LA NOZIONE DI PARTECIPAZIONE IN TOMMASO D’AQUINO

A cura di Cosimo Lamanna

 

Est autem partecipare quasi partem capere” è senza dubbio una delle affermazioni più secche con le quali Tommaso d’Aquino affronta e definisce il tema della partecipazione, vale a dire uno degli aspetti filosofici e religiosi più importanti del suo pensiero.

I dottori scolastici del secolo XIII per spiegare il significato del termine ‘partecipare’ si riferiscono immediatamente alla etimologia: <<Partecipare=partem-capere>>, ma non curandosi troppo di tale etimologia, passano senz’altro alle applicazioni dottrinali, come fa San Tommaso nel testo principale sull’argomento (Il De hebdomadibus).

Il verbo ‘partecipare’ ha un largo uso nel linguaggio ordinario: fra i più evidenti e correnti, è quello in cui il partecipare, nell’ambito di una concezione quantitativa, è un vero <<partem capere>> di qualche cosa, e suppone sempre che un tutto qualsiasi, nel campo degli interessi concreti, si sia scisso in parti, che vengono poi distribuite ai partecipanti. In questo caso il <<partecipare>> ha tutto il suo significato forte di prendere una parte fra le altre parti, sia come ricevere reale, sia come prendere una parte con esclusione formale delle altre parti.

Possiamo definire questo tipo di partecipazione, una partecipazione quantitativa, che nella sua intellegibilità è una nozione del tutto chiusa, che non pone alcun problema: problemi sorgono invece quando, applicato alla qualità e agli altri predicamenti quel significato si oscura e sembra andare incontro alla contraddizione[1].

Il linguaggio ordinario[2] presenta tanti altri usi del termine <<partecipare>>, e non sempre in essi è implicata la divisione di un tutto preesistente, anzi a volte questo tutto manca: <<partecipare>> alla gioia o al dolore ad esempio.

In base a ciò, si può dire che il <<partecipare>> nell’ordine quantitativo affetta direttamente l’oggetto della divisione mentre nel <<partecipare>> morale la partecipazione riguarda il modo. L’oggetto può essere presente tutto intero ai singoli partecipanti, ma esso tocca qualcuno di essi a preferenza secondo un modo intenso e proprio, e alle volte incomunicabile, in relazione al quale, secondo che più o meno si avvicinano, anche gli altri modi sono detti <<partecipazioni>>.

La ragione formale della partecipazione <<morale>>, o meglio il suo fondamento, non è dato dall’oggetto stesso, quanto dai legami particolari che i partecipanti possono stringere con colui il quale per primo compete l’oggetto della partecipazione: legami di amicizia, di parentela. Mentre nei rapporti quantitativi la <<comunanza>> era un effetto della partecipazione, in quelli d’ordine morale affettivo, la comunanza è invece la radice del partecipare[3].

Siamo quindi di fronte a due significati quasi antitetici e in sé inconciliabili, poiché guardano alla realtà sotto punti di vista del tutto disparati: nell’ordine metafisico che tutte queste esigenze del <<partecipare>> sono ridotte in ben legittime proporzioni.

Più facile dell’etimologia latina, sembra quella offerta dalla lingua greca, che è la madre legittima del termine, ove, se il significato resta più vago, è insieme meno esclusivo del latino <<partem capere>>. A partecipare corrispondono in greco due verbi ‘meteceim e coinwnein’: il greco non sembra suggerire immediatamente <<partem capere>>, <<partem habere>>, ma piuttosto <<habere simul>>, <<habere cum alio>>, <<communicare cum aliquo in aliqua re>>[4].

2. LE FONTI DELLA NOZIONE TOMISTA

Gli studi più recenti hanno messo in luce il fatto che nessun dottore medievale può reggere il confronto con Tommaso d’Aquino, per l’ampiezza e la sicurezza dell’informazione positiva. In lui troviamo mirabilmente fuse in una sola persona la solerzia dello storico e la tendenza irrefrenabile del teorico a portare le idee al vertice della speculazione pura.

Tommaso arrivò certamente a una concezione dinamica della vita intellettuale, che lo portava a considerare i singoli risultati in una continuità armonica, che dai primi  contatti incerti e parziali, giunge alla conquista definitiva e quieta della verità. E’ con questo modo di pensare che l’Angelico si rivolge alle fonti, non allo scopo di fare semplicemente la storia temporale delle idee, ma per la verità intemporale che esse racchiudono.

E’ molto importante riconoscere che San Tommaso non fu un puro storico, ma neppure un pensatore puro nel senso moderno del termine, cioè un contemplatore solipsista, deduttivo e universale, che s’affida a nozioni e principi, pochi di numero ed esclusivi nel contenuto. Il suo metodo ha un duplice carattere: da un lato si presenta come interpretazione storica delle Fonti, dall’altro è essenzialmente sintetico, nel senso che tende a accogliere tutti gli aspetti di verità, qua e là dispersi o mal compresi nei sistemi precedenti, e cerca poi di assimilarli e incorporarli in una unità vivente.

Nonostante il Santo Dottore sia stato piuttosto avaro nel rivelarci l’intimo lavorio del suo spirito, per quanto riguarda la nozione di partecipazione, esse sono state indicate in modo esplicito in due articoli delle Quaestiones disputatae. L’Angelico, infatti, nella Quaestio disputatae De veritate (q. XXI, art.5) chiedendosi se la bontà della creazione sia buona a causa della sua essenza, non esita a rispondere in modo negativo, sostenendo che, in base a quanto affermano Agostino, Boezio e l’autore del De Causis, le creature non sono buone per essenza, ma per partecipazione.                                                                                           

Nella Quaestio disputata De potentia (q. III, art. 5) pone il problema della creazione universale: <<Utrum possit esse aliquid quod non sit a Deo>>; la risposta è provata attraverso tre ragioni, delle quali la prima è riferita a Platone, la seconda ad Aristotele, la terza ad Avicenna: tutte e tre hanno per fondo comune la nozione di partecipazione. Se ora a questi sei autori aggiungiamo lo Pseudo Dionigi Aeropagita, che forse in questo affare è il più interessato di tutti gli altri, abbiamo ormai tutte le fonti principali, alle quali si è ispirata e può essere riferita, nel suo contenuto, la nozione tomista di partecipazione[5].

Il termine ‘partecipare’, ‘partecipazione’, ha senza dubbio un’origine platonica, e va letto alla luce della teoria platonica delle Idee, nell’ambito della quale esprime il rapporto che la realtà sensibile dei singoli (concreti), ha con quella intellegibile universale (astratta). Platone diede vita a questo dualismo per cercare di soddisfare l’esigenza di una sapere come conoscenza ’necessaria’ nei rapporti, e ‘oggettiva’ nel contenuto. Oggetto di un tale tipo di conoscenza, non poteva essere, agli occhi di Platone, la realtà sensibile, soggetta alla corruzione e al mutamento, ma la realtà ultrasensibile, eterna e immutabile.

Alla luce di questa ripartizione vanno letti i rapporti che hanno i sensibili, sempre cangianti, con le idee immutabili, e questa relazione è espressa, appunto, con il termine di partecipazione.

La instancabile ricerca dell’universale portava Platone ad asserire che l’uomo di cui c’è scienza, deve essere sempre, necessariamente, e quindi, in modo esclusivo tale. Si tratta quindi dell’uomo ideale, incorruttibile, contrapposto all’uomo sensibile, particolare. Vista in questi termini, la realtà sensibile, è considerata come un pallido riflesso, un’imitazione ispirata all’idea modello, che benché si comunichi alla cosa concreta, resta nella sua interezza e incorruttibilità, mentre la cosa concreta altro non è che un suo pallido riflesso, una sua caduca imitazione.

Il pensiero aristotelico, di contro, si oppone a questo modo di pensare e di leggere la realtà: Aristotele condanna l’idea di partecipazione[6], e cerca di rivalutare il mondo sensibile, da lui considerato come il punto di partenza della conoscenza: le forme universali vengono raggiunte per il tramite del particolare. Da questo punto di vista Tommaso si schiera con Aristotele, nella convinzione che le idee universali, hanno ragion d’essere solo nella mente, ma non esistono nella realtà.

Non ci sono quindi due realtà contrapposte, ma vi è una sola realtà, quella “sensibile”, punto di partenza obbligatorio per la conoscenza, che poi tramite l’astrazione[7] formula concetti universali. Ma se Aristotele era stato drastico nella sua critica alla nozione di partecipazione, almeno nella fase matura del suo pensiero, e aveva criticato nel I Libro della Metafisica[8], sia Platone che i Pitagorici, San Tommaso d’Aquino assume un diverso atteggiamento nei confronti della nozione di partecipazione, rivalutandola e superando la contrapposizione tra i due massimi pensatori greci, in una sintesi grandiosa e originale. L’opera di sintesi e conciliazione tra i due massimi pensatori greci compiuta dal Dottore Angelico può essere considerata epocale in quanto il divario tra i due pensatori, quali potevano essere conosciuti dalle opere di cui disponevano i medievali, appariva così rilevante, anzi sostanziale, che sembrava impossibile qualsiasi tentativo di realizzare un reale avvicinamento.

Tale infatti fu lo stato d’animo della maggior parte dei Padri della Chiesa e di buona parte dei maestri medievali, anche contemporanei del Santo Dottore, per i quali l’Aristotelismo rappresentava il tentativo supremo, per far deviare il cammino della ragione, che Platone aveva indirizzato verso il Cristo e la sua dottrina: atteggiamento, che a volte assunse delle forme esterne anche violente, di avversione alla penetrazione dell’Aristotelismo, come si può rilevare dalle condanne ecclesiastiche dell’inizio e della fine del secolo XIII.

La nozione tomista di partecipazione, che oserei dire, alla fine resta nello spirito essenzialmente aristotelica, ha potuto affermarsi e reggere agli urti polemici, grazie anche all’influsso di correnti intermediarie, delle quali la principale è rappresentata dal Neoplatonismo.

Il Neoplatonismo, infatti, cerca di realizzare, già prima di Tommaso, una conciliazione del pensiero aristotelico con quello platonico, opera questa quanto mai urgente per una civiltà pagana, che doveva mostrare la propria sufficienza di fronte all’idea cristiana che si proclamava universale, e che minacciava di sostituirsi a tutto il passato. Si cercò di mostrare che le differenze tra i due filosofi greci erano solo apparenti, ed erano dovute esclusivamente a diversità di metodo, che a reali divergenze di dottrina: Aristotele voleva parlare delle cose sensibili, Platone del mondo intellegibile.

Lo scontro tra Paganesimo e Cristianesimo, si concluse con la vittoria di quest’ultimo, che finì per incorporare l’eredità dottrinale del primo, dando così vita al Neoplatonismo cristiano[9].

Si passò da un atteggiamento di aperto contrasto, o almeno di riluttanza, nei confronti della speculazione greca, a quello di una calda simpatia nei tempi seguenti. I Padri della Chiesa[10] furono senza dubbio gli artefici di questo cambiamento di mentalità, animati dalla convinzione che a contatto della verità divina anche il frutto dell’umana speculazione potesse diventare buon vino.

Nella ricerca delle fonti della nozione di partecipazione, si possono distinguere per comodità di esposizione, due linee di ricerca: una greco-cristiana con Agostino, lo Pseudo Dionigi e Boezio, e una greco-araba con Avicenna e il De Causis; gli influssi di altre fonti, rispetto a queste indicate, non hanno che una valore relativo e secondario.

Per quanto riguarda Sant’Agostino[11], si può rintracciare all’interno della sua opera una linea filosofica di ispirazione Neoplatonica. Tommaso individuò subito questo carattere inconfondibile della speculazione Agostiniana, e lo fa notare soprattutto allorquando quella terminologia, così diversa dalla sua -aristotelica-, poteva creare qualche imbarazzo nell’esposizione del suo pensiero, e si fa premura di distinguere bene tra l’autorità che il Santo Vescovo aveva come dottore della Fede, da quella che poteva avere come filosofo.

Per quello che ci riguarda, Agostino si serve spesso del termine ‘partecipare’, per indicare le relazioni di dipendenza delle creature dal Creatore: tutto il creato, ogni bontà, verità, bellezza, vita finita, non sono che partecipazioni della bontà, verità, bellezza, vita divina infinita.

L’esuberante fioritura delle sue opere è piena di simili asserzioni, pervase da questo spirito trascendentale nella considerazione del creato, ma in nessuna parte delle sue opere, forse, come nella quaestio 46 delle 83 quaestiones, dedicata a celebrare le <<Idee>>, Sant’Agostino[12] ha espresso le sue convinzioni platoniche con maggiore eleganza e profondità. Questa questione ha avuto un’importanza capitale nella formazione della teologia Scolastica[13] e in particolare di quella tomista.

Un posto di primo piano, in questa ricerca delle fonti della nozione tomista di partecipazione, spetta senza dubbio allo Pseudo Dionigi Aeropagita. Grazie al nome di cui si coprì, questo profondo pensatore esercitò tale influsso sul pensiero medievale, da poter reggere il confronto con quello di Agostino[14]. Per quanto riguarda San Tommaso, il Durantel, nel suo vivace Saint Thomas et le Pseudo-Denis (1919), rilevò dalle opere dell’Aquinate più di 1702 citazioni espresse, tolte dal complesso degli <<Areopagitica>>, che inquadrano i punti più vitali del Tomismo.

Non si potrebbe meglio caratterizzare l’influsso di Dionigi su S. Tommaso, che dichiarandolo complementare di quello di S.Agostino: mentre la speculazione agostiniana può essere detta la <<metafisica del Vero e del Verbo>>, quella dell’Areopagita è la <<metafisica dell’Amore e del Bene>>, che è detto il nome proprio di Dio[15].

Nel De Divinis Nominibus, ove è esposta questa metafisica, il Bene o, più esattamente il <<Superbonum>>, è presentato nel suo aspetto formale, cioè secondo il suo diffondersi nelle varie partecipazioni alle creature: pur restando sempre in sé diviso e impartecipato nell’incomunicabilità della sua sostanza, si afferma che “tutto quanto è nel mondo emana da Lui, e tutto resta attaccato a Lui, come il raggio di luce al Sole...” ( Div. Nom. c.V).

Il <<superbonum>> è quindi causa di tutto, e la sua causalità arriva fino al <<non ens>> cioè la Materia; il male, come tale, non esiste, perché non è che la privazione di un bene (debito), onde i mali particolari non possono derivare da qualcosa che è male per essenza, poiché non sono tali per una qualche partecipazione, ma per una <<privazione>> di partecipazione[16].

La dialettica è sempre identica: ogni perfezione finita non è che un effetto della perfezione per essenza; così ogni esistente, ogni vivente, ogni sapiente, deriva da ciò che è, che vive, che è sapiente per essenza, e tutte le creature hanno in Dio le proprie <<ragioni>>, che Dionigi, per restare fedele alle Sacre Scritture, chiama <<praedefinitiones>>. Le creature vengono così a mostrare in sé una somiglianza di Dio, e diventano per il nostro intelletto le vie, risalendo le quali possiamo arrivare a quella conoscenza che di Lui è possibile. La nostra conoscenza di Dio, quindi, resta sempre indiretta e mediata, e possiamo indicare tre tappe: la prima, affermando che Dio è la causa di tutte le cose (via causale); la seconda, che non può avere alcuna delle imperfezioni e limitazioni proprie dei causati (via negationis); la terza, che le stesse perfezioni dei causati sono in lui in un modo eccedente (via eminentiae).

La teologia dei <<Nomi Divini>> passa così attraverso due fasi: una affermativa, quando ci solleviamo dalle creature a Dio, e un’altra negativa, quando, ritornando alle creature, siamo obbligati a negare di Dio, i modi di essere trovati in quelle, e a concepirlo al di sopra di tutti i predicati positivi e negativi.

Non di secondaria importanza è stato l’influsso di Boezio, cui Tommaso si rifà espressamente nei due commenti al De Trinitate e al De hebdomadibus.

Il programma della speculazione filosofica di Boezio è quello stesso del Neoplatonismo, quale lo poteva assumere un cristiano: realizzare una sintesi del Platonismo e dell’Aristotelismo, quale preparazione alla speculazione teologica, nella quale sarà congiunta alla Fede e la Fede alla ragione. E’ difficile precisare fin dove egli sia riuscito nel suo intento: sembra che spesso, anche sotto il formulario più platonico, non sia espresso se non il pensiero aristotelico, come nell’opuscolo De hebdomdibus, che interessa in modo tutto particolare la nozione tomista di partecipazione[17].

Circa il contenuto dell’opuscolo, è stato già detto nel capitolo precedente, e quello che mi preme precisare in questo capitolo, è l’influenza che esso ha avuto su Tommaso d’Aquino.

La maggior parte dei critici sono concordi nel ritenere che il significato dato da Boezio alle proposizioni ‘ipsum esse’ e ‘id quod est’, non è lo stesso che ha inteso Tommaso. L’Aquinate, infatti, ritiene che l’ ‘ipsum esse’ sia l’ ’actus essendi’, mentre l’ ‘id quod est’ rappresenti la sostanza concreta che funge da soggetto nell’atto esistenziale.

Ricerche critiche recenti, condotte sia dai difensori, come dagli avversari della distinzione reale, hanno portato al risultato concorde per il quale l’interpretazione più corretta dei testi boeziani non suggerisce, almeno direttamente, una distinzione reale fra essenza ed esistenza, poiché essa ne è completamente assente. L’identità che Boezio pone in Dio, è l’identità della sostanza e della forma divina, la distinzione che stabilisce nella creatura è una distinzione fra la sostanza prima e la sostanza seconda, non si tratta quindi di una distinzione tra essenza e atto di essere come la intende Tommaso. ‘Ens per participationem’  quindi, significa per Boezio l’ente finito e composto, nell’ordine della sostanza, di materia e forma, o a somiglianza di materia e forma, e non la composizione in ’linea essendi’ di essenza e atto di essere.

Boezio può essere considerato il vero intermediario tra Platone e Aristotele, come lui stesso mostra chiaramente non riuscendo a scegliere da che parte schierarsi. L’indecisione confessata dallo stesso Boezio indurrà Goffredo di San Vittore, nell’XI secolo, a vederlo seduto tra Platone e Aristotele, intento ad ascoltare ora l’uno ora l’altro[18].

Assieme a Boezio, per quanto riguarda l’origine della nozione di partecipazione predicamentale, va ricordato il neoplatonico Porfirio, di cui Boezio tradusse e commentò due volte l’Isogage i Categorias Aristotelis, operetta che fu tenuta in gran conto dai medievali.

Nell’Isogage Porfirio, cercando di coordinare i predicabili fra di loro, si serve sistematicamente del termine <<partecipazione>>: egli ritiene che per la partecipazione i molti predicabili vengono a formare come un’unità; ma la partecipazione non avviene sempre allo stesso modo, quella al genere e alla specie avviene sempre in modo uguale, non così per quanto riguarda gli accidenti, soprattutto per quelli separabili.

Quello che va notato è che mentre il termine <<partecipazione>> conserva in Porfirio un significato essenzialmente logico, e così pure nei Commenti di Boezio, nei testi tomisti, esso suppone un profondo significato metafisico[19].

 

Fra le influenze che hanno preparato la nozione tomista di partecipazione, ha un’importanza di primo piano quella che partì dal Neoplatonismo arabo: in particolare ai fini di questo lavoro, interessa la forma che la riflessione arabo-islamica assunse nell’opuscolo intitolato De Causis e nella filosofia del persiano Avicenna.

Per quanto riguarda il De Causis si tratta di un’opera di alta metafisica, composta tra il sec. IX e X, a lungo attribuita ad Aristotele, e conosciuta attraverso una traduzione della Scuola di Toledo, dal titolo De bonitate pura. In seguito Tommaso d’Aquino, servendosi della traduzione della Elementatio di Proclo fatta da Guglielmo di Moerbeke, notò la straordinaria somiglianza tra questa e il De Causis, e ne dedusse che quest’ultima non poteva appartenere ad Aristotele[20].

Per quanto riguarda la dottrina propria del De Causis, si può osservare che essa poggia tutta su di un realismo esagerato, che tiene l’immediata corrispondenza, come Platone, fra i gradi di astrazione intellettuale e quelli di essere nella realtà.

Al sommo degli esseri sta l’Uno e il Bene, causa prima, collocata ‘ante aeternitatem’, da essa derivano le Intelligenze pure, collocate ‘cum aeternitate’ (derivano le une dalle altre per un complicato processo di emanazione intellettuale, per cui la perfezione e purezza della prima, si viene degradando nella seconda).

Dall’intelligenza deriva l’ Anima mundi, che è detta ‘post aeternitatem’, e dall’Anima deriva la Natura, cioè il mondo dei corpi, che è solo effetto e non causa.

In questa sede, giova notare specialmente la nozione di ‘esse’, che è detto la prima formalità creata: <<prima rerum creatarum est esse>>. L’ ‘esse’ indica il contenuto più profondo delle cose, su cui tutto posa, e San Tommaso, collegando questa nozione a quella di Dionigi, e a quella che ha letto in Boezio, può arrivare in modo definitivo alla nozione di ‘esse’, che gli è propria, dell’esse cioè come atto ultimo, come <<actus omnium>>, <<forma formarum>>, nozione che sta a fondamento della nozione tomista di partecipazione[21].

 

Quanto all’influenza di Avicenna sul pensiero di Tommaso d’Aquino, si deve dire che quest’ultimo, specialmente nei primi anni di carriera, subì in grande proporzione l’influsso di questo pensiero, com’è evidente nel De ente et essentia, anche se tale influsso non fu mai esclusivo, poiché non manca di criticare alcune posizioni del filosofo persiano: l’emanatismo causale, la conoscenza divina indiretta dei singolari, e nozione di esse come accidens predicamentale, l’intelletto agente separato.

Nonostante ciò, bisogna ammettere che alcuni aspetti del pensiero tomista risentono del contributo di Avicenna[22]:

a) La soluzione tomista del problema è tirata sulla falsa riga di Avicenna, e sono ad esso riferiti anche i rapporti fra Genere e Materia, Differenza e Forma, cioè fra gli elementi della definizione e quelli della realtà concreta, rapporti con i quali si stabilirà la nozione tomista di partecipazione nell’ordine predicamentale.

b) La distinzione reale fra essenza ed essere nelle creature, riceve la prima elaborazione nel Tomismo in dipendenza quasi esclusiva, e spesso perfino verbale, da Avicenna.

Altrettanto si può dire delle nozioni avicenniane di <<necesse esse>> e di <<possibile esse>>: solo Dio è <<per se necesse esse>>, la creatura in quanto riceve tutto l’esse da Dio, e l’esse rimane del tutto al di fuori dalla sua essenza (come accidens).

c) La distinzione tra cause del divenire e cause dell’essere: solo Dio è causa dell’essere, le creature influiscono soltanto sul divenire[23].

 

In questa breve, ma essenziale ricostruzione, sono state ricordate soltanto quelle fonti che, dal testo stesso di S. Tommaso, appaiono aver avuto un influsso d’ordine sistematico in relazione all’argomento in questione: esse quindi non sono le uniche. Così dei Padri della Chiesa ho indicato soltanto Agostino e lo Ps.-Dionigi, ma per la sua profonda conoscenza della letteratura patristica l’Aquinate ha subìto certamente degli altri influssi: S.Ilario a proposito della distinzione reale e San Gregorio a proposito della conservazione di tutte le cose da Dio.

Riepilogando sembra che San Tommaso abbia distinto nelle sue fonti almeno tre aspetti diversi, secondo i quali era stata presentata la nozione di partecipazione:

1) Per Platone la ragione della partecipazione è fondata sul fatto che i <<molti>> sono trovati convenire in una formalità comune, che deve essere trascendentale ai molti: si tratta dell’unità, che deve precedere la moltitudine (Dialettica dell’Uno e dei Molti).

2) Per Aristotele la ragione di partecipazione è trovata nel fatto che una formalità si trova, in natura, realizzata in modi e in gradi diversi, secondo <<prius et posterius>>, <<magis et minus>> di perfezione: ciò non è possibile se non in quanto esiste di fatto qualcosa che abbia quella formalità in tutta la sua pienezza formale, alla quale più o meno gli altri partecipano, secondo che a essa sono più o meno vicini (Dialettica del Perfetto e dell’Imperfetto).

3) Per Avicenna infine la ragione della partecipazione è fondata nella distinzione reale che c’è in ogni creatura fra essenza ed essere, poiché a capo degli esseri vi deve stare un Essere che è atto puro e semplicissimo, che è atto ed essere secondo tutta la sua essenza; anzi non ha essenza, ma è solo essere (Dialettica del Semplice e del Composto).

Queste tre <<rationes>> per San Tommaso presentano un contenuto equivalente, ed egli usa nelle sue opere, indifferentemente ora dell’una e ora dell’altra. Il suo indomito ingegno ha saputo tutto ripensare, e riprendendo i problemi dall’interno del loro contenuto dottrinale, è riuscito ad affinare, rettificare e collocare al debito posto ogni nozione[24].

 

3. LA NOZIONE DI PARTECIPAZIONE NEL DE HEBDOMADIBUS

Il commento al De hebdomadibus di Boezio costituisce, secondo il giudizio dello stesso C.Fabro, il punto di partenza obbligatorio per una indagine sulla nozione tomista di partecipazione, poiché in quest’opera Tommaso espone di getto tutta la sua nozione di partecipazione.

Come ho già avuto modo di dire, in quest’opera sono scarsi, o quasi del tutto assenti i riferimenti alla tradizione e, insieme all’esposizione letterale del testo boeziano, troviamo esposto il genuino pensiero del Dottore Angelico su un problema filosofico di capitale importanza.

Nel testo boeziano è posta una differenza tra l’essere e il ciò che è[25], ed è proprio partendo dalla spiegazione di tale differenza che Tommaso introduce la nozione di partecipazione. La prima differenza consiste nel fatto che noi intendiamo l’astratto sempre come atto, e il concreto come soggetto di questo atto, che partecipa a suo modo al medesimo. L’ ‘ipsum esse è qui considerato come l’astratto di ‘ens’, così come il ‘currere è l’astratto di currens: il ‘currere’ è qui inteso come “ciò, o per partecipazione del quale,” il  ‘currens corre, mentre l’ ’esse è considerato come quella formalità o attualità suprema per partecipazione alla quale è compreso esser di fatto tutto ciò che esiste in concreto.

A proposito della seconda differenza, Tommaso d’Aquino parla di partecipazione in questi termini: <<Est autem partecipare quasi partem capere>>. E’ questo il primo significato di partecipazione proposto nel commento, ed è questa quella che C.Fabro definisce partecipazione predicamentale[26], vale a dire quella nella quale i termini della relazione, partecipato e partecipante, restano nel campo dell’ente e della sostanza finita (predicamenti).

Nel De hebdomadibus ne sono presentati due modi: uno formale-nozionale, allorché si dice che “la specie partecipa al genere e l’individuo alla specie”, e uno reale nel senso che “la Materia partecipa alla Forma, ed il soggetto all’accidente”. Pur utilizzando un linguaggio aristotelico, nelle suddette affermazioni è contenuto il personale punto di vista di Tommaso, in quanto Aristotele non aveva mai parlato di attribuzione per partecipazione e identità sostanziale per il caso della specie e del genere.

Tommaso qui afferma, invece, che la specie partecipa al genere, che il genere è attribuito alla specie per partecipazione. Questa è una posizione importante e innovativa, nel contesto dell’Aristotelismo tomista, e indica anche quanto doveva essere importante per Tommaso d’Aquino, recuperare la nozione di partecipazione.

Nel De hebdomadibus Tommaso definisce la partecipazione come “ricevere una parte”, e aggiunge: “Inoltre ogni volta che un essere riceve in maniera particolare, ciò che a un’altra cosa appartiene universalmente, si dice che partecipa”[27]. A partire da queste osservazioni Tommaso distingue tre generi di partecipazione: quella del soggetto all’accidente, quella della materia alla forma, quella dell’effetto alla causa. 

A tal proposito si può dire, secondo il Geiger[28], che “la specie, pur essendo sostanzialmente identica al genere, non ne possiede la ragione in tutta la sua generalità”. La partecipazione che, per Boezio, era prima di tutto, e forse esclusivamente, la composizione tra due elementi estranei l’uno all’altro, ma uniti in una sola realtà, diventa in San Tommaso un rapporto di similitudine, tra due stati più o meno perfetti di una stessa forma. Questa posizione appare nel De hebdomadibus allorché si afferma: <<homo dicitur partecipare animal quia non habet rationem animalis sucundum totam communitatem>>[29]; tuttavia se in questo passo la ‘communitas’ può essere intesa sia in ordine intensivo (di perfezione), sia in ordine estensivo (di predicazione), nella Contra Gentiles, la partecipazione è spiegata senza dubbio nell’ordine intensivo[30]; qui infatti appare chiaramente la differenza di perfezione tra il partecipante e il Partecipato, poiché il primo, possiede in maniera limitata e parziale, secondo il suo modo proprio, mentre Dio non possiede per partecipazione, ma assolutamente. Questa distinzione permette poi all’Aquinate di risolvere il difficile problema del testo, vale a dire <<in che modo le cose sono buone in ciò che sono, pur non essendo beni sostanziali>>[31].

In definitiva Tommaso dà una nozione sistematica del partecipare, come <<partem capere>>, che viene applicata ovunque si diano astratti e concreti, nell’ordine predicamentale delle nature particolari ai rispettivi universali, nei principi dell’essere concreto, e nell’ordine dei rapporti causali.

I tre significati che si susseguono: partecipazione del particolare all’universale, del soggetto alla forma e dell’effetto alla causa, sono congiunti con un similiter che testimonia l’ampiezza della sintesi alla quale l’Angelico è arrivato, e in relazione alla quale espone le indicazioni di Boezio.

Si può anche notare che il primo e terzo significato esulano dal testo e dal problema posto da Boezio, e sono invece una esigenza del problema che si è posto Tommaso, quella del rapporto tra l’ ’ipsum esse’ e tutto ciò che è. Nel commento al testo di Boezio, Tommaso mette da parte il terzo modo di intendere la partecipazione, non perché sia meno importante degli altri due, ma perché non è direttamente implicato nella risoluzione del tema in discussione. L’Aquinate mostra che l’ ‘ipsum esse’, non può partecipare a qualcosa, né nel primo né nel secondo modo, poiché non c’è al di sopra dell’essere una formalità superiore alla luce della quale l’essere può essere detto partecipare; ciò che partecipa è invece l’ ‘ens’ inteso come il concreto che partecipa all’astratto, rappresentato dall’ ‘esse.

Tommaso inoltre allarga la nozione di partecipazione anche agli stessi astratti (esempio: albedo e color, ‘homo e animal’),cosa che non solo è estranea al testo di Boezio, ma ripugnante allo spirito del medesimo, secondo il quale l’astratto ha la proprietà di essere partecipato, ma non può partecipare.

Tenendo conto della etimologia tomista di partecipare: << Est autem partecipare quasi partem capere>> è importante non soffermarsi al significato puramente materiale di questa affermazione; infatti se da un lato nell’ordine della quantità, la partecipazione avviene per una comunicazione di una parte, per il fatto che in quell’ordine si possono avere realmente delle parti di un tutto distinte realmente le une dalle altre, nell’ordine metafisico, cioè della qualità e dell’atto in genere, il partecipare non può avere questo significato troppo materiale. L’atto e la qualità, come tali sono semplici, e pertanto o si hanno o non si hanno; se ad essi si applica il <<partecipare>> ciò potrà significare non l’avere una parte, poiché non vi sono parti, ma l’avere in modo particolare, limitato, imperfetto, un atto e una formalità che altrove si trovano in modo totale, illimitato e perfetto[32].

Si potrà avere in definitiva una stessa forma o qualità, realizzata in maniera differente secondo le condizioni del soggetto, e spiegabile alla luce del <<magis et minus>>, posizione di chiara origine aristotelica. Il significato pregnante della nozione tomista di partecipazione pertanto, va ricercato, a mio parere, nella relazione di somiglianza e dissomiglianza che si stabilisce tra il partecipato e il partecipante.

San Tommaso, infatti, ritiene che il <<partecipare>> sia un <<partialiter esse>>, un <<partialiter habere>>, che si oppone ad <<esse, habere, accipere... totaliter>>. La specie che nella realtà è identica al genere, rappresenta un tipo più particolare, meno universale, della forma generica. Allo stesso modo la bontà delle cose create è simile alla Bontà universale, ma nello stesso tempo differisce da questa, per il fatto che è una bontà per partecipazione, e come tale limitata e parziale.

Da questo punto di vista chi ricevesse tutto quanto ha il donatore, non partecipa del suo atto, ma è consustanziale con il donatore, come avviene nelle processioni <<ab intra>> della SS.Trinità[33]. E Tommaso continua nel suo commento, distinguendo l’essere per essenza, che è un essere semplice, e l’essere per partecipazione, che è accidentale, secondo qualcosa[34].

 

4. MODI DI PARTECIPAZIONE

San Tommaso afferma due modi fondamentali di partecipazione: uno predicamentale-univoco, l’altro trascendentale-analogo. Nel primo caso tutti i partecipanti hanno in sé la stessa formalità secondo tutto il suo contenuto essenziale, ed il partecipato non esiste in sé, ma solo nei partecipanti (esempio: l’umanità non esiste in se, ma esiste l’uomo concreto, espressione particolare dell’umanità).

Nel secondo caso invece, i partecipanti non hanno in sé che una <<similitudine degradata>> del partecipato che sussiste in sé, al di fuori di essi (esempio: l’essere dell’uomo deriva dall’Esse subsistens che è Dio). Qui troviamo il significato più forte di partecipazione, presente già nell’ultimo Platone, e che San Tommaso trovava avvalorata dalla speculazione Neoplatonica e di Sant’Agostino in particolare. Questo tipo di partecipazione è definita analoga, ed è quella della creatura al Creatore che, essendo l’essere per l’essenza, in sé riassume tutte le altre perfezioni[35].

Infatti nel De hebdomadibus, a proposito della Bontà divina e di quella creata, si sottolinea che mentre il Primo bene è buono assolutamente, in qualsiasi modo si dia, il bene creato lo è per partecipazione, e in quanto tale risulta essere sempre un’espressione parziale e limitata del Primo. Solo Dio è buono per essenza, le cose creata lo sono per partecipazione, in lui inoltre essere e agire coincidono, motivo per cui Egli è buono e giusto nello stesso tempo, mentre nell’uomo (essere composto), esser buono ed esser giusto non coincidono, con la conseguenza che l’uomo non sempre è giusto nel suo agire[36].

In base a ciò si può concludere che il partecipare è il rapporto metafisico supremo, e sfugge ad una determinazione logica. Partecipare <<si predica di un soggetto che ha una qualche formalità o atto, ma non in modo esclusivo e in modo totale>>, o come afferma lo Scheller: <<Partecipare significa nel partecipante il ricevere in modo essenziale o graduale, qualcosa del partecipato come proprio atto secondo una forma di analogia o di somiglianza. La partecipazione è così una recezione parziale nel partecipante in quanto potenza del partecipato, che è atto, secondo che il partecipato è causa esemplare per l’effetto somigliante>>[37].

Il partecipato e il partecipante, differiscono per il modo di avere: si dice, infatti che la creatura partecipa l’ ’esse’, non solo nel senso che l’ ’esse della creatura non esaurisce la pienezza estensiva dell’esse, come la mia umanità non esaurisce la pienezza estensiva di questa forma, poiché essa può essere in altri e altrove: ma soprattutto nel senso che l’essere creato è formalmente finito sotto l’aspetto intensivo; è ‘esse’ soltanto e non necessariamente vita, sapienza...,come lo è invece l’ ‘Esse per se subsistens’; e se la creatura esercita queste ulteriori formalità non immediatamente per il suo ‘esse’, ma per mezzo di potenze e accidenti aggiunti, radicate nella essenza.

5. PARTECIPAZIONE E CAUSALITÀ NEL TOMISMO

La nozione tomista di partecipazione, assume particolare importanza nell’ambito della storica opposizione tra platonismo e aristotelismo. Da questo punto di vista essa riassume, forse, l’originalità storico-speculativa del tomismo, in quanto Tommaso è riuscito a privare il Platonismo e l’Aristotelismo dell’aspetto caduco che li opponeva, facendoli convivere secondo una mutua complementarità.

La filosofia cristiana del medioevo, sulla scorta di Platone, Agostino, Avicebron, Avicenna e altri[38], aveva badato a salvaguardare i diritti di Dio, con una specie di geloso timore, quasi che concedendo qualcosa alla creature, si sottraesse qualcosa alla perfezione divina.

Tommaso d’Aquino intuì ben presto, grazie anche alla conoscenza del pensiero aristotelico, che questo modo di leggere la realtà creata, e i rapporti di questa con Dio, era sbagliato. Tuttavia la sua risposta non fu quella di negare drasticamente la nozione platonica di partecipazione a favore di quella aristotelica di causalità, ma di sviluppare l’una e l’altra in senso convergente, quasi che il concetto e il modo più puro di causare fosse un puro partecipare.

 Tommaso ha tenuto insieme i due concetti, privandoli dell’opposizione che avevano, e si potrebbe dire che la partecipazione tomista è, e insieme non è, la partecipazione platonica, così come la causalità tomista è, e insieme non è, la causalità aristotelica[39]. Non si può dire dunque, che Tommaso abbia soppresso la nozione di partecipazione a favore di quella di causalità, piuttosto si deve dire che il Santo Dottore riuscì a raggiungere un punto di vista privilegiato, che  permise di conciliare entrambe le nozioni, in maniera tale da farle risultare armonicamente equilibrate.

E’ lo stesso San Tommaso d’altronde ad affermare questo suo modo di vedere le cose, dicendo <<Similiter effectus dicitur participare suam causa, et praecipue quando non adaequat virtutem suae causae>>: si tratta del terzo modo di partecipazione espresso nel De hebdomadibus[40], che per la verità non è molto sviluppato in questo opuscolo, poiché non direttamente coinvolto nella risoluzione del problema in questione. Nel Commento alla Lettera ai Colossesi[41], quel terzo modo di partecipare, lasciato nell’ombra nel De hebdomadibus, viene ampiamente sviluppato.

Il termine partecipare, in Tommaso d’Aquino, ha la proprietà di esprimere nello stesso tempo la dipendenza causale del partecipante dal partecipato, ed insieme l’eccedenza metafisica assoluta del partecipato rispetto al partecipante. Il partecipare viene così a esprimere, in un modo nel quale nessun altro termine filosofico può pretendere di fare, il rapporto che l’ente finito ha con l’essere infinito, la creatura con il Creatore.

Per questo, tutte le opere che Dio mette al di fuori di Sé non sono che partecipazioni, e questo significa sia che la creatura ha ricevuto da Dio tutto quanto ha nell’essere e nell’operare, sia che ogni creatura nelle sue attuazioni non riceve che un aspetto di quella pienezza fontale, presente nella Divinità. Tommaso riesce a esprimere in questo modo l’esatto rapporto tra la creatura e il Creatore.

L’originalità della posizione tomista, dunque, non consiste in una negazione della partecipazione a favore della causalità, ma deve essere cercata nella novità dei principi, grazie ai quali è riuscito a salvare l’una, proprio dando all’altra tutta l’espansione che le conveniva.

 

 

 



[1] Cfr. C. Fabro, cit., pp. 39-41.

[2] Cfr. Rigutini-Fanfani, Dizionario della lingua italiana, U.T.E.T., Torino, v. III, sottp <<Partecipare>>, p. 705, col. 3 e p. 706 coll. 1-2.

[3] Cfr. C. Fabro, cit., pg. 42.

[4] Cfr. C. Fabro, cit., pp. 42-43.

[5] Cfr. C. Fabro, cit., pp. 39-122.

[6] Cfr. L.B.Geiger, La participation dans la philosophie de S. Thomas d’Aquin, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris 1953, introd. p. 9.

[7] Cfr. P. A. Castronovo, La cogitativa in S. Tommaso, Officium Libri Catholici, Romae 1966.

[8] Cfr. Aristotele, Metafisica. A,5, 987 b, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1993.

[9] Cfr. C. Fabro, cit., pp. 75-77.

[10] Cfr. Ueberweg-Geyger, Die patristiche und scholastiche Philosphie, Berlin 1928, p. 99.

[11] Cfr.  E. Gilson, Introduction à l’étude de Saint Augustin, Paris 1929; p. 115 n.

[12] Cfr. D. Augustini Hipp., 83 Quaestiones, q. 46 De Ideis, P. L., t. 40, col. 29 n. 1. Per una esposizione d’insieme, un po’ troppo letterale, della celebre <<quaestio>>, cfr. H. Meyerhoff, On the Platonism of St. Augustine’s Quaestio de ideis, in <<The New Scholasticism>>, XVI (1942), pp. 16-45.

[13] Cfr. S. Tommaso, Summa theologiae, I, q. 15, a.1 Sed contra; ib., a.2 Sed contra; a.3 Sed contra; q.84, a. 5, ed. Leonina, 1888-1906, con il commento del Gaetano. Tutto l’art. non è che una presa di posizione di fronte alla dottrina della q.46.

[14] Per la storia degli <<Areopagitica>> in Occidente, cfr. C. Théry, L’entrée du Pseudo-Denys en Occident, <<Mélanges Mandonnet>>, II (Paris, Vrin, 1930), p. 23 ss.

[15] Cfr. C. Fabro, cit., pp. 86-88.

[16] Cfr. C. Fabro, cit., pg. 88.

[17] Cfr. C. Fabro, cit., pp. 98-100.

[18] Cfr. C. Pandolfi, cit., introd. pp. 22-23.

[19] Cfr. C. Fabro, cit., pp. 105-107.

[20]  Cfr. Otto Bardenhewer, Die pseudo-aristotelische Schrift: Ueber das reine Gute bekannt unter den Namen <<Liber de Causis>>, Freiburg i. Br. 1882; cfr. M. Steinschneider, Die europaische Uebersetzungen aus den Arabischen, Wien 1904, p. 40;cfr. M. Grabmann, Die Proklusubersetzungen des Wilhem von Moerbeke unde ihre verwertung in der lateinische Literatur des Mittelalters, Byzantinische Zeitschrift 30 (1929-1930) riprodotto in <<Mittelalters Geistesleben>>, Munchen, II, p. 415. Questo studio è stato ripreso e integrato nella monografia: Guglielmo di Moerbeke O. P., il traduttore delle opere di Aristotele, in <<Miscellanea Historiae Pontificiae>>, vol. IX, Roma 1946, p. 147 ss.

[21] Cfr. C. Fabro, cit., pp. 107-113.

[22] Cfr. De Vaux, R., Notes et Textes sur l’Avicennisme latin, Paris 1934, p. 29.

[23] Cfr. C. Fabro, cit., pp.113-117.

[24] Cfr. C. Fabro, cit., pp. 120-122.

[25] Cfr. C. Pandolfi, cit., p. 97.

[26] Cfr. C. Fabro, cit., pp.144-186.

[27] Cfr. P. Porro, cit., pp. 386-387: “Et ideo quando aliquid particulariter recepit id quod ad alterum pertinet universaliter, dicitur participare illud....”.

[28] Cfr. Geiger, cit., pp.47-83.

[29] Cfr. P. Porro, cit., pp. 386-387: <<si dice che ‘uomo’ partecipa di ‘animale’ perché non possiede la ragione di animale secondo la sua intera estensione>>.

[30] Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, ed. Marietti, cura et studio C. Pera-P.Marc-P.Caramello, 1961-67 (3 volumi; testo della Leonina), Lib. I : <<Omne quod de pluribus praedicatur univoce secundum partecipationem, cuilibet eorum convenit de quo praedicatur, nam species partecipare dicitur genus et individuum speciem. De Deo autem nihil dicitur per partecipationem, nam omne quod participatur determinatur ad modum participantis, et sic partialiter habetur, et non secundum omnem perfectionis modum>>.

[31] Cfr. P.Porro, cit., pp. 398-399.

[32] Cfr. C. Fabro, cit., pg. 316.

[33] Cfr. C. Fabro, cit., pg. 317.

[34] Cfr. C. Fabro, cit., pp. 315-327.

[35] Cfr. C. Fabro, cit., pg. 318.

[36] Cfr. P. Porro, cit., pp. 418-19.

[37] E. Scheller, Das Priestertum Christi, Paderbon 1931, p. 67.

[38] Cfr. C. Fabro, cit., pg. 356.

[39] Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso d’Aquino, Società Editrice Internazionale, Milano 1958.

[40] Cfr. P. Porro, cit., pp. 382-383.

[41]  Cfr. Tommaso d’Aquino, Expositio et Lectura super Epistolas Pauli Apostoli, ed. Marietti, 2 t.

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