemento positivo o dottrinario entra a fa parte della definizione hölderliniana di religione, che può quindi a pieno titolo essere definita spinoziana. Continuando nella lettura si trovano considerazioni sempre più particolari e dettagliate, volte a mettere in relazione le differenti religioni positive con le diverse esperienze umane dei popoli che le professano:

 

Ognuno dovrebbe avere il proprio Dio nella misura in cui ha un proprio ambito in cui agisce e di cui fa esperienza; e solo in quanto più uomini hanno un ambito comune dove […] agiscono e patiscono, solo in tal senso hanno una divinità comune […]. Dunque, come uno può approvare il modo di vivere limitato ma autentico di un altro, così può anche approvare il modo di rappresentazione limitato ma autentico che l’altro ha del divino […] Proprio perché in ogni modo di rappresentazione è insito anche il significato di un particolare modo di vivere[13].

 

Una approccio al problema caratterizzato da ciò che Ruschi chiama una «incolmabile distanza da ogni forma di dogmatismo»[14], e che pone Hölderlin in quella corrente di critica e rifiuto della religione come istituzione di cui già Spinoza faceva parte.

 

 

Goethe e Hölderlin: le ragioni  di un’incomprensione

La nota incomprensione di Hölderlin da parte di Goethe è un fatto certamente curioso e interessante dal punto di vista aneddotico, ma è allo stesso tempo un episodio che porta con sé domande e interrogativi impossibili da sottovalutare. Com’è stato scritto, difatti, «quando il massimo rappresentante di un’epoca, che a ragione è stata infatti chiamata Goethezeit, non “riconosce”, almeno così sembra, il più giovane, […] ricondurre l’accaduto al piano esclusivamente biografico-cronologico non rende quasi mai ragione del significato più segreto dell’avvenimento»[15]. Il saggio di Giampiero Moretti da cui sono tratte queste righe è dedicato proprio alla ricerca di quelle ragioni profonde e di quelle differenze “di spirito” all’origine di questo famoso misunderstanding filosofico. Al di là degli (a volte surreali) episodi che caratterizzarono i rapporti tra i due personaggi, l’autore si chiede «quale fu l’intreccio di poesia, natura e storia che, configuratosi in Hölderlin, Goethe non seppe o non volle comprendere?»[16].

Pur nella consapevolezza di doversi necessariamente limitare a fornire solo qualche accenno di quella che dovrebbe essere una risposta esauriente a una simile domanda, si può affermare che la causa principale dell’incomprensione sia da ricercare nelle divergenze sull’essenza della poesia ed in particolare sul concetto goethiano di metamorfosi, ovvero di quel “mutamento nel simile” sciolto da qualsiasi regola poetica eterna e immutabile. Secondo la puntuale analisi di Moretti, la metamorfosi così com’è concepita da Goethe, non è infinitamente libera, in quanto fa affiorare l’esistenza di un fondamento regolatore, un principio cardine tuttavia non esterno e immobile, ma situato all’interno dell’anima (mobile) dell’artista. Hölderlin, tradendo le intuizioni iniziali di Goethe, tende a forzare i confini dello sguardo artistico, il quale, assumendo i connotati della profezia, si smaterializza gradualmente ed è reso perciò incapace di reggere alla visione di un fondamento regolatore in continua trasformazione[17]: Goethe, diffidando di questo percorso che portava direttamente dal romanticismo al decadentismo, non poté far altro che riconoscere l’orizzonte hölderliniano come sostanzialmente estraneo alle sue convinzioni poetiche più profonde. Fu forse proprio la diversità di opinioni sull’essenza della poesia il motivo scatenante della persistente incomunicabilità che contrassegnò il rapporto intellettuale tra due delle figure più rappresentative del romanticismo tedesco.



[1] Il destino di Spinoza nella cultura filosofica – fino a questo episodio – fu quello di essere nello stesso tempo dimenticato e tuttavia criticato, rifiutato, respinto: il suo pensiero era percepito come pericoloso, le sue idee erano ritenute contrarie alla religione e alla morale, le sue teorie erano giudicate sovversive nei confronti delle autorità e delle istituzioni. Come ha ben colto Pierre-François Moreau, Spinoza «è colui del quale non si parla, colui che si critica senza averne letto gli scritti, colui il cui nome fa rabbrividire. Non lo si riconosce come un pari, ma lo si tratta come l’empio che occorre sconfiggere» (P.F. Moreau, Spinoza, la ragione pensante. Una guida alla lettura, Editori Riuniti, Roma 1998, pp. 9-10).        

[2] Cfr. K.M. Meyer-Abich, Libertà nella natura: il congeniale spinozismo di Goethe, in G.F. Frigo et alii (a cura di), Arte, scienza e natura in Goethe, Torino, Trauben 2005.  

[3] Spinoza, Opere (a cura di F. Mignini), Milano, Mondadori 2007. In questa frase tratta dalla Prefazione alla Parte Terza dell’Etica, Spinoza si riferisce forse in primo luogo a Cartesio, ma più in generale a tutti coloro che considerano assoluta e libera la volontà umana, come se l’uomo avesse in sé il potere di turbare e stravolgere con una sua creazione il corso necessario degli eventi. 

[4] J.W. Goethe, La metamorfosi delle piante, a cura di S. Zecchi, Milano, Guanda 1983, p. 124. Per chi abbia familiarità con la prosa dell’Ethica, è superfluo sottolineare il forte sapore spinoziano di questa frase.  

[5] K.M. Meyer-Abich, op. cit., p. 290.  

[6] Cfr. R. Ruschi, “Commentario” a F. Hölderlin, Scritti di estetica, Milano, Mondadori 1996, p. 168.

[7] F. Hölderlin, op. cit., p. 41. Non rientra nello scopo di questo testo l’analisi della correttezza filosofica di questa interpretazione: qui basti dire che per lo spinozismo sono state proposte diverse definizioni, ma nessuna che riesca a esaurire in una parola la complessità e la ricchezza di questo pensiero. Le etichette più diffuse sono quelle di panteismo, panenteismo e ateismo, mentre Hegel ha parlato addirittura di acosmismo.      

[8] R. Ruschi, “Commentario” a F. Hölderlin, op. cit., p. 169. 

[9] Urania è la musa greca dell’astronomia, e perciò dell’ordine e dell’armonia universale del mondo (kòsmos).

[10] F. Hölderlin, Tutte le liriche, a cura di L. Reitani, Milano, Mondadori 2001, p. 19. 

[11] Ivi, p. 23.

[12] Cfr. F. Hölderlin, Scritti di estetica, cit., p. 56.

[13] Ivi, p. 58-59 passim.

[14] R. Ruschi, “Commentario” a F. Hölderlin, op. cit., p. 177.

[15] G. Moretti, Goethe, Hölderlin e l’essenza della poesia. Breve storia di un’incomprensione, in G.F. Frigo et alii (a cura di), op. cit., p. 311. 

[16] Ivi, p. 314.

[17] Cfr. Ivi, p. 317-318. La trattazione di Moretti è accompagnata dalla rievocazione di un episodio della biografia di Hölderlin, riguardante la disputa poetico-filologica con Johann Heinrich Voß, che per brevità abbiamo deciso di tralasciare.    


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