GLI STOICI
1 ) Se p, allora q, ma p dunque q (es. Se é giorno, c'é luce; ma é giorno, quindi c'é luce)
2 ) Se p, allora q, ma non q, dunque non p (es . Se é giorno, c'é luce, ma non c'é luce, dunque non é giorno)
3 ) Non: e p e q ma p dunque non q (es . Non: é giorno ed é notte, ma é giorno; dunque non é notte)
4 ) O p o q, ma p dunque non q (es . O é giorno o é notte, ma é giorno; dunque non é notte)
5 ) O p o q, ma non q dunque p (es . O é giorno o é notte, ma non é notte; dunque é giorno)
Gli schemi argomentativi , messi in luce dall'analisi logica , riflettono le connessioni che sussistono tra gli stati di fatto e gli eventi dell'universo. La fisica é la parte della filosofia che indaga il modo in cui sono per natura le cose e i legami che intercorrono tra esse. Il mondo manifesta la presenza in esso di due principi, uno attivo e uno passivo. Riprendendo probabilmente alcune analisi aristoteliche, gli stoici identificano il principio passivo con la materia, mentre il principio attivo agisce su di essa come causa efficiente che conferisce la forma. Ma la distinzione tra i due principi é soltanto concettuale; nella realtà sono indisgiungibili e sono entrambi corporei. Riprendendo la definizione di essere, avanzata da Platone nel Sofista, secondo cui l'essere é tutto ciò che ha la possibilità di compiere o di subire un'azione, essi identificano l'essere con ciò che é corpo. La materia, pertanto, in quanto passività, é soltanto un aspetto della corporeità; l'altro aspetto é dato dal principio attivo, che gli stoici identificano con la natura o Dio, che essi chiamano anche logoV, ragione. Dio, dunque, si mescola con la materia, la penetra e le dà forma: per questo aspetto, la dottrina stoica fu qualificata come una forma di panteismo. L'esistenza della divinità é confermata per gli stoici dal consensus omnium (come già per Epicuro), ma essi aggiungono anche alcune argomentazioni a favore di essa. Crisippo, ad esempio, formula questo ragionamento: se nel mondo c'é qualcosa che l'uomo non é in grado di produrre, allora ciò che lo produce dev'essere superiore all'uomo; ma i cieli e tutto ciò il cui ordine é sempre lo stesso non possono essere prodotti dall'uomo; dunque ciò che lo produce é superiore all'uomo: esso é Dio. Questa argomentazione risale dall'ordine dell'universo al suo produttore, mentre un altro argomento di tipo finalistico mira a mostrare che – per dirla con Leibniz - il mondo in cui viviamo é il migliore dei mondi possibili ed é ordinato in vista dell'uomo. In questo senso, la divinità appare agli stoici, sulla scia del Platone del Timeo e in netta opposizione nei confronti dell' epicureismo, come provvidenza. La divinità é ragione che fa del mondo un insieme ordinato e armonizza anche ciò che é imperfetto, ma è una provvidenza immanente al mondo stesso (e non trascendente, come la voleva Platone). Il male stesso appare giustificato nell'economia del tutto; esso non é altro che un sottoprodotto del bene: per esempio, la fragilità della testa umana é dovuta al fatto che essa é fatta di ossa piccolissime, più adatte alla funzione che le é propria. Crisippo asserisce che il rapporto bene/male è equivalente a quello luce/ombra: come non si capirebbe che cosa è la luce se non vi fosse anche l’ombra, così non si capirebbe che cosa è il bene se non vi fosse anche il male. Il principio divino é unico; gli dei della religione tradizionale non sono altro che nomi dei fenomeni naturali e manifestazioni dell'unica divinità, che gli stoici chiamano anche Zeus. Ma anche la divinità é corporea, giacché, se fosse incorporea, essa non avrebbe possibilità di agire e ordinare razionalmente il mondo, poiché solo il corporeo può agire sul corporeo. Riprendendo la connessione di Eraclito tra LogoV e fuoco, i primi stoici (Zenone e Cleante), identificano il principio attivo con il fuoco artefice. Il mondo nasce e perisce secondo una vicenda ciclica (come già aveva sostenuto Empedocle): dopo un periodo di parecchie migliaia di anni, ha luogo una ekpurosiV, una conflagrazione universale, nella quale tutto si dissolve nel fuoco; poi il fuoco artefice, che coincide con la ragione divina, contenente le ragioni seminali (logoi sphrmatikoi) di tutte le cose, provvede a ricostruire il mondo, che ripercorre quindi un altro ciclo; questo nuovo mondo sarà perfettamente identico al precedente: é l' eterno ritorno dell'uguale, delle stesse cose e degli stessi eventi. Esso non può essere diverso dal precedente, perchè se fosse diverso, ciò significherebbe che é migliore o peggiore del precedente, ossia che uno o l'altro non sarebbe il migliore dei mondi possibili, contraddicendo la tesi che l'azione razionale e provvidenziale della divinità dà sempre luogo al migliore dei mondi possibili. La conclusione é dunque che ogni ciclo sarà perfettamente uguale ai precedenti. Soprattutto a partire da Crisippo il logoV divino viene identificato con il pneuma (soffio), un composto di aria e fuoco. La nozione di pneuma aveva già trovato impiego nella biologia aristotelica e nella medicina, tra l'altro per spiegare i processi della respirazione e del movimento. Ad esso gli stoici attribuiscono la funzione di tenere insieme, compatti, i due elementi passivi, l'acqua e la terra: ciò dipende dalla tensione (tonoV), che il pneuma stabilisce tra le singole parti. Esso fa, dunque, dell'universo un continuum dinamico, una sorta di unico grande essere vivente, percorso incessantemente da questo soffio caldo. Di qui deriva l'interdipendenza tra tutte le parti dell'universo, che gli stoici chiamano simpatia (sumpaqeia), nel senso che ogni evento ha ripercussioni su ogni altra parte del mondo. Ciò rafforza il senso di appartenenza dell'individuo alla totalità cosmica, nella quale tutto coopera, e spiega anche perchè gli stoici siano generalmente propensi ad accettare l'astrologia, inclusa la pratica degli oroscopi: essa, infatti, parte dall'assunzione che gli astri esercitano una influenza diretta sulla vita degli uomini non solo in generale, ma nei particolari. La concezione stoica dell'unità del cosmo, retto da un unico principio attivo, trova espressione nella teoria della causalità universale. Tutto ciò che avviene per una causa, e, a sua volta, tutto ciò che avviene é causa di qualcos'altro. L'universo é retto da un'unica catena causale: un evento privo di causa frantumerebbe l'unità e la compattezza dell'universo, in quanto ci sarebbe qualcosa che non é determinato dalla natura e dalla ragione divina. Il caso é per gli stoici soltanto un nome per indicare cause che ci sono sconosciute, ma, in linea di principio, qualsiasi evento, dipendendo da una causa, può essere previsto. Su questa base gli stoici giustificano la legittimità della divinazione, ossia della predizione del futuro in base all'interpretazione dei segni che in vari modi la divinità invia agli uomini. E il fatto che dio ci lasci sapere in anticipo quel che accadrà non fa che avvalorare la tesi che lo vuole buono. In generale, gli stoici intendono per causa la causa produttrice di stati di cose o eventi; Crisippo distingue ulteriormente una causa interna e una esterna: entrambe sono necessarie per produrre un determinato effetto, ma la principale é quella interna. Poniamo, per esempio, che ci sia un cilindro su un piano inclinato; perchè esso si metta a rotolare occorre una spinta (ecco la causa esterna), ma occorre anche che esso abbia una determinata natura, cioè che sia appunto di forma cilindrica (ecco la causa interna): il modo in cui un oggetto reagisce a una causa esterna é dunque determinato dalla sua natura. Anche le cause interne, allora, rientrano nell'ordinamento causale necessario dell'universo. Ciò, come vedremo, ha importanti conseguenze nella spiegazione dell'agire umano. Il pneuma é presente in proporzioni differenti nei differenti piani della realtà, nelle piante, negli animali e nell'uomo adulto. L'anima umana é una porzione di questo soffio vitale ed é quindi anch'essa corporea. Essa é costituita dai cinque sensi, dalle facoltà di generare e di parlare e dell'egemonico o principio direttivo, che ha la sua sede nel cuore, come già sosteneva Aristotele. Gli stoici rifiutano la tripartizione dell'anima elaborata da Platone: l'anima é, invece, un'entità unitaria, il cui principio direttivo é la ragione. Nell'uomo anche l'appetizione e le passioni dipendono dalla ragione; i conflitti morali non derivano, quindi, da conflitti tra parti diverse dell'anima, razionali e passionali, ma riguardano tutti la ragione e il suo uso. L'appetizione, ossia il desiderare una certa cosa e tendere verso di essa, si fonda su un'operazione intellettuale, cioè su un atto di assenso a tale desiderio, il quale si traduce nella spinta ad agire in un determinato modo. Per esempio, quando si riceve la rappresentazione di un dolce, l'eventuale assenso a questa rappresentazione si compone di un giudizio di valore sul dolce stesso, considerato meritevole di essere mangiato, e insieme di un comando che spinge a mangiarlo. Anche le passioni, secondo Crisippo, consistono in un giudizio falso su ciò che é bene o male: la paura, ad esempio, é il giudizio su un male imminente che sembra insostenibile; l'avidità giudica il denaro un bene e così via. Come l'appetizione, anche la passione contiene un giudizio di valore, ma é meno razionale della prima; essa é propria di chi ha una ragione priva di tonoV , in cattiva salute, instabile, la quale pertanto sbaglia. Su questi presupposti antropologici si costituisce l'etica degli stoici. La natura, in quanto espressione della razionalità divina, é il criterio in base a cui stabilire ciò che ha valore: essa determina infatti il fine di ciascun essere. La nozione di natura é al tempo stesso la descrizione di ciò che una cosa (per esempio, l'uomo) e la norma che prescrive ciò che la cosa così descritta deve essere. Ogni essere vivente, anche l'uomo appena nato, é per natura disposto ad amare se stesso (in greco oikeiosiV, letteralmente "rendersi affine, conforme a se stesso") e quindi il suo primo impulso é per l'autoconservazione: esso lo spinge verso tutto ciò che contribuisce ad essa, cibo, riposo e così via e lo allontana da ciò che lo danneggia. Ma passando all'età adulta, nell'uomo si sviluppa la ragione, che trasforma gli impulsi innati nel bambino e fa emergere altri oggetti di desiderio. In particolare essa conduce alla conoscenza che la virtù é ciò che é proprio dell'uomo, più di qualsiasi altra cosa che contribuisca all'autoconservazione. Per gli esseri razionali il vivere secondo natura si identifica, dunque, con la norma del vivere secondo ragione. Con la ragione, poi , che é nient'altro che una parte della ragione universale o divina, l'uomo può arrivare a conoscere ciò che é veramente bene e ad apprendere che la vita associata e la virtù sono cose che appartengono in maniera primaria alla natura umana. Compito dell'uomo sarà in primo luogo compiere azioni convenienti (kaqhkonta) : si tratta cioè di quelle azioni il cui punto di partenza non é un semplice impulso, ma la ragione, e che, una volta compiute, possono essere giustificate razionalmente. Ma di per sè compiere un'azione conveniente non é agire bene, perchè la ragione può essere retta o distorta; le passioni, per esempio, in quanto giudizi errati, possono spingere a desiderare ciò che non é bene come se lo fosse. L'uomo veramente buono é privo di passioni e agisce soltanto in accordo con la virtù: in ciò consiste l'azione retta (katorqwma). La suprema norma morale può allora essere formulata come vivere secondo virtù: in ciò consiste il dovere perfetto, non quello puramente relativo concernente le azioni convenienti. Per gli stoici, solo la virtù ha valore assoluto, mentre tutte le altre cose, come la ricchezza o la salute e così via, hanno valore soltanto relativo, in quanto possono essere usate bene o male: così la ricchezza é sì preferibile alla povertà, ma non é un ingrediente della virtù, poichè in relazione all'essere moralmente buoni non c'é alcuna differenza tra l'essere ricchi o l'essere poveri. Bene e male sono soltanto, rispettivamente, la virtù e il vizio, mentre le altre cose, persino la vita e la morte, sono definite dagli stoici indifferenti (adiafora); tuttavia, tra le cose indifferenti alcune sono preferibili, come l'essere ricco all'essere povero, e altre da respingersi, come l'essere malato. Così la vita é preferibile alla morte, ma ci sono circostanze nelle quali il suicidio é giustificabile, in particolare quando il conservarsi in vita fosse di ostacolo all'esercizio della virtù, caso testimoniato dall’esperienza di Seneca. Per essere felice l'uomo non ha bisogno di nulla all'infuori della virtù contrariamente a quanto aveva pensato Aristotele, la felicità non ha bisogno di beni esterni; in questo senso, gli stoici sostenevano che il sapiente é felice anche nei tormenti. E la felicità, come la virtù, non ammette gradi: o si é virtuosi o non lo si é. Non c'é differenza nell'essere a dieci, a cento chilometri da Atene: in entrambi i casi non si é in Atene; così non c'é differenza tra le colpe: sono tutte uguali, sicchè non v’è differenza tra uccidere un pollo e uccidere un uomo. La conseguenza é che non c'é progresso verso la virtù: il passaggio dal vizio alla virtù, quando avviene, é istantaneo e la virtù, quando é presente, lo é nella sua globalità, non a segmenti. Nella migliore delle ipotesi i più riescono a compiere soltanto azioni convenienti, non azioni rette, che sono quelle che caratterizzano il vivere secondo virtù; secondo gli stoici soltanto il sapiente, ossia l'uomo perfetto, si trova in questa condizione: rispetto ad esso, dunque, i più sono stolti o folli. Queste tesi furono considerate dagli antichi dei paradossi, ossia contrarie alle opinioni comuni (para+doxa). Ma é possibile all'uomo vivere secondo virtù e quindi essere felice? La virtù non può esistere senza il suo contrario, il vizio. Secondo gli stoici solo l'uomo, tra gli esseri naturali, grazie al possesso della ragione, é dotato della capacità di agire bene o male, ossia in accordo con la natura o contro di essa. Sin dall'inizio, infatti, egli é dotato di impulsi e semi di virtù che deve sviluppare; a tale scopo occorre grande sforzo, dal momento che gli é anche possibile agire male. Su questo punto gli stoici recuperano il tema cinico del ponoV, della fatica come ingrediente della vita morale: non dipendono dal singolo l'ambiente e le circostanze nelle quali egli nasce e vive, come non é in suo potere il successo delle proprie azioni, ma sono in suo potere l'intenzione e il modo in cui egli agisce in relazione a tale ambiente e a tali circostanze. E' rilevante, nella riflessione stoica, questo riferimento all'intenzione: un cane legato a un carro necessariamente correrà; egli può correre di propria volontà oppure no, ma anche in questo caso sarà trascinato, aumentando però la propria sofferenza. Seneca a tal proposito asserisce: "ducunt volentem fata, nolentem trahunt". Questo esempio chiarisce il modo in cui gli stoici affrontano il problema della libertà umana. A tale questione intende rispondere la distinzione formulata da Crisippo tra cause esterne e cause interne di un evento e, quindi, anche di un'azione. In sede morale la causa interna di un comportamento consiste nell'assenso, ossia nel formulare un giudizio di valore, per esempio, che é bene compiere una certa azione; questo assenso, secondo Crisippo, dipende da noi e non da cause esterne. Ma anche le cause interne, ossia la natura propria di ciascuno, come si é visto, rientrano nella concatenazione necessaria del tutto, che gli stoici chiamano fato o destino. L'uomo non può sottrarsi al fato e alla catena di eventi che lo caratterizza, ma é in suo potere di assentire a questo ordine necessario (il cane che segue il carro che lo trascina), qualora sia riconosciuto nella sua razionalità. La libertà non consiste, infatti, nella scelta tra alternative, ma nel seguire deliberatamente di propria volontà ciò che é dettato dal fato. Solo il sapiente é per gli stoici perfettamente libero, perchè lui soltanto conosce l'ordine razionale dell'universo e da ciò gli deriva una gioia tale da essere felice anche se sottoposto a tortura; i più , invece, sono soltanto schiavi, che, come il cane dell'esempio, sono trascinati loro malgrado. Anche nella teoria degli stoici, dunque, come già in quelle di Platone o Aristotele, la libertà é invocata a conferma del primato della vita filosofica. In questo senso, la schiavitù diventa soltanto una metafora della vita morale: é la condizione nella quale si trovano i più, che non sono padroni di se stessi. Ciò rende anche irrilevante la schiavitù giuridica, che rientra soltanto nel dominio dell'accidentale, non ha fondamento nella natura: anche uno schiavo, proprietà di un altro uomo, può essere in linea teorica un sapiente e un uomo buono, ma proprio per questo non é importante la sua liberazione dalla condizione giuridica di schiavo. Tutti gli uomini sono schiavi del destino e non ha dunque importanza se alcuni siano in catene d’oro e altri in catene di vile ferro, la loro condizione è la stessa. Ciò non toglie che certo stoicismo (Seneca e Posidonio) inviti con vigore ad essere umani verso gli schiavi. La vera liberazione diventa, per gli stoici, quella dalla schiavitù, puramente metaforica, del vizio. Già Zenone sosteneva che solo i sapienti sono veramente liberi, cittadini e amici tra loro. Si tratta dunque di una città, anche questa metaforica, di soli sapienti, una città normativa, nella quale i più, inevitabilmente ostili e malvagi tra loro, non possono aver parte. I sapienti costituiscono una comunità che si allarga a una dimensione cosmica: in ciò risiede il nucleo del cosmopolitismo stoico: non a caso Seneca dirà "noi stoici, con generosità, non ci siamo rinchiusi tra le mura di una sola città, ma ci siamo aperti al mondo, e abbiamo proclamato il mondo nostra patria per poter dare un più vasto campo d'azione alla virtù". Questa città cosmica é retta da una legge naturale, le cui norme sono dettate dalla ragione universale, non dagli interessi e dalle consuetudini proprie delle singole città; esse hanno quindi validità universale e sono superiori alle leggi positive stabilite nelle varie comunità. Diversamente dagli epicurei, gli stoici enunciano il precetto secondo cui il sapiente partecipa alla vita politica, ma con esso difficilmente intendevano determinare il contesto istituzionale della sua azione: il vero raggio di orizzonte del sapiente é l'intero cosmo. Nel decennio fra il 235 e il 225 a.C. uno stoico, Sfero di Boristene, allievo di Zenone, fu ispiratore della riforma dell'educazione giovanile e forse anche delle riforme agrarie di carattere egualitario introdotte da Cleomene a Sparta, ma di fatto, in età ellenistica, la maggior parte dei membri della scuola stoica non fu protagonista di attività politica diretta. Di grande fortuna godrà la scuola stoica, a tal punto da vivere ben tre fasi distinte: dopo l’antica Stoà di Zenone e Crisippo, si svilupperà la media Stoà di Panezio e Posidonio, che ammorbidirà le punte più estremistiche dello stoiscimo, rendendolo in tal modo compatibile con il mondo romano; infine, si avrà un terzo periodo – la cosiddetta nuova Stoà – in cui corifei dello stoicismo saranno Seneca, il liberto Epitteto e l’imperatore Marco Aurelio.