Kuhn e la scienza economica
1. Introduzione: il ruolo del
dibattito epistemologico nello sviluppo scientifico
1.1 Il ruolo del metodo nello
sviluppo di una scienza
1.2 Il metodo ‘preventivo’ e il
metodo ‘successivo’
1.3 È possibile superare questa
contrapposizione unilaterale
1.4 L’economia e la filosofia
della scienza
1.5 Sintesi del presente lavoro
2. Il ruolo di Kuhn nella
filosofia della scienza
2.1 I punti forti
2.2 I punti deboli
2.3 Le critiche
3. Kuhn e l’economia: lo
sviluppo ciclico della scienza
4. Sviluppi della teoria di
Kuhn
4.1 La “stratificazione”
paradigmatica
4.2. Sulla struttura del
paradigma scientifico
4.3 Le lotte all’interno del
paradigma
4.4 Crescita della conoscenza e
cambiamenti sociali
4.5 Conclusioni: come la teoria
di Kuhn può aiutare gli economisti e viceversa
Kuhn e la scienza economica
A cura di Pinko Pallino
1. Introduzione: il ruolo del dibattito epistemologico
nello sviluppo scientifico
1.1 Il ruolo del metodo nello sviluppo di una scienza
Gli economisti si interessano poco a questioni
epistemologiche. Nella loro formazione i lati filosofici sono lasciati ai
margini se non del tutto eliminati.
La filosofia della scienza appare allo studente di
economia un insieme di problemi astrusi da cui rifuggire, concentrandosi invece
sui ben più seri modelli ‘pratici’, le cui premesse filosofiche però rimangono
del tutto inespresse. In questo modo si avalla una tendenza a dare per scontate
le premesse delle teorie per concentrarsi sui loro risultati. Si spinge lo
studente a considerare ovvie e obbligate tutte le scelte e le svolte della sua
scienza, lo si invita alla ‘scienza normale’ e a un generale conformismo,
necessario in mancanza di ogni consapevolezza critica della parzialità di ogni
paradigma scientifico[1]. Nessuna materia meglio della storia del pensiero
economico permette di evidenziare questa parzialità, aiutando la consapevolezza
critica di cui si è detto. D’altra parte anche nello studio storico della
scienza economica spesso si espungono gli aspetti di metodo. Per questo mi
sembra importante partire, in questa ricerca, proprio discutendo del ruolo
dell’epistemologia e del metodo per lo sviluppo della scienza e dell’economia
in particolare.
Gli economisti che scrivono di epistemologia tendono a
presentare una visione del ruolo del metodo riduttiva, frutto anche della
marginalità della nostra scienza rispetto allo sviluppo complessivo della
filosofia della scienza. In molti resoconti sullo sviluppo di una teoria ci
viene presentata la rassicurante visione di un ricercatore che, per qualche
ragione ignota, trova sulla strada verso la propria teoria il metodo corretto.
Per mezzo di tale metodo, come fosse la mappa del tesoro, giunge alla teoria
corretta. In questa concezione il metodo ha un ruolo evidentemente primario e
soprattutto preventivo. Senza metodo, la ricerca difficilmente approderebbe a
qualcosa.
Tuttavia gli scienziati, quando cominciano la propria
attività, hanno spesso una conoscenza limitata dei problemi epistemologici. Più
frequentemente avviene il processo inverso: lo scienziato fa una ricerca
‘pratica’ negli anni di più forte vigore fisico e intellettuale, mentre giunto
alla fine della propria carriera, prende a scrivere di problemi di metodo,
dispensando consigli ai colleghi più giovani. A volte si arriva a una
giustificazione esplicita di questa divisione generazionale dei ruoli. Così si
sostiene che solo l’esperienza data da decenni di ricerca sul campo permette
allo scienziato di fornire ai suoi colleghi riflessioni metodologiche utili e
sensate.
Queste concezioni, seppur per ragioni diverse, non mi
sembra che riescano a inquadrare efficacemente il rapporto tra il metodo e la
teoria o, se vogliamo, tra l’epistemologia e la scienza.
1.2. Il metodo ‘preventivo’ e il metodo ‘successivo’
Secondo la prima opinione, il metodo è una serie di
norme imperative a cui il ricercatore deve attenersi al fine di fare un serio
lavoro scientifico. L’epistemologia è dunque una disciplina normativa,
sostanzialmente etica, che fornisce le leggi della ricerca alla scienza. Chi
osasse mettere in dubbio queste leggi verrebbe bollato come metafisico, come
irrazionalista ecc. Le varie ‘sette’ filosofiche scaturite dall’empirismo
logico e anche quelle successive al suo crollo aderiscono in sostanza a questa
concezione. Lo stesso Popper, che pure fu un critico del neopositivismo,
fornisce nelle sue opere principali una serie di criteri senza i quali lo
scienziato non può fare una ricerca degna di tale nome.
Secondo l’altra concezione, quella ‘successiva’, solo
i lunghi anni di ricerca mettono in grado il ricercatore di fornire preziose
indicazioni ai suoi colleghi più giovani. Indubbiamente l’esperienza sul campo
è importante per ogni scienza. Il punto è che da sola non può fornire una
filosofia della scienza, così come la raccolta di fatti in sé non crea una
teoria. Spesso gli scienziati trasformatisi in filosofi non si sono mai o quasi
mai occupati di tali problemi nel corso della propria attività. Non hanno per
lo più nessuna vera organica concezione filosofica e si sono formati una serie
di opinioni epistemologiche in letture asistematiche, convegni casuali,
discussioni ecc. Data la scarsa elaborazione personale, la tendenza inevitabile
è quella di riportare le teorie filosofiche più alla moda nel campo specifico
di appartenenza, in questo caso l’economia, applicandole come meglio si può.
Spesso, per altro, si riportano le mode di dieci o venti anni prima, cosicché
l’economia fa sempre la parte della disciplina in ritardo che rincorre lo
sviluppo dell’epistemologia e delle
branche più sviluppate della scienza accontentandosi dei loro avanzi[2]. Come detto, l’idea che gli anni di pratica
scientifica aiutino la teorizzazione metodologica non è scorretta, il punto è
che non si può sostituire a una seria e costante elaborazione il riassunto
delle opinioni dominanti nella filosofia della scienza di alcuni anni prima.
Per capire la radice comune degli errori di queste due concezioni occorre
partire dall’aspetto centrale della riflessione filosofica, dalla sua base
ontologica. Uno scienziato può considerarsi realista o relativista, idealista o
materialista, ma innanzitutto, per poter procedere su basi salde, deve
chiarirsi le idee da un punto di vista ontologico, ovvero da un punto di vista
del rapporto tra il soggetto e il reale. Ogni essere umano ha una sua
ontologia, dunque anche tutti gli scienziati e gli economisti. Il punto è che
quasi tutti gli uomini, compresi gli economisti, arrivano a un’ontologia in
modo inconsapevole, senza riflettere su questi temi. Di solito gli uomini
tendono a credere che quello che vedono e toccano esista veramente e così gli
scienziati. Detto filosoficamente hanno una posizione ontologica materialista:
i loro occhi non riflettono la creazione del proprio cervello ma oggetti che
esistono indipendentemente da noi. Da questo punto di vista l’ontologia qui
descritta sembrerebbe una banalità. In fondo se la gente tende a non passare
con il semaforo rosso è perché crede nell’esistenza oggettiva dei veicoli che
attraversano l’incrocio, e ogni prova in proposito convincerà chiunque della
veridicità della propria posizione, che potremmo definire, rozzamente,
realista. Sulla base di questa prima considerazione possiamo procedere quindi a
studiare come la scienza si origini dal rapporto tra soggetto e reale e come il
metodo a sua volta maturi da questo sviluppo.
Eppure, anche se la maggior parte degli economisti
accetterebbe di buon grado la posizione descritta, rifiutando così il
solipsismo filosofico, quando poi si passa alla teorizzazione concreta, queste
posizioni vengono dimenticate e si propende per un soggettivismo metodologico
che contrasta completamente con quella posizione.
1.3 È possibile superare questa contrapposizione
unilaterale
Le due
posizioni presentate non riescono a dar conto del reale rapporto tra la scienza
e il metodo. Il metodo non può essere un insieme di leggi etiche imposte alla
ricerca, né d’altro canto può essere il risultato spontaneo del lavoro di
ricerca. La pura deduzione e la pura induzione sono parimenti unilaterali e
fuorvianti. Il metodo sorge dall’interazione tra la scienza e la filosofia.
L’epistemologia si sviluppa insieme alla scienza. Le scoperte concrete aprono
anche nuovi orizzonti filosofici; allo stesso tempo l’epistemologia può essere
decisiva per indirizzare correttamente la ricerca. Anche se ci occuperemo della
teoria di Kuhn in seguito, già possiamo cogliere la sua importanza proprio da
questi temi. L’idea di una separazione netta tra scienza ed epistemologia viene
superata con il concetto di paradigma che le compendia.
La teoria economica neoclassica è un esempio
chiarissimo. Essa è inseparabile dal suo metodo riduzionista e soggettivista,
il quale orienta la ricerca in ben precisi ambiti e canali. Non a caso
l’individualismo metodologico, una volta secondario nella teoria
macroeconomica, ha modificato e modifica anche questa branca (come per esempio
dimostra il dibattito sulle ‘microfondazioni’), costringendo tutti i settori
della scienza economica a rendersi coerenti alla propria base metodologica.
D’altra parte, gli scienziati che ritengono le teorie neoclassiche del tutto
inutili a spiegare l’economia, si accorgono ben presto che devono anche
sbarazzarsi della filosofia della scienza che ne è la spina dorsale,
altrimenti, tramite questo, giungono nuovamente alle conclusioni teoriche
neoclassiche. Lo sviluppo di metodo e teoria è dunque interattivo, dialettico.
Questo non significa che tra essi non sorgano contraddizioni. Ma queste
contraddizioni devono risolversi in un senso o nell’altro. O prevale la ricerca
empirica, superando i limiti del metodo e giungendo a un nuovo e superiore
rapporto con la filosofia, oppure prevale il metodo e la ricerca esclude i
problemi, le contraddizioni dal campo della scienza ufficiale. Quando le
contraddizioni giungono a mettere in pericolo il rapporto filosofia-scienza,
subentra la crisi del paradigma e il suo declino.
1.4 L’economia e la filosofia della scienza
Se si
analizzano le pubblicazioni dedicate dagli economisti a questioni metodologiche
si ha l’impressione di un ampio e profondo dibattito e complessivamente di un
serio interessamento all’epistemologia. In realtà la situazione mi sembra più
fosca. Innanzitutto la filosofia della scienza dominante si occupa poco di
scienze sociali, che considera organicamente sottosviluppate. I fondatori del
circolo di Vienna erano quasi tutti matematici o logici. I loro padri
spirituali (Frege, Russell, Wittgenstein) erano logici e matematici. Il
falsificazionismo di Popper è sorto nella mente del suo creatore paragonando la
teoria di Einstein (una teoria fisica) a quella di Marx (una teoria sociale) e
di Freud (una teoria psicologica). Ovviamente la relatività faceva la parte
dell’esempio buono, il marxismo e la psicoanalisi quello delle pecore nere.
Kuhn è essenzialmente uno storico della scienza, in particolar modo della
fisica. Lo stesso può dirsi per tutti gli altri principali epistemologi del
nostro secolo. La fisica, in queste concezioni, è sempre la regina delle
scienze, la pietra di paragone. L’economia è una specie di ultima ruota del
carro. Gli economisti assecondano totalmente questa tendenza, prendendo loro
per primi la fisica a modello di scienza. Quanto più una teoria economica si
confonde con una teoria fisica, tanto più sembra inattaccabile. Non solo la
fisica è l’esempio di come fare scienza ma l’epistemologia che da essa si
origina viene applicata, o almeno si tenta di applicarla, tout court
all’economia.
Ma l’economia ha implicazioni politiche infinitamente
più rilevanti della fisica e di ogni altra scienza. Certo, le opinioni
politiche e sociali condizionano tutti gli scienziati. Per esempio Heisenberg
interpretò il principio d’indeterminazione in modo tale da giustificare il suo
appoggio al regime nazista in Germania. Un comportamento simile ebbe Konrad
Lorenz con l’etologia. Ma questi sono casi particolari facilmente superabili.
Il principio d’indeterminazione non ha nessuna connessione necessaria con le
teorie naziste né ne ha l’etologia. Nelle scienze naturali, almeno nel medio e
lungo periodo, le incrostazioni ideologiche vengono facilmente smascherate ed
emarginate. Non è così con l’economia, come poi vedremo meglio. Qui basti
ricordare che gli stessi filosofi della scienza hanno agito in modo difforme
dai loro standard usuali quando hanno sostenuto o respinto teorie economiche.
Basti ricordare l’esempio di Popper. Popper si è sempre preoccupato di
applicare con severità i controlli sulla falsificabilità di una teoria fisica.
Ma quando si è trattato di teorie economiche ha agito con altri scopi e ben
altra serietà. Di fatto ha scelto prima la teoria da appoggiare (per ragioni
politiche) e quindi l’ha difesa[3]. Proprio l’opposto di quanto il suo metodo impone.
Altri filosofi hanno agito in modo simile.
1.5 Sintesi del presente lavoro
In tutto
questo quadro la filosofia della scienza di Kuhn presenta dei caratteri di
novità e di specificità, particolarmente rilevanti per gli studiosi di scienze
sociali. Quando Kuhn pubblicò il suo lavoro più famoso, La struttura delle
rivoluzioni scientifiche, l’idea che l’epistemologo dovesse spiegare cos’è
la scienza più che dire cosa dovrebbe essere, era un’eresia. Popper, che era il
più importante epistemologo del tempo, lanciò un attacco profondo alle
concezioni kuhniane. Ma la migliore prova che la teoria di Kuhn stava
conquistando rapidamente terreno venne data proprio dai seguaci di Popper.
Lakatos, che era l’allievo prediletto e l’erede designato di Popper, elaborò
una teoria, il cosiddetto falsificazionismo sofisticato, che si
distingueva dal falsificazionismo originale, ingenuo, del fondatore
proprio in quanto fortemente ispirata alle teorie di Kuhn[4]. Come vedremo la teoria di Kuhn è nettamente diversa
da quelle variamente neopositiviste. Con Kuhn cambia totalmente il ruolo della
filosofia della scienza e anche il suo rapporto con le scienze concrete. In
questa ricerca intendiamo esporre, succintamente, i punti deboli e i punti
forti della teoria kuhniana, la particolare rilevanza che la sua teoria ha per
la scienza economica e infine vogliamo proporre alcuni approfondimenti
necessari per rendere le sue concezioni pienamente in grado di spiegare la vera
natura del progresso scientifico.
2. Il ruolo di Kuhn nella filosofia della scienza
2.1 I punti forti
La filosofia della scienza di Kuhn è notissima. Non
occorrerà dunque descriverla qui. Sarà invece interessante esporre quelli che
sono i suoi cardini, gli aspetti essenziali e anche più riusciti. Passeremo
quindi a descrivere quelli che appaiono essere i punti infelici, irrisolti
della teoria e infine esporremo brevemente le critiche portate ai concetti qui
espressi.
Il primo punto di forza della teoria kuhniana è il suo
radicarsi saldamente nella storia del pensiero scientifico. I libri di Kuhn
sono essenzialmente un commento ragionato alla storia della fisica e della
chimica. Essi abbondano di esempi e casi storici che dimostrano la notevole
competenza del filosofo americano in materia. Da questo punto di vista la
novità è chiara. Se si scorrono le riviste e i saggi in cui gli esponenti del
Circolo di Vienna o di Berlino, ma anche i logici inglesi discutevano di
filosofia si vede una sequenza di teoremi, dimostrazioni logiche, assunti,
ipotesi astratte ecc., tutto tranne che il vero sviluppo della scienza. Kuhn
raccontò una volta di come nel 1947, ancora studente di dottorato, dovette
affrontare lo studio della fisica di Aristotele. Per lui era ovvio che le
teorie aristoteliche non contenevano nulla di rilevante per la scienza di oggi.
Ma l’aspetto che lo colpì di più fu proprio il fatto che tali teorie avevano
una loro logica e un loro coerente sviluppo e che nessuna semplice confutazione
empirica avrebbe, allora, potuto scalfirle. Erano semplicemente un altro
paradigma. Questo concetto di paradigma fu essenziale a Kuhn per interpretare e
spiegare lo sviluppo discontinuo della storia della fisica. Esso è senz’altro
un pilastro della sua filosofia. Tuttavia occorre subito specificare che esso
costituisce al contempo un punto forte e un punto debole. Detto diversamente:
Kuhn non lo ha sviluppato al punto tale da superare le indubbie ambiguità che
lo rendono indeterminato. In seguito vedremo che a questo scarso sviluppo si
può rimediare. Qui occorre ricordare che la scienza, secondo Kuhn, si sviluppa
proprio sulla base di un paradigma condiviso da almeno una parte degli
scienziati. Pensiamo alla meccanica classica, alla meccanica quantistica e, in
economia, alla scuola classica, alla scuola neoclassica ecc. Un paradigma non è
solo un insieme di teorie, né soltanto una concezione in senso lato del mondo.
Esso è a un tempo un insieme di regole di comportamento, di teorie condivise e
sostanzialmente inattaccabili, di un metodo di ricerca e di demarcazione
scientifica e infine un orientamento indispensabile nel lavoro degli
scienziati. Nella carriera di un ricercatore, l’incontro con il paradigma
dominante nella propria disciplina avviene molto presto, almeno in periodi
“normali”, a volte perfino nei primi anni di scuola. All’università lo studente
approfondisce le varie aree di ricerca in cui il paradigma si suddivide, impara
quali sono gli insiemi di norme che regolano la scienza, impara quali assunti
deve considerare immutabili, al di fuori della critica, e quali sono i problemi
all’ordine del giorno, di attualità. Infine, se intraprende la carriera di
ricercatore, si concentra tipicamente in una piccola area di ricerca,
nell’attività di “puzzle-solving”, di scienza normale. Trova, come è ovvio,
difficoltà nel confronto del paradigma con il materiale empirico. Riesce a
risolvere queste difficoltà e, se è brillante, da queste difficoltà fa avanzare
il paradigma e lo sviluppa. La ricerca è essenzialmente scienza normale. Quale
scienziato intraprende una ricerca in un campo ben sviluppato con l’intento di
trovare i dati per rovesciare la teoria stabilita? Nessuno, né lo si
pretenderebbe. Ma, sosterrebbe un falsificazionista, dovrebbe almeno sottoporre
la propria teoria a test i più severi possibili in modo da corroborare la
stessa. Eventuali difficoltà dovrebbero portare a capire che la teoria va
abbandonata. In realtà, come dimostrato dal filosofo americano, la scienza
normale ha un ruolo preciso e soprattutto necessario nello sviluppo di una
teoria e nessuna ‘protesta’, seppur qualificata come quella di Popper, potrebbe
farla scomparire. Kuhn, tra i primi, ha evidenziato che la scienza si sviluppa
dunque in modo discontinuo, all’interno di un paradigma la cui struttura
fondamentale rimane immutata finché non subentra una crisi, il declino ed alla
fine la sostituzione. Kuhn ha introdotto il concetto di “anomalia” per dar
conto di questo processo. Nella ricerca lo scienziato trova dei problemi, delle
anomalie che la teoria, nonostante tutta l’inventiva del ricercatore, non
riesce a eliminare. Il caso classico è l’orbita di Mercurio che, seppur
descritta egregiamente dalla meccanica newtoniana, presentava delle
irregolarità inspiegabili. Le anomalie segnalano l’arresto della fase
progressiva del paradigma. Da motore di sviluppo il paradigma diviene in
qualche modo un freno ad ulteriori sviluppi e le difficoltà si accumulano e si
rafforzano. A questo punto le concezioni alternative poste fino ad allora ai
margini della scienza, oppure concezioni che sorgono ex novo, possono attirare
sempre più ricercatori. Si instaura un’epoca di transizione che può durare
anche un considerevole lasso di tempo, ma spesso è breve. Infine il nuovo
paradigma viene riconosciuto, le vecchie teorie vengono spiegate all’interno
delle nuove o rifiutate. È curioso, e Kuhn lo fa notare molto acutamente, che
la storia della scienza dominante non segnali affatto queste discontinuità e questi
cicli di crisi e di dominio. Ogni volta che un paradigma prende il sopravvento,
avviene una riscrittura della storia che ricorda quella descritta da Orwell in 1984.
Tutta la storia della disciplina viene a quel punto interpretata, quasi
escatologicamente, come una serie di tappe che portano all’avvento del
paradigma dominante[5]. Si segnalano i precursori, che improvvisamente si
moltiplicano, si redarguiscono i rappresentanti delle vecchie concezioni e si
riporta la ricerca nell’alveo della scienza normale, solo su altri fronti.
Possiamo dunque dire che l’aspetto decisamente progressivo e innovativo della
teoria di Kuhn è la presa d’atto della vera forma di sviluppo della scienza.
Nella scienza ci sono rivoluzioni, cambiamenti profondi che trasformano le
teorie, i metodi, le prassi accettate, il modo di essere dello scienziato. Esse
si alternano a lunghi periodi di evoluzione graduale in cui la scienza normale
sviluppa e incanala la ricerca in modo da trarre il massimo possibile dal nuovo
paradigma.
2.2 I punti deboli
Se il punto forte della concezione kuhniana è il
riconoscimento che descrivere il vero significato storico della scienza è il
primo passo per capirne il funzionamento, il punto debole sta nel fatto che lo
storico che si limiti a descrivere i fatti della cronaca, produce un racconto
superficiale e non una vera analisi storica. Non basta descrivere i fenomeni,
occorre spiegarli. Occorre cioè proporre dei nessi causali che spieghino il
concatenamento dei processi in un modo necessario. Questo in Kuhn manca
totalmente. Egli non riesce a spiegare perché ci sono le rivoluzioni
scientifiche, perché si susseguono a fasi di scienza normale. Sarebbe come se
un biologo scrivesse che a fasi alterne, gli animali si accoppiano, fanno un
figlio e si riaccoppiano, senza spiegare perché fanno queste cose e che nessi
vi sono. La teoria di Kuhn è dunque una pura, ancorché lodevole e realistica,
descrizione della scienza. Questo lato descrittivista inficia anche l’analisi
delle anomalie. Si può infatti obiettare a Kuhn che la stessa identica anomalia
è stata trascurata per decenni o secoli ed è divenuta cruciale in seguito. Qual
è la vera origine delle crisi dei paradigmi? A questo il filosofo americano non
può dare risposta.
2.3 Le critiche
Le varie critiche portate alle concezioni kuhniane
seguono, naturalmente, i punti deboli, reali o presunti, di esse.
Kuhn è stato
attaccato sin dalla pubblicazione del suo libro, nel 1962, a causa della
vaghezza del concetto di paradigma. C’è addirittura chi si è divertito a
contare ventitré modi diversi di usare questo concetto[6], e lo stesso Kuhn ha ammesso tale vaghezza. Tuttavia
la correzione da lui tentata non è servita. Infatti la “matrice disciplinare”
al posto del paradigma non cambia granché, anche se orienta maggiormente la
teoria verso un’analisi sociale della scienza[7]. Il punto è che con il concetto di paradigma Kuhn
vuole intendere molte e diverse cose. Vedremo in seguito come sia possibile
superare questa vaghezza.
L’altra grande
critica che si fa a Kuhn è che questi sembra giustificare e anche favorire il
ruolo della scienza normale fra gli scienziati, accentuando così la
conservazione e la “pigrizia” epistemologica. Su questo punto il più feroce
avversario dello storico della scienza americano è sicuramente Popper, che vede
la scienza normale come un crimine contro l’umanità, una barbarie. Popper
arrivò a dire che la scienza normale esiste ma “è una cosa di cui bisogna
vergognarsi”[8]. Entrare in questo importante dibattito ci porterebbe
fuori strada. Quanto ci interessa è vedere se la scienza normale è veramente
così dannosa e che ruolo ha nell’economia. Iniziamo proprio dalle posizioni di
Kuhn. A dire il vero Kuhn non giustifica la scienza normale nella sua opera
principale. Piuttosto ne fornisce una spiegazione. In linea con il suo
indirizzo che è quello di fare epistemologia descrittiva, egli vuole semplicemente
dar conto della realtà innegabile della scienza normale. Dire, come fece
Popper, che chi la fa deve vergognarsi è sterile perché utopistico. Come disse
Spinoza “non ridere né piangere ma capire". E in questo caso capire
significa afferrare il ruolo della scienza normale nella crescita della
conoscenza. È noto che Popper ironizzando ha esaltato, nei suoi libri, la
parola d’ordine marxista della “rivoluzione permanente” che per lui è la base
dell’onestà intellettuale quando si fa scienza. Ma ha sempre dimenticato che
anche le rivoluzioni sociali sono eventi particolari che durano un ben limitato
periodo di tempo che aprono un epoca di sviluppo graduale permesso proprio
dalla rivoluzione. Le rivoluzioni, nella storia della società e della scienza,
hanno un ruolo necessario ma sono eventi rari che trasformano la situazione
(nella produzione, ovvero il sistema produttivo, e nella scienza, ovvero il
paradigma) elevandola a nuovi livelli e dando così il via a un’epoca di
sviluppo su nuove e superiori basi. La realtà cambia non linearmente,
attraverso periodi caotici di repentini sconvolgimenti e poi con periodi di
lunga evoluzione graduale[9]. La scienza nel suo progredire riflette la non
linearità della storia (non solo di quella economica). In periodi di sviluppo
graduale sia nella produzione che nella scienza, quali stimoli vengono per fare
scienza rivoluzionaria? Certamente gruppi isolati possono farne, ma a livello
della massa degli scienziati l‘attenzione sarà orientata a consolidare la
teoria che si ha. Fare scienza normale è solo marginalmente una necessità
logico-strutturale della scienza (la necessità di organizzare le novità,
eliminare le contraddizioni, formalizzare i risultati, ecc.). È piuttosto una
caratteristica storica, sociale e quindi varia con i periodi e con la società.
Essa varia anche da scienza a scienza in dipendenza del rapporto fra scienza,
società e ruolo dello scienziato. Per esempio è chiaro che la matematica è più
“conservatrice” dell’economia. Infatti è influenzata dallo sviluppo sociale
solo nel lunghissimo periodo e ha una struttura logica che tende molto di più
ad accumulare teorie e risultati rispetto ad altre scienze. Nelle scienze
sociali il rapporto fra realtà e lavoro dello scienziato ci permette di
stabilire un contatto concreto tra sviluppo economico e scienza. Durante i
periodi rivoluzionari avvengono i cambiamenti di paradigma. Il ruolo della
scienza normale è invece quello di scegliere le teorie del periodo
rivoluzionario che più sono funzionali al nuovo ciclo di sviluppo. Questo non
implica che la scienza rivoluzionaria ci sia solo in periodi di crisi. Come
detto questo è vero solo a livello complessivo. Il singolo scienziato può
riflettere la realtà sociale in ogni modo. C’è sicuramente una certa autonomia
della teoria e del suo creatore rispetto alla realtà. Ma di solito l’autonomia non
è mai tanto forte né tocca più di qualche individuo. Insomma il ruolo della
scienza normale in economia non deve valutarsi secondo criteri romantici, come
fa Popper. Non ci rincresce se uno scienziato fa scienza normale perché non è
critico o non lotta per falsificare la sua teoria. La scienza normale riflette,
in ultima analisi, un’epoca di pace sociale.
Avendo esposto succintamente i punti forti, i punti
deboli e le critiche principali che riguardano la teoria dello sviluppo
scientifico di Kuhn, passeremo, nella seconda parte, a legare tale teoria alla
scienza economica, approfondendo infine alcuni aspetti di questo rapporto.
3. Kuhn e l’economia: lo sviluppo ciclico della
scienza
La teoria di Kuhn descrive lo sviluppo di un ciclo di
ascesa, dominio e crisi di un paradigma come il normale percorso con cui
progredisce la scienza. La tesi che esistano dei cicli nella storia del
pensiero economico è stata espressa chiaramente già da Schumpeter che anticipò
Kuhn di qualche anno. Le somiglianze tra le due concezioni, la teoria di
Schumpeter e la teoria kuhniana della scienza, sono molteplici. Occorre
tuttavia notare che, come ricordato, la filosofia di Kuhn è nata dallo studio
delle scienze naturali, nelle quali lo sviluppo della società si riflette molto
poco. Restiamo dunque delusi nella nostra attesa di una spiegazione
soddisfacente dei cicli che pure sono innegabili nella storia del pensiero
economico. Lo studio della storia delle scienze sociali e dell‘economia in
particolare suggerisce un modo per rendere più realistico e aggiornato il
modello kuhniano. Infatti nelle scienze sociali il legame tra conflitti sociali
e dinamiche teoriche è molto stretto. Questo fa sì che le anomalie puramente
logiche contino poco rispetto alle esigenze sociali, nella lotta fra i
paradigmi e nel paradigma. L’economista, più o meno coscientemente, difende
nella teoria una posizione politica e sociale. La dinamica dei paradigmi
dipende perciò dal rapporto di forza delle classi in quella data epoca.
Parafrasando Marx potremo dire che “tutta la storia è storia di lotta di classe
e relativi paradigmi scientifici”.
L’economia, dato il suo particolare legame con la
società, presenta dunque uno sviluppo altrettanto particolare. Le rivoluzioni
scientifiche in economia sono fortemente connesse alle svolte decisive nello
sviluppo del capitalismo, esse ne sono una rappresentazione teorica. Questo
legame tra economia e società è appunto il nesso mancante nella teoria
kuhniana. Studiando la storia del pensiero economico invece vediamo chiaramente
questi legami. Le ‘anomalie’ con cui i primi neoclassici hanno seppellito la
teoria di Smith e Ricardo erano problemi che gli economisti classici
consideravano risolti da tempo. Non è per questi problemi però che la scuola
classica è stata emarginata! Allo stesso modo la vittoria delle concezioni
interventiste keynesiane non è derivata da una superiore esplicatività della General
Theory rispetto alla scuola neoclassica, essa piuttosto rifletteva l’impasse
del capitalismo mondiale dovuto alla Grande Crisi. Passata questa, la scuola
keynesiana è stata pian piano espunta dall’analisi economica mainstream. Si è
addirittura giunti a interpretare in senso monetarista la Grande Crisi, come se
fosse una novità, come se i monetaristi non ci fossero stati anche negli anni
‘30. Solo che allora, prudentemente non proponevano le proprie interpretazioni[10].
Se si accetta la connessione tra economia e società si
vedrà chiaramente che la teoria di Kuhn non solo può spiegare egregiamente la storia del pensiero economico ma ne può
fornire una suddivisione razionale. È in questo cambiamento che Kuhn può
aiutare la nostra disciplina Al contempo la storia del pensiero economico può
fornire i nessi causali che Kuhn non si preoccupò di stabilire.
4. Sviluppi della teoria di Kuhn
4.1 La “stratificazione” paradigmatica
Abbiamo visto come il concetto di paradigma, per via
della insufficiente strutturazione fornitagli dallo stesso Kuhn, si sia
dimostrato uno strumento troppo vago di analisi storica.
A mio avviso,
questo problema si risolve partendo dal fatto che tale concetto può essere reso
stringente se applicato alle stesse “grandezze”. Intendo dire che l’errore di
Kuhn è quello di usare lo stesso concetto per spiegare sia la struttura
generale del paradigma, fatta di molteplici teorie, decine di teoremi, con
molti scienziati, molta scienza normale e così via (pensiamo al paradigma
neoclassico in economia o al paradigma newtoniano), sia piccole scuole che sono
inserite a loro volta in tradizioni più ampie e infine nel paradigma generale
come in una matrioska. Poiché egli non distingue tra scienza (sia normale che
rivoluzionaria) che incide su tutto il paradigma complessivo e quella che tocca
solo la ridotta cerchia della scuola alla base del paradigma,
Kuhn è costretto a mettere sullo stesso piano una
rivoluzione scientifica epocale, fondamentale, come la nascita della fisica
quantistica, o la teoria di Darwin, e rivoluzioni rilevanti solo nell’ambito di
una branca secondaria di una sottoscuola del paradigma[11]. Insomma il concetto di paradigma, per mantenere il
notevole potere esplicativo che, a mio giudizio, potrebbe avere, deve essere stratificato
cioè applicato a livelli diversi della tradizione scientifica. Esisterà perciò
il paradigma come struttura generale e poi avremo un albero ramificato fatto di
livelli sempre più piccoli, rametti attaccati a rami più grossi collegati a
loro volta al tronco, nei quali sempre meno scienziati vanno elaborando una
propria visione del paradigma all’interno prima di poche grandi scuole e poi di
piccoli gruppi che vanno espandendo il paradigma come le fronde di un albero.
Ne risulterà una stratificazione paradigmatica che ci permetterà di
capire come possano esistere rivoluzioni scientifiche che riguardano solo una
parte del paradigma complessivo. Questo spiega anche come sia possibile
all’interno dello stesso paradigma una guerra tra scuole rivali. Che sia perché
le teorie dello stesso paradigma sono più commensurabili fra loro, o forse
perché hanno fini convergenti, è però un fatto che la lotta intraparadigmatica
è stata spesso più feroce di quella contro i paradigmi rivali. La
stratificazione paradigmatica ci aiuta a capire perché, trasformando il
concetto di paradigma in una serie di assunti a livelli sempre più generali. Ma
per eliminare la vaghezza del concetto di paradigma occorre anche ancorarlo a
livello storico. Infatti Kuhn non ha mai spiegato come poteva mutare il
paradigma nei vari periodi, anzi egli trasse esempi scientifici
indifferentemente da tutti i periodi storici. Ma la qualità e la quantità degli
scienziati varia nel tempo. Il concetto di paradigma come scala di
stratificazioni successive serve proprio per tentare di spiegare il paradigma
nei vari periodi storici. Non è la stessa cosa se dieci persone si occupano di
una teoria o se gli studiosi sono 10mila. Se la quantità deve a un certo punto
diventare qualità il paradigma muterà col tempo. Ecco perché i vari paradigmi
sono sempre più stratificati. In presenza di questa realtà storica è ovvio che
il concetto di paradigma tout court non funziona. Perché viene applicato a
livelli diversi fra loro. L’idea è che se al posto del concetto di paradigma
come tradizione scientifica indifferenziata, poniamo il concreto operare a
diversi livelli del paradigma, riusciremo a spiegare le varie lotte fra le
scuole e altre questioni che erano “anomalie” nella teoria pura di Kuhn.
L’esempio della sintesi neoclassica può essere utile a vedere come la modifica
qui proposta funzioni. La sintesi neoclassica ha avuto al suo interno una serie
enorme di varianti, scuole, interpretazioni. Tutti piccoli pezzi del paradigma
complessivo. Le interpretazioni del paradigma erano diverse ma non tanto da
mettere in dubbio il nucleo fondamentale della teoria comune. Ma due scuole di
questo paradigma potevano avere in comune anche molto poco. Si poteva andare da
neoclassici puri che usavano il modello IS-LM solo per ortodossia, a keynesiani
che mal si adattavano alla storpiatura operata alle concezioni dell’economista
inglese. Comunque si andava avanti nello stesso paradigma. Poi irruppero nuove
scuole. Per esempio, il monetarismo fa parte forse di un altro paradigma? In
fondo se Friedman e gli altri monetaristi hanno potuto dibattere così tanto con
i “neokeynesiani” è proprio perché condividevano quasi tutti gli assunti base
del modo di fare scienza[12]. I monetaristi e i neokeynesiani combattevano dunque
una lotta intraparadigmatica. Negli ultimi due decenni è venuta alla ribalta la
teoria delle aspettative razionali. Essa è un’altra interpretazione del
paradigma “neokeynesiano”? Oppure un altro paradigma? I teorici delle
aspettative razionali sono solo monetaristi più conseguenti e “duri” o hanno
fatto una rivoluzione scientifica creando un nuovo paradigma? A mio parere essi
non hanno lottato più per la loro interpretazione del paradigma, ne hanno fatto
un altro. E qui sorge il problema di come decidere che cos’è scienza
rivoluzionaria. Infatti perché possiamo dire che Lucas, Sargent e Wallace hanno
fatto una rivoluzione scientifica e Friedman o Tobin no? Restare nel paradigma
dominante vuol dire per forza fare scienza normale? Nella concezione kuhniana
questo è inevitabile perché la scienza rivoluzionaria è orientata solo alla
costruzione di nuovi paradigmi. Ma se concepiamo il paradigma come
stratificazione storica e teorica di scuole che hanno anche poco in comune,
possiamo concepire scienza rivoluzionaria anche all’interno del paradigma
iniziale. Poiché la scuola opera a un livello più basso del nucleo
centrale, essa potrà anche essere eterodossa all’interno del paradigma
ortodosso. Inoltre essa potrà lottare per “riformare” il paradigma senza
uscirne, se crede che possa offrire ancora spunti utili alla ricerca. I
monetaristi hanno fatto anche loro una rivoluzione scientifica, come gli
aspettativisti, ma senza rompere con il paradigma dominante, piuttosto lottando
per sconfiggere l’interpretazione allora dominante del paradigma. Potremo avere
così situazioni in cui scienziati ortodossi fanno scienza rivoluzionaria mentre
“eretici” fanno una piatta scienza normale.
Penso di aver chiarito con questo paragrafo come si
possa buttare l’acqua sporca (vaghezza del concetto) senza il bambino (concetto
di paradigma). Basta adattarlo alla realtà sociale che cambia. Anche qui le
intuizioni di Kuhn sono veramente feconde. Occorre solo approfondire il
rapporto scienza-società, che Kuhn ha comunque impostato, rispetto al
fisicalismo puro dei suoi predecessori.
4.2. Sulla struttura del paradigma scientifico
Se si accetta che il paradigma non è un mare magnum
nel quale navigano indistintamente scienziati che la pensano più o meno allo
stesso modo, ma è una serie di restringimenti successivi, tanto più definibile
quanto più si proceda verso “cerchi” meno ampi, si dovrà anche interpretare
diversamente il concetto di rivoluzione scientifica. Come ricordato, uno dei
problemi che la descrizione kuhniana dell’attività scientifica pone, è che
sembra che l’accumulo inesorabile delle anomalie generi un effetto soglia
capace di costringere gli scienziati a cambiare paradigma.
Ma poiché è immediatamente ovvio a chiunque conosca la
storia di una qualsiasi scienza che non c’è mai questo effetto diretto e
necessario di anomalie sulla teoria dominante, l’esito della descrizione di
Kuhn può essere un ritorno all’idealismo, al relativismo e infine
all’irrazionalismo. La principale critica che abbiamo infatti rivolto a Kuhn è
che il suo modello di scienza descrive come avvengono le rivoluzioni
nella scienza, ma non riesce mai ad arrivare al perché esse avvengono.
Non a caso le due tendenze che si sono susseguite ai suoi lavori sono
l’anarchismo metodologico e la sociologia della conoscenza, le quali sono
entrambe varianti del più classico soggettivismo. Se non si è in grado di
fornire una base scientifica alla struttura delle rivoluzioni scientifiche, la
strada obbligata è quella di considerarle il risultato di una lotta puramente
ideologica e politica delle varie scuole. Da qui si passa a eliminare ogni riferimento
al mondo reale: le scuole combattono e chi vince decide cos’è la realtà.
Perché, invece, una teoria vince?, perché un paradigma
sbaraglia i concorrenti? Deve sempre esserci un cambiamento nella situazione
oggettiva perché la scienza, che di questa realtà è una riproduzione astratta,
possa subire a sua volta una trasformazione. Il cambiamento non è per forza una
scoperta nella scienza stessa, anzi questa scoperta, che spesso assume come
prima cosa la funzione di anomalia, è proprio una conseguenza della nuova
situazione. Che cosa s’intende per nuova situazione? Ovviamente dipenderà dalla
scienza in esame. Per le scienze sociali si tratterà di un nuovo modo di
produzione o di una nuova fase del modo di produzione. Per le scienze naturali
lo sviluppo della società ha riflessi sia diretti sia indiretti. Non solo gli
scienziati rispondono alle mutazioni sociali, ma il progresso sociale ha delle
evidenti ricadute tecnologiche e scientifiche che formano la base per una
rivoluzione scientifica. Con ciò leghiamo il concetto di rivoluzione
scientifica a una trasformazione reale. Occorre però spiegare come la nostra
proposta di stratificazione paradigmatica incida sul concetto di rivoluzione
scientifica. La nostra idea è che, come nella realtà, nella struttura delle
rivoluzioni scientifiche si alternano fasi di cambiamento graduale, di lenta
evoluzione che si mutano improvvisamente in brusche rotture, in violente
trasformazioni del reale e della scienza. In queste fasi di passaggio, di
crisi, tutta la struttura del paradigma subisce delle scosse violente. Gli
scienziati sono portati a criticare tutte le assunzioni della propria scuola,
ogni principio, anche i più sacri, viene analizzato criticamente e rovesciato.
In questi periodi nascono i nuovi paradigmi, in questi scenari gli scienziati
da puzzle-solver si trasformano in innovatori della scienza e del reale. Quando
la situazione ha trovato un pur precario equilibrio, quando un nuovo e più alto
punto di assestamento è stato trovato a livello sociale, anche la scienza si
avvia a una fase di assestamento, iniziando una nuova fase di lento progresso.
La temperatura delle dispute scientifiche inizia ad abbassarsi e dal crogiolo
della critica teorica e pratica prende forma il nuovo paradigma. Una volta che
esso è formato, almeno nei suoi tratti fondamentali scientifici e soprattutto
ideologici, metodologici, politici, tutta la critica al paradigma si
trasforma in critica nel paradigma. Non bisogna credere che nelle fasi
di scienza normale non succeda nulla. Anche da un puro punto di vista
intellettuale l’attività di semplice puzzle-solving non stimolerebbe abbastanza
a rimanere in un certo paradigma. Comincia così la lotta tra le scuole per la
conquista del paradigma. Il paradigma ha ora abbastanza spazio per far pensare agli
scienziati di poter procedere riformando l’esistente, anziché trasformando la
realtà. In questo c’è un evidente e necessario parallelo tra lo sviluppo della
società e della scienza. Quando un nuovo modo di produzione emerge dalle rovine
del precedente, la classe che domina la produzione assume un ruolo progressista
nella storia e ha di fronte a sé secoli di sviluppo del modo di produzione che
dirige. Le trasformazioni sociali, come quelle della scienza, non avvengono
quando qualche persona lo decide, fosse anche la maggioranza. Arriva un momento
in cui il modo con cui la società, e di conseguenza la scienza, è organizzata
non riesce più a incrementare le risorse, ovvero è un freno all’ulteriore
sviluppo. Si apre allora un’epoca, anche molto lunga, in cui la trasformazione
diventa una possibilità e una necessità. Così come, la scienza, nonostante la
struttura della meccanica classica, con i suoi sistemi isolati e il suo
riduzionismo, doveva di necessità imbattersi nella non meccanicità e linearità
dell'universo, anche se non era affatto detto che dovesse farlo con quelle
esatte modalità, con gli esperimenti di Rutherford, le teorie di Planck,
Einstein ecc. Sintetizzando possiamo dire che, mentre la costruzione di nuovi
paradigmi è l’esito di processi rivoluzionari, sociali, reali e anche
scientifici, la stratificazione paradigmatica, la divisione in frazioni diverse
dello stesso paradigma è la conseguenza di un periodo di relativa tranquillità
o comunque di trasformazioni relativamente ridotte. L’idea di Kuhn che il
proliferare di versioni del paradigma sia la dimostrazione di una sua crisi è
dunque superficiale e va a mio giudizio scartata. Il proliferare di versioni
del paradigma è invece una fase necessaria nello sviluppo scientifico e prepara
le rivoluzioni e le nascite dei nuovi paradigmi.
La situazione di lotta tra teorie è dunque molto
variegata. La distanza tra esse e i modi con cui si combattono, dipendono
sempre dalla situazione esterna al paradigma stesso. Ci possono essere periodi
in cui scuole che pur appartenendo allo stesso paradigma, subiscono una sorte
molto differente, e sembrano andare ognuna per la sua strada, costruendo
versioni contrastanti del paradigma. Questo è lampante nel caso della teoria
neoclassica: nel dopoguerra le varie scuole neoclassiche non solo si sono
differenziate, ma si sono combattute aspramente. Probabilmente questa
estensione del concetto di paradigma non eviterebbe l’accusa di vaghezza
rivolta anche a Kuhn. E un kuhniano ortodosso vorrebbe forse evitare la
spiacevole idea che ci siano lotte all’interno del paradigma. Occorre però
vedere la stratificazione del paradigma generale in livelli tali che scuole
diverse si combattano aspramente pur accettando quel tanto o quel poco bastante
a contenerle nello stesso paradigma. La rivoluzione scientifica può dunque
avvenire a livelli diversi, può coinvolgerlo tutto oppure solo una parte.
4.3 Le lotte all’interno del paradigma
Il processo di
attribuzione dell’insuccesso empirico è basilare per capire come avvenga la
lotta tra paradigmi e nel paradigma. È inutile ribadire che in realtà una
teoria non si farà mai sconfiggere da un fatto, come credeva un tempo Popper,
piuttosto è nel conflitto tra teorie e paradigmi che si inserisce l’interpretazione
dei dati empirici. Nutriamo ben poca fiducia nel ruolo dirimente dei ‘fatti’,
soprattutto nelle scienze sociali e non solo per motivi metodologici. Comunque
è evidente che una teoria è colpita da un fatto nella misura in cui un’altra ne
è favorita, e quando nessuna teoria ha da proporre niente riguardo a un
argomento, ciò è indice di grave difficoltà della disciplina. Dato quel che si
è detto sulla stratificazione paradigmatica, le anomalie non possono più
considerarsi nemici omogenei di un paradigma. In realtà possono colpire più
scuole di paradigmi diversi che due scuole dello stesso paradigma. Arriviamo
così al problema centrale della lotta teorica. Dobbiamo qui distinguere due
tipi principali di scontri: da un lato ci sono le lotte tra paradigmi,
lotte che si svolgono come descritto da Kuhn con il predominare di volta in
volta di un paradigma che esilia il resto della scienza e riscrive la storia a
propria glorificazione. Ma ci sono anche le lotte intraparadigmatiche.
Queste non solo non sono meno forti e frequenti ma sono a volte più
interessanti ai fini della crescita della conoscenza e della stessa storia
della scienza moderna. In ogni caso non è una scelta che spetta al soggetto
quella di creare un nuovo paradigma o di lottare per una sua riforma.
Se una scuola
accetta i capisaldi del paradigma, non rivolgerà le armi contro essi
fintantoché non ne intenda uscire. Al soggetto potrà forse sembrare una
decisione consapevole, ma come detto la scelta della rivoluzione o della
riforma del paradigma si basa su un processo oggettivo. Nel periodo di lotta
all’interno della teoria comune una scuola attaccherà direttamente la rivale su
questioni che le dividono. Lo sbocco della lotta non dipende ovviamente da
questioni teoriche né empiriche, tuttavia in linea di massima se si arriva a
una sconfitta abbastanza decisa, il vittorioso tenterà di omogeneizzare gli
altri livelli al suo, imponendo la sua visione del paradigma. Riprendendo
l’esempio della sintesi neoclassica: essa ha avuto un successo nel monopolizzare
la ricerca scientifica almeno per quarant’anni. Al suo interno era difficile
trovare due economisti che avessero le stesse idee e le frazioni abbondavano,
eppure il paradigma ha retto fino agli anni ‘70. Il risorgere dei cicli di
recessione e crescita, dopo 25 anni di forte boom, la stagflazione, il
riaccendersi dei conflitti sociali ecc., hanno segnato la crisi del paradigma.
Come possiamo affermare che il monetarismo di Friedman era solo una scuola del
paradigma della “sintesi” e il monetarismo di Lucas e degli altri
aspettativisti è una nuovo paradigma? Non basterebbe ovviamente né il ricorso
alle conclusioni analitiche a cui arrivano, né un’analisi dei loro rispettivi
strumenti concettuali. È l’analisi della realtà a suggerirci la sistemazione
della crescita della conoscenza. La trasformazione della situazione reale ha
portato alla nascita del nuovo paradigma. Questo esempio, tracciato qui
schematicamente, dovrebbe chiarire quali sono le forze propulsive che decidono,
fondamentalmente, lo sviluppo della scienza e dei paradigmi.
In sintesi, quello che è importante notare è che le
diatribe scientifiche non si svolgono solo tra paradigmi diversi, durante i
periodi di rivoluzione scientifica. Ci sono anche lotte tra tendenze e scuole
dello stesso paradigma (e con scuole di altri paradigmi ovviamente), durante le
fasi di evoluzione graduale della scienza. Crediamo che una volta comprese le
ragioni oggettive per cui si alternano rivoluzione ed evoluzione e dunque
scienza rivoluzionaria e scienza normale, si abbia la chiave per comprendere
come si svolgono le lotte scientifiche tra e nei paradigmi.
4.4 Crescita della conoscenza e cambiamenti sociali
Lo sviluppo della scienza è fortemente collegato con
lo sviluppo della società nel suo insieme e almeno da un certo punto in poi
questo diviene un processo circolare in cui le nuove conoscenze scientifiche
permettono un aumento nella produttività sociale e quindi uno sviluppo nelle
forze produttive. Nel capitalismo il processo circolare diviene sempre più
stringente, con il risultato che la rincorsa fra scienza e sviluppo dei mezzi
di produzione si fa rapidissima. La scienza naturale fornisce la base tecnica
per lo sviluppo economico, l’economia dovrebbe fornirne la spiegazione sociale.
Molto spesso si fa fatica a concepire la scienza come
un prodotto di classe perché si pensa alla scienza come alle teorie delle
scienze naturali. Come possono gli elettroni, le cellule, gli idrocarburi,
essere un prodotto di classe? Il fatto è che la scienza non è solo l‘elettrone,
ma soprattutto il ruolo che la meccanica quantistica ha nella società e il
riflesso sociale che l’elettrone ha sulla società. Per usare la denominazione
di Popper: non è il mondo uno, ma il mondo due e tre che la scienza va a
modificare direttamente. Non dimentichiamoci che i quark sono esistiti per
miliardi di anni prima che noi arrivassimo al grado di sviluppo necessario per
capire che c’erano. Il fatto che noi parliamo di scienza come un prodotto
sociale e dunque, poiché la società è divisa in classi, di classe, non
significa che gli elettroni sono stati scoperti perché esiste la borghesia o
l’elettricità perché esistevano gli schiavi. Questo sarebbe idealismo alla
Berkeley. È ovvio che gli elettroni, come detto, sono una realtà naturale,
preborghese e preumana. Ma che cosa significano gli elettroni per la nostra
epoca? Uno dei costituenti della materia? Certo, ma soprattutto significano
l’energia nucleare, ecc. Riassumendo: la scienza è il prodotto delle conoscenze
della società a un dato grado del proprio sviluppo. In quanto tale il suo
metodo, le sue applicazioni e i suoi rapporti col processo produttivo e cioè le
sue qualità fondamentali, sono legate al ruolo che in questa fase le varie
classi hanno nella produzione.
4.5 Conclusioni: come la teoria di Kuhn può aiutare
gli economisti e viceversa
In questa breve ricerca si è tentato di dimostrare
l’importanza della filosofia di Kuhn per l’analisi storica del pensiero
economico. Si è anche mostrato come tramite la struttura dello sviluppo scientifico
proposto dal filosofo americano sia possibile capire l’andamento ciclico e
discontinuo della scienza. Al contempo si è osservato come l’economista debba
andare oltre il modello kuhniano per poter apprezzare veramente il significato
della storia del pensiero economico. La base sociale delle rivoluzioni
scientifiche è molto più importante della semplice struttura logica dei
paradigmi. Dalla storia della nostra scienza ci giunge un aiuto insostituibile
per comprenderne gli sviluppi presenti e le sue linee di tendenza.
Kuhn ci ha insegnato quanto poco utili siano le storie
della scienza basate sulla glorificazione della teoria dominante, quanto poco
lungimiranti e ideologicamente distorte. In questo senso gli economisti
dovrebbero veramente imparare molto di più dalla storia della propria scienza
che dalla sua modellistica contemporanea.
L’economia però non ha solo da apprendere dalla
filosofia kuhniana. Essa può anche dare degli apporti decisivi per un suo
approfondimento. Senza la spiegazione del rapporto tra sviluppo sociale ed
economico e riproduzione scientifica di questo processo la teoria di Kuhn
rimane sospesa a mezz’aria, una sorta di ritratto realistico che però non si è
in grado di attribuire a nessun personaggio concreto. L’economia fornisce anche
degli esempi fondamentali per superare la vaghezza del concetto di paradigma
tramite una sua stratificazione e ramificazione nel senso che qui abbiamo
delineato. Proseguendo nel senso che si è abbozzato in questo lavoro,
un’analisi critica della storia del pensiero economico e la filosofia della
scienza di Kuhn possono illuminare la via del ricercatore sia all’indietro, per
comprendere la storia passata della propria disciplina, sia in avanti, per
afferrarne i principali sviluppi futuri.
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[1] Questa tendenza viene poi aiutata da una metodologia pseudo-empirista, secondo cui la storia attuale di una scienza è il risultato di una selezione dei suoi contributi migliori. Un simile approccio, incrementalista, a “palla di neve” come è stato definito, invita espressamente a disinteressarsi della storia del pensiero economico e della filosofia della scienza. Che da un punto di vista filosofico tale approccio sia stato gettato alle ortiche da almeno un secolo non sembra impressionare gli economisti che se ne fanno alfieri. Evidentemente l’incrementalismo, per loro, vale solo in economia. Cfr. l’introduzione a Screpanti E, Zamagni S., Profilo di storia del pensiero economico, La Nuova Italia Scientifica, Firenze, 1993.
[2] Se si leggono le varie opere collettive di economisti sulla metodologia dell’economia questa impressione appare chiarissima. In bibliografia se ne danno alcuni esempi significativi.
[3] L’economista Robert Solo fu il primo allievo di Popper alla London School of Economics, quando il filosofo austriaco vi arrivò. Entusiasmato dalla concezione falsificazionista preparò una tesi di dottorato di 700 pagine per dimostrare come, applicando scrupolosamente il falsificazionismo alla teoria neoclassica, di questa non sarebbe rimasta pietra su pietra. Qualche giorno prima che la tesi venisse discussa Popper si recò a casa di Solo per costringerlo a ritirarla. Per la descrizione di questo episodio e di altri che illuminano le ragioni delle scelte “economiche” di Popper si veda: Solo R. A., The Philosophy of Science and Economics, MacMillan, Londra, 1991.
[4] Cfr. Storia del pensiero economico, op. cit., pag. 21 e ss.
[5] La già segnalata epistemologia incrementalista teorizza perfino questa riscrittura come il corretto modo di fare scienza! Ma se tale metodo orwelliano venisse applicato alla storia dell’epistemologia economica dovremmo semplicemente dimenticarci delle idee dei vari Pantaleoni, Blaug ecc. Un esito che forse loro stessi non avevano considerato.
[6] Citato in Oldroyd D. The Arch of Knowledge, Methuen, New York, 1986 [traduzione L. Sosio, Storia della filosofia della scienza, Saggiatore, Milano, 1989].
[7] La “matrice disciplinare” è stata proposta nella seconda edizione della Struttura delle rivoluzioni scientifiche .
[8] La cosa divertente è che i vari allievi di Popper (Watkins, Lakatos, Bartley ecc.) produssero una mole non indifferente di libri contro Kuhn e la scienza normale, non accorgendosi di un curioso paradosso. Infatti, difendendo il metodo del maestro e attaccando la scienza normale, stavano per l’appunto facendo scienza normale! Per una spiegazione del dibattito Cfr. “Congetture e confutazioni” di Popper e il dibattito epistemologico post-popperiano, Paravia, Torino, 1988; a cura di G. Brianese.
[9] Se Kuhn volesse o meno espandere la sua concezione discontinuista alla storia e alla società è difficile a dirsi. Nella Struttura delle rivoluzioni scientifiche ci sono accenni che fanno propendere per questa ipotesi, tuttavia rimane il fatto, già accennato, che la sua teoria rimase sempre sul piano di una semplice descrizione fenomenica della scienza, senza neppure osare affrontare i problemi del rapporto tra essa e lo sviluppo della società.
[10] Questi esempi sono i più chiari nella storia del pensiero economico. Il legame di cui si è parlato si riflette anche, ovviamente, nel successo personale di taluni scienziati. Un esempio lampante è a tal proposito L. Robbins, il quale negli anni del trionfo keynesiano costituiva un isola di eterodossia ‘austriaca’ in terra britannica. Ma oggi le sue opere degli anni ‘30 ricevono ben più alti onori di quelle dominanti allora. Anche la ‘rinascita’ del libro di Gossen ne è un buon esempio. I primi neoclassici facevano di tutto per negare la rottura metodologica con la scuola classica, tentando al contempo di nobilitare i propri precursori. Per tutto questo Cfr. Storia del pensiero economico, op. cit., capitolo V.
[11] Questa accusa di non vedere le differenze fra le rivoluzioni epocali e quelle difficilmente distinguibili dalla scienza normale viene mossa a Kuhn da varie parti. Cfr. per esempio L. Geymonat Riflessioni critiche su Kuhn e Popper , Dedalo, Bari, 1983.
[12] Un ottimo esempio a riguardo è costituito dal raffronto tra la teoria del reddito permanente di Friedman e quella del ciclo vitale di Modigliani. Quando vennero enunciate sembravano teorie simili di teorici apparentemente lontani, in realtà si capì pian piano che erano teorie parallele di teorici dello stesso paradigma.