TRE FASI NELLO SVILUPPO DELLA PRODUZIONE CAPITALISTICA (VI)
Analizzando la produzione del plusvalore relativo, Marx delineò le tre fasi storiche fondamentali che hanno caratterizzato l'aumento della produttività del lavoro nel capitalismo e che quindi hanno portato all'aumento del plusvalore relativo: 1) cooperazione semplice, 2) manifattura, 3) macchine e grande industria.
1) La produzione capitalistica ha inizio nel momento in cui un solo capitalista occupa contemporaneamente, secondo un piano, più operai che fanno lavori simili, in uno stesso processo produttivo o in processi differenti ma connessi. è la cooperazione semplice.
Questa forma di cooperazione del lavoro era conosciuta anche nelle società schiavistica e feudale. La differenza -dice Marx- stava, per il contenuto materiale, nelle dimensioni. Nel senso cioè che il grande volume di capitali impiegati permetteva di assumere nello stesso tempo un'ingente massa di forza-lavoro, di concentrare fortemente i mezzi produttivi e di realizzare un notevole volume di produzione.
Mentre, per quanto riguarda il contenuto socioeconomico, la differenza stava nel ricorso alla manodopera salariata: il che presuppone la libertà giuridica del lavoratore.
La cooperazione da un lato si basa sulla divisione del lavoro, dall'altro essa ne accentua le forme. Infatti il lavoro individuale di ogni operaio diventa una frazione minima del lavoro complessivo: è appunto così che il lavoro, divenendo sociale, aumenta la propria produttività. L'aumento dipende anche dal fatto che tra operai salariati si sviluppa l'emulazione, la competizione.
Altri vantaggi della cooperazione (che, sotto il capitalismo, riguardano anzitutto l'imprenditore privato) sono: si risparmia sui mezzi produttivi impiegati in modo congiunto; si riduce il tempo di lavoro necessario per produrre una merce; si abbassa il valore della forza-lavoro, poiché il tempo dell'apprendistato è minimo.
La cooperazione del lavoro è esistita anche nel comunismo primitivo, ma qui i mezzi produttivi appartenevano a tutti i lavoratori, per cui la cooperazione era libera e i suoi frutti erano equamente divisi.
Marx non indica un periodo preciso in cui si svolge la cooperazione semplice capitalistica, perché, se l'avesse fatto, sarebbe stato facilmente contestato sul piano dell'analisi storica. Egli infatti contrappone tale cooperazione al lavoro isolato, individualistico, dell'artigiano, che in realtà non è mai esistito, essendo esso piuttosto il frutto di una società già fondamentalmente “borghese”.
Nel Basso Medioevo l'artigiano poteva anche essere relativamente isolato sul piano economico, in quanto, al massimo, egli poteva disporre di apprendisti e garzoni ma certo non di un'officina di grandi dimensioni. Tuttavia questo isolamento era il frutto di una “decisione comune”, che serviva per impedire la concorrenza sleale e la formazione dei monopoli.
L'artigiano medievale viveva il senso del collettivo sia in maniera professionale (oggi diremmo “sindacale”), attraverso le corporazioni di arti e mestieri, sia in maniera politica, partecipando attivamente alla vita della città, sia in maniera sociale, tenendosi costantemente in contatto con l'ambiente rurale. La corporazione difendeva l'artigiano persino sul piano militare.
Parlando della cooperazione semplice, Marx ha tralasciato quella della manifattura sparsa, cioè del lavoro a domicilio che vari artigiani svolgevano su commissione di un commerciante che dava loro la materia prima ed acquistava il prodotto finito.
2) Diversamente dalla semplice cooperazione, la manifattura può essere datata in modo preciso, perché essa ha riguardato contemporaneamente molti Paesi euroccidentali: dalla metà circa del XVI sec. alla seconda metà del XVIII.
Con questo termine s'intende una cooperazione capitalistica in un'officina di lavoratori di diverse specialità, legati da operazioni consecutive, nel fare un prodotto relativamente complesso, ma s'intende anche la cooperazione in un'officina di artigiani della stessa specialità le cui operazioni vengono suddivise fra diversi lavoratori.
L'operaio si specializza in un'operazione definita, particolare, e si trasforma così in operaio parziale, impossibilitato a produrre in modo autonomo una merce, ma capace di affinare le proprie abilità.
La differenza dalla cooperazione semplice sta nel fatto che ora gli strumenti di lavoro sono differenziati e perfezionati: il che permette una diminuzione di tempo nel passaggio da un'operazione all'altra. L'operaio però s'impoverisce intellettualmente, perché svolge mansioni noiose e ripetitive, si affatica di più.
Compaiono i primi elementi tecnico-scientifici della produzione meccanizzata. Gli artigiani vanno in rovina, anche se non completamente, almeno fino a quando la produzione non sarà del tutto meccanizzata.
In questo senso si potrebbe dire che il vero capitalismo, quello che rende irreversibile il modo di produzione capitalistico (se non interviene un fattore politico contrario), è solo quello manifatturiero, cioè quello che costringe definitivamente il lavoratore autonomo ad abbandonare i suoi mezzi produttivi per diventare operaio salariato all'interno di una fabbrica (qui s'intende la manifattura centralizzata, non quella sparsa, che è esistita anche in Italia). Finché non esiste questa forma di capitalismo, il futuro del capitalismo non è economicamente assicurato.
Lo dimostra quanto è accaduto in Italia dopo il '500. Il paese più ricco del mondo, sul piano del capitalismo commerciale, è diventato, di fronte al capitalismo manifatturiero di altre nazioni europee, il più povero, a testimonianza che la semplice emancipazione dei servi della gleba non è una garanzia sufficiente per il successo del capitalismo: occorre anche che il lavoratore indipendente venga rovinato dalla concorrenza dei prodotti industriali e costretto a trasformarsi in salariato.
Nessuno può contestare il fatto che dopo lo sviluppo della manifattura mai alcun Paese è tornato “indietro”, neanche quelli che con le due guerre mondiali subirono delle spaventose devastazioni. Naturalmente non ci si può dimenticare di sottolineare che lo sviluppo della manifattura è andato di pari passo con quello della tecnologia. Il capitalismo ha potuto definitivamente vincere il feudalesimo solo perché seppe concentrare i suoi massimi sforzi nella realizzazione di potenti macchinari, il cui uso permetteva una produzione estremamente vantaggiosa.
I Paesi est-europei che passarono dal capitalismo al socialismo, pur avendo a che fare immediatamente con la fase del capitalismo industriale avanzato, riuscirono a liberarsene perché non avevano sperimentato per secoli la fase del capitalismo commerciale e manifatturiero. La resistenza morale e materiale del feudalesimo era stata troppo forte.
Inoltre essi, superando politicamente il capitalismo industriale, lo fecero coll'intenzione di andare “avanti”, verso una società che avrebbe utilizzato la scienza e la tecnica occidentali, i capitali e i macchinari a vantaggio dell'intera collettività. Nessuno dei Paesi est-europei pensò di restare “feudale”, anche perché la stessa formazione del capitalismo, in questi Paesi, era di per sé un segno che il feudalesimo, come sistema sociale, aveva esaurito il proprio ruolo storico.
Oggi tuttavia ci si è resi conto, in questi Paesi, che la costruzione del socialismo non può assolutamente avvenire utilizzando le forme del capitalismo seppur svuotate del loro contenuto antagonistico (ciò che d'altra parte il Capitale suggeriva di fare). Ad es. il primato concesso all'industria (specie a quella pesante) ha portato tutte le società socialiste al fallimento. (La Cina ha saputo evitare questo rischio, ma solo perché, con il maoismo, aveva imposto il primato dell'agricoltura. Oggi l'illusione cinese, dopo il fallimento del maoismo, è quella di poter controllare politicamente uno sviluppo economico che in parte si vuole capitalistico. Ancora una volta l'obiettivo del socialismo democratico, in politica e in economia, resta lontano).
In Occidente il crollo del capitalismo non è avvenuto perché il colonialismo e il neocolonialismo hanno saputo scongiurarlo, ma è solo questione di tempo. La minaccia del crollo del capitalismo occidentale sarà tanto più forte quanto più forte sarà l'emancipazione economica dei Paesi del Terzo Mondo.
Un socialismo veramente democratico non può non impegnarsi attivamente per l'affermazione dell'agricoltura, per l'autogestione della produzione e per l'unificazione di città e campagna.
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Se si guarda lo sviluppo del capitalismo, pensando, con soddisfazione, che in virtù delle contraddizioni scaturite da tale sviluppo, è potuto nascere il socialismo, si farà sempre un grave torto alle formazioni pre-capitalistiche, e soprattutto non ci si potrà mai mettere nella condizione giusta per poter capire il movimento storico della libertà umana, la quale, se vogliamo, non è mai stata e non potrà mai essere destinata -come vuole il marxismo- da una spontanea e naturale “necessità storico-materialistica” a scegliere un'alternativa piuttosto che un'altra. Così facendo il marxismo è ricaduto nella metafisica che diceva di combattere.
Non si può giustificare la nascita del capitalismo col dire che la produzione di tipo artigianale del mondo feudale era di molto inferiore e che lo sviluppo tecnico si era ad un certo punto bloccato. I criteri per cui sia legittimo parlare di “sviluppo” non possono essere unicamente quelli “economici”, in quanto non è per nulla scontato che uno sviluppo della produzione comporti anche un maggior benessere sociale, una migliore democrazia politica, una più sentita convivenza civile. L'economico va subordinato alla dimensione del “sociale”.
Il socialismo non si è mai nascosto i limiti dello sviluppo capitalistico, ovvero il fatto che le contraddizioni antagonistiche avrebbero prima o poi portato il capitalismo al suo superamento, ma tale costatazione, censurando l'apporto contestativo delle civiltà pre-capitalistiche nei confronti della società borghese, restò di fatto viziata da un pregiudizio di fondo, quello secondo cui l'anticapitalismo può essere condotto solo da quelle forze sociali che si sono completamente emancipate dalla cultura religiosa.
Nel criticare il capitalismo, il socialismo marxista non ha mai cercato di capire e di apprezzare positivamente, tra le ragioni dell'anticapitalismo feudale, quelle che meritavano di confluire nell'alternativa socialista, senza per questo rischiare d'essere fagocitate o strumentalizzate. Se il socialismo avesse compreso le ragioni dei contadini, da tempo in Europa occidentale il capitalismo sarebbe stato superato.
Naturalmente sarebbe altrettanto sciocco sostenere che lo sviluppo produttivo non deve esserci, se si vuole conservare l'uguaglianza sociale. L'uno e l'altra non sono di per sé antitetiche, anche se la storia ha dimostrato che là dove esiste un forte sviluppo produttivo esiste anche oppressione e ingiustizia.
E' probabile (ed è forse una legge di natura) che la tutela dell'uguaglianza sociale comporti una limitazione dell'espressione individuale, nel senso che laddove vige il collettivismo, anche libero, le possibilità individuali di manifestare il proprio talento sono relativamente minori, proprio perché si deve anzitutto tener conto degli interessi collettivi. D'altra parte l'identità di un individuo può essere colta solo nell'ambito di un collettivo.
L'ideale naturalmente sarebbe che l'espressione dell'individuo fosse in sintonia con quella di tutto il collettivo, che cioè le esigenze dell'uno non debbano essere scavalcate dalle esigenze dell'altro. Ma resta comunque molto difficile garantire un'intesa del genere quando la produttività è elevata.
Resta comunque indubbio il fatto che in Europa occidentale si è definitivamente persa l'occasione di recuperare la memoria del pre-capitalismo. Ora non ci resta che sviluppare il desiderio di una transizione al socialismo, che sappia tener conto del pre-capitalismo ancora presente nei Paesi del Terzo Mondo.
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La merce può essere il presupposto della genesi del capitalismo solo se la società in cui si produce il valore d'uso ha già attribuito al valore di scambio un'importanza maggiore di quella che dovrebbe avere, cioè se ha permesso che nel mondo agricolo le contraddizioni socio-economiche si acuissero, offrendo così al mercante -che s'introduce come un cuneo tra quelle contraddizioni- la possibilità di un'autonomia prima impensabile.
Non chiarendo che il capitale può nascere dalla merce in virtù di ragioni culturali (quanto consapevoli è difficile stabilirlo), Marx fa risalire la genesi del capitalismo a fattori naturali del tutto spontanei.
Marx in sostanza non ha delineato lo sviluppo storico del capitale ma solo quello fenomenologico, perché quello storico implica le varianti possibili della libertà umana. Quello fenomenologico invece dà per scontata l'evoluzione del processo, e attribuisce al soggetto un'importanza marginale. Marx è stato grande come economista e come filosofo dell'economia, ma uno storico dell'economia deve saper tener conto del “se ipotetico”, cioè del come sarebbero potute andare a finire le cose se gli uomini avessero scelto una diversa strada.
Per Marx, in sostanza, la differenza tra capitalismo e pre-capitalismo sta unicamente nel fatto che qui la merce è un prodotto “parziale”, accanto al valore d'uso, che è dominante, mentre là è il prodotto principale, necessario, a cui il valore d'uso dipende completamente. La differenza è quantitativa, anche se ciò comporta, a lungo andare, una diversa qualità della vita.
Ora, nessuno mette in dubbio che merce e denaro siano i presupposti del capitale, né il fatto che essi, di per sé, non possano presupporre il capitalismo, in quanto merce e denaro si trovano anche in forme sociali pre-borghesi. Qui però si mette in dubbio che il passaggio dalla merce e dal denaro al capitalismo (come modo produttivo) possa avvenire in maniera spontanea e naturale, come una logica conseguenza delle cose.
Marx è chiaro nell'affermare che il capitalismo non potrebbe sussistere se l'operaio non fosse costretto a vendere la propria forza-lavoro come merce. Ma non è altrettanto chiaro quando delinea il passaggio dal contadino soggetto al servaggio o dall'artigiano soggetto a un perenne apprendistato alla figura sociale dell'operaio salariato.
Si può pensare a un'evoluzione spontanea dallo schiavismo al servaggio, benché tale evoluzione potesse avvenire -e di fatto è avvenuta- solo in un periodo di crisi (in cui il mercato degli schiavi s'era ristretto), e benché il servaggio abbia caratterizzato la fine del mondo antico e l'inizio del feudalesimo. In fondo tra lo schiavo e il servo della gleba è esistito il colono.
In ogni caso non ci poteva essere pacifica evoluzione dal feudalesimo al capitalismo: il passaggio implicava una rottura traumatica col passato comunitario, per quanto esso fosse caratterizzato dal servaggio. Se si accetta l'idea della pacifica evoluzione, allora si dovrebbe spiegare perché il capitalismo non si è evoluto dallo schiavismo, ovvero perché il capitalismo ha potuto evolversi dallo schiavismo solo nel Terzo Mondo, a partire dal 1492.
Il capitalismo in realtà s'è formato, e non a caso, solo dopo il feudalesimo, perché tra schiavismo e feudalesimo s'era posto un nuovo elemento, che prima non esisteva: il cristianesimo. Solo in virtù del cristianesimo si poteva ripristinare in forme diverse l'antica schiavitù (e queste forme sono state tanto più diverse quanto più il cristianesimo, pur tradendo le sue origini, se n'era allontanato di meno).
Solo illudendo il cittadino sul valore della sua libertà personale (giuridica e filosofica: si veda il cogito cartesiano), lo si poteva indurre ad accettare la schiavitù sociale salariata. Senza questo esplicito riferimento alla libertà personale (di cui il cristianesimo, pur con tutti i suoi tradimenti, è stato un grande cultore), non ci poteva essere la grande mistificazione del capitalismo. Ovviamente se ciò in Occidente è potuto accadere, il motivo risiede nel fatto che il cattolicesimo-romano aveva subìto un'involuzione molto profonda, più profonda di quella dell'ortodossia, ma non così profonda da accettare la sua morte naturale nel protestantesimo.
Marx non ha mai offerto spiegazioni convincenti sul motivo per cui il capitalismo non è nato in epoca romana. Infatti, se il denaro a un certo punto deve trasformarsi in capitale, perché ciò non è avvenuto nel mondo antico? Per quale ragione in questo mondo si accumulava per spendere, mentre nel capitalismo si accumula per accumulare? Perché nel capitalismo appare come segno di potenza e di libertà ciò che nel mondo antico sarebbe apparso come segno di follia?
Insomma, per quale motivo il mondo antico non ha potuto far nascere il capitalismo dalla schiavitù, cioè non ha potuto concedere allo schiavo la libertà personale trasformandolo in operaio salariato? Non stava forse accadendo questo nel momento in cui l'impero entrò in crisi?
Cosa ha impedito di continuare l'esperimento del colonato? Forse l'intervento dei barbari? Ma non poteva proprio il colonato rendere più forte l'impero?
Il fatto è che senza il cristianesimo non si può creare l'illusione della libertà. Il capitalismo è nato in virtù di una mistificazione: quella per cui si può essere liberi anche se non si possiede nulla. Questa mistificazione sarebbe stata impensabile nel mondo pagano.
Per Marx invece il passaggio dallo schiavismo al capitalismo non è potuto avvenire a causa di semplici determinazioni quantitative. Infatti, per realizzare il capitalismo occorrono grandi capitali, ingenti mezzi produttivi, un certo numero di operai salariati ecc.
Una delle caratteristiche più singolari del feudalesimo, che avrebbe meritato ben altra considerazione, fu che la piccola proprietà contadina poteva coesistere più o meno tranquillamente accanto alla grande azienda signorile basata sulle corvées dei servi della gleba. Questa coesistenza diventa tanto più difficile (ovviamente per la piccola proprietà) quanto più il signore feudale, pressato dalle esigenze borghesi che vanno emergendo, ha bisogno di ampliare i propri domini o di ristrutturarli in senso capitalistico. Il capitalismo infatti non può affermarsi finché non è stato completamente distrutta l'economia agricola del Medioevo. In seguito, a capitalismo realizzato, la piccola proprietà viene costantemente minacciata dalla grande.
Se vogliamo, la grande proprietà capitalistica è stata una risposta efficace, seppur negativa, al persistere delle contraddizioni antagonistiche nell'economia feudale. Invece di risolvere quelle contraddizioni in modo politico e sociale, la borghesia ha cercato di superarle in modo economico e individuale.
La nascita della borghesia è stata una conseguenza dell'incapacità del contadino di liberarsi dal giogo del servaggio. La borghesia cercò sul terreno economico-individuale quella emancipazione che, quand'era “contadina”, non era riuscita ad ottenere, nella vita rurale, sul piano socio-politico.
Perché non s'è formata la borghesia nell'Europa dell'est? 1) Perché qui l'antagonismo nel sistema feudale era meno forte (nello stesso periodo); 2) perché qui il cristianesimo aveva conservato un'idealità maggiore, per cui avrebbe tollerato di meno la nascita di rapporti borghesi. Il fatto che il capitalismo non sia nato nell'Europa dell'est sta appunto ad indicare la sua anomalia storica e nient'affatto la sua necessità.
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Il marxismo ha addebitato ai mutamenti tecnologici la causa prima della genesi del capitalismo. In tal modo però esso non ha spiegato: 1) il motivo per cui avvengono “forti” mutamenti tecnologici (a differenza di molte civiltà, in cui ciò non avviene), ovvero il legame fra tali mutamenti e l'ideologia ad essi sottesa; 2) il motivo per cui da tali mutamenti si passa a una transizione così “radicale”, ovvero il motivo per cui si cambia ideologia.
Se si considera che, per certi versi, il mondo antico, rispetto a quello feudale, aveva conosciuto una tecnologia più sofisticata, non si spiega il motivo per cui non sia nato il capitalismo in epoca romana o greca.
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Un'altra domanda a cui il marxismo non ha saputo dare una risposta convincente è questa: perché lo sviluppo della borghesia s'è verificato anzitutto in Italia? Risposte del marxismo: 1) perché qui le città romane non vennero completamente distrutte dai barbari, o almeno non lo furono come negli altri Paesi europei; 2) perché l'Italia godeva di un'ottima posizione geografica per i commerci con l'Oriente e il Nordafrica.
Ora, queste due risposte non possono essere sufficienti a spiegare l'incredibile ritardo commerciale degli altri Paesi europei, né il fatto che questi Paesi divennero commerciali grazie soprattutto allo sviluppo del Protestantesimo, e neppure il fatto che la Spagna cattolica -situata anch'essa nel Mediterraneo- non abbia mai conosciuto (neppure dopo il 1492) un vero sviluppo capitalistico.
La risposta quindi dev'essere un'altra. Ed è questa: in Italia, negli ultimi tre secoli del Basso Medioevo, s'è verificata la progressiva separazione dei cattolici dagli ortodossi (sanzionata definitivamente nel 1054). Ciò è stato determinato da un'involuzione etico-ideale del cattolicesimo e, in seguito, tale involuzione s'è approfondita. La chiesa romana, inevitabilmente, ha dovuto concedere più spazio alle forze sociali borghesi. Quando poi queste forze, con lo sviluppo comunale, pretesero maggiori poteri, la chiesa istituzionale intervenne con la Riforma gregoriana, che è stata appunto il tentativo di recuperare “politicamente” un potere “morale” perduto.
Ormai tuttavia era tardi: la chiesa non riuscirà, sino al Rinascimento incluso, a impedire lo sviluppo borghese dell'Italia. Vi riuscirà solo con l'aiuto di una forza esterna: la Spagna, che non aveva mai conosciuto alcuno sviluppo borghese.
L'Italia dunque aveva sostenuto il peso maggiore della rottura col mondo bizantino, era cioè stata la principale protagonista dell'affermazione della cattolicità occidentale, ma i frutti di questa rottura alla fine li ottennero altri Paesi, quelli nord-europei, cioè quelli più lontani dalle tradizioni bizantine.
Enrico Galavotti galarico@inwind.it http://www.homolaicus.com/