A cura di Diego Fusaro "Una cultura nasce nell'attimo in cui una grande anima si desta
dallo stato psichico originario dell'eternità eternamente fanciulla e se ne
distacca, come una forma da ciò che è privo di forma, come qualcosa di limitato
e di perituro dall'illimitato e dal permanente. Essa fiorisce sulla base di un
territorio delimitabile in modo preciso, al quale rimane vincolata come una
pianta. Una cultura perisce quando quest'anima ha realizzato l'intera somma
delle sue possibilità sotto forma di popoli, di lingue, di dottrine religiose,
di arti, di stati e di scienze, ritornando quindi nel grembo della spiritualità
originaria. " (Il tramonto dell'Occidente)
L'antitesi
ipotizzata da Dilthey tra "spiegazione naturale" e "comprensione storica" si
traduce in Oswald Spengler (1880-1936) nella contrapposizione tra "mondo come
natura" e "mondo come storia". Spengler non fu tanto un filosofo nel senso
rigoroso del termine, quanto piuttosto un ideologo, indubbiamente capace di
cogliere certi orientamenti politico-spirituali del suo tempo, ma troppo
proclive a sbrigative liquidazioni di determinati princìpi e valori (la libertà,
la democrazia) e ad avventati appoggi agli orientamenti razzistici e totalitari
approdati ad ultimo al nazismo. Egli, oltre ad altri scritti tra cui è bene
ricordare Prussianesimo e socialismo (1919) e L'uomo e la tecnica
(1931), è l'autore di una fortunata opera, Il tramonto dell'Occidente ,
pubblicata tra il 1918 e il 1922, cioè tra gli ultimi mesi della prima guerra
mondiale e l'immediato dopoguerra, in un periodo in cui comincia ad accentuarsi
(fino a diventare un elemento rilevante della cultura fra le due guerre
mondiali) la consapevolezza di vivere in un periodo di crisi. Crisi sociale,
economica e politica, in primis, ma anche crisi intellettuale e di valori,
insomma delle certezze che l'inizio del secolo aveva ereditato dall'ottimismo
ottocentesco (che con il Positivismo aveva raggiunto l'apice): " quello che
ci appare più chiaro nei suoi contorni è il 'tramonto dell'antichità', mentre
già oggi avvertiamo chiaramente in noi e intorno a noi i primi indizi di un
avvenimento ad esso del tutto analogo per corso e durata, che appartiene ai
primi secoli del prossimo millennio: il 'tramonto dell'Occidente' ". L'opera
di Spengler è emblematica già dal titolo: la crisi e il crollo della Germania
vengono interpretati come il tramonto dell'intera civiltà occidentale; in un
quadro concettuale che riprende temi della speculazione di Goethe e di
Nietzsche, Spengler tenta di rispondere alla domanda pressante sul destino della
civiltà europea. Respingendo ogni concezione unitaria dello sviluppo storico,
egli afferma la necessità di intendere la storia dell'umanità come esplicazione
di una molteplicità di forme differenti, cioè di diverse civiltà dotate ciascuna
di una propria vita e di un proprio sviluppo autonomo. Ogni civiltà è un organismo appartenente alla medesima specie e ha quindi una
nascita, una crescita, una decadenza e una morte; e come in tutti gli organismi
biologici questo ciclo di sviluppo ha il carattere della ineluttabilità,
risultando necessariamente determinato dal corredo di possibilità di cui dispone
all'inizio del suo sviluppo. Questo è il fondamento di ciò che Spengler chiama "
logica organica della storia " , che ha il suo principio nella necessità
del destino; e dal dominio della categoria della necessità deriva anche il
carattere della risposta che egli dà al problema del futuro della civiltà
occidentale. Esso può essere previsto in maniera esatta perché la civiltà
occidentale seguirà lo stesso cammino di tutte le altre: " a noi non è data
la libertà di realizzare una cosa anziché l'altra. Noi ci troviamo invece di
fronte all'alternativa di fare il necessario e di non poter fare nulla. Un
compito posto dalla necessità storica sarà in ogni caso realizzato, o col
concorso dei singoli o ad onta di essi ". Spengler va quindi in cerca dei
sintomi della decadenza dell'Occidente nell'analisi dei fenomeni economici e
politici del mondo a lui contemporaneo, e li scorge nell'affermazione della
borghesia, nel primato dell'economia sulla politica, nella democrazia, nella
crisi dei princìpi religiosi e nella libertà di pensiero: " non esiste una
satira più tremenda della libertà di pensiero. Un tempo non si poteva osare di
pensare liberamente; ora ciò è permesso, ma non è più possibile. Si può pensare
soltanto ciò che si deve volere, e proprio questo viene percepito come
libertà ". Se il ciclo evolutivo è lo stesso per tutte le civiltà, è
tuttavia diverso il loro corredo di possibilità. Spengler sviluppa qui, in senso radicalmente relativistico , la dottrina di Dilthey
dell'autocentralità delle epoche storiche: ogni civiltà rappresenta un mondo a
sé, con un proprio linguaggio formale, un proprio simbolismo, una propria
concezione della natura e della storia. E' quindi possibile una comprensione
effettiva solo nell'ambito di una stessa civiltà, che funge da orizzonte
primario e intrascendibile; tra le civiltà non è possibile nessuna
comunicazione, dal momento che ogni civiltà crea i propri valori e che tra di
esse non vi sono valori comuni. Con l'opera di Spengler, lo storicismo tedesco
dell'epoca approdava al relativismo: questo esito, già del resto implicito in
Dilthey, spingerà verso tentativi di restaurazione dei valori che ne
garantiscano la validità al di là delle singole epoche e culture. Non solo non
può esistere una filosofia o una morale di tipo universale-assoluto, ma nessun
principio teorico o pratico può pretendere di avere una validità non particolare
e non contingente. Spengler riprende e irrigidisce il dualismo
natura/storia : la natura è il regno dell'inerte e del "divenuto" , della
cieca necessità causale e dell'anonima uniformità esprimibile nelle formule
della scienza. La storia è, invece, il regno della vita e del vitale "divenire",
dell'intelligente necessità organica e delle particolarità individuali e
irripetibili. Protagonista della storia non è tanto l'uomo, quanto la "cultura":
riprendendo (ma in modo per più versi unilaterale) un motivo dapprima
caratteristico del Romanticismo, e poi da certi studiosi di fine Ottocento (ad
esempio Burkhardt), Spengler interpreta la cultura come
organismo . Ogni cultura/organismo ha una sua forma peculiare che ne
caratterizza tutti gli aspetti costitutivi e che la distingue poi da tutte le
altre. Essa ha inoltre una sua nascita, un suo sviluppo secondo un destino
necessario e un non meno necessario tramonto. Tale tramonto si realizza appunto
quando tutte le sue potenzialità si sono realizzate e a ciò segue un inesorabile
processo di decadenza. I momenti estremi di tale vicenda (propria di tutte le
culture in quanto tali) vengono indicati da Spengler coi due concetti di
"Kultur" e di "Zivilisation": due termini non nuovi (presenti già anche in
Kant), ma che Spengler ha contribuito a popolarizzare. La Kultur è la cultura positiva, vitale, non priva di una sana
barbarie; la Zivilisation (di cui non deve sfuggire la
provenienza lessicale straniera) è invece la cultura raffinata ed estenuata
della decadenza internazionale malata e votata alla consunzione. Per Spengler
l'Occidente è oramai giunto alla Zivilisation e, dunque, alle soglie del suo
inevitabile tramonto. L'unica speranza che si apre a questo punto è quella di un
radicale sovvertimento di tutti gli pseudo-valori dell'epoca o dell'intero
sistema socio-politico, in grado di ricondurre l'Occidente a un rinnovato stato
primitivo.