MATERIA

E

COSCIENZA

A cura di Pinko Pallino

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La prima cosa che deve fare un lavoratore che vuole collaborare alla liberazione della sua classe è di non lasciare che siano gli altri a pensare al suo posto.

J. Dietzgen
MATERIA E COSCIENZA

 

Introduzione. Il materialismo per l’uomo moderno

1. Lo stato della scienza e della filosofia della scienza

2. Le basi del soggettivismo metodologico

3. Perché il materialismo

4. I limiti della teoria del riflesso

5. Materialismo e dialettica

6. Sintesi della ricerca

 

I. Conoscenza come coevoluzione

1. Materia e coscienza

2. L’evoluzione

3. L’evoluzione delle teorie

4. I tre mondi

 

II. Riflessione e riproduzione

1. Riflessione e riproduzione

2. Teorie di classe

3. Teorie e progresso umano

4. La riproduzione come conoscenza astratta

5. La teoria dell’astrazione determinata

6. Valore e astrazione

7. Il rapporto tra riflessione e riproduzione. L’economia politica

8. Una nota sulla storia di riflessione e riproduzione: Hume e Kant

 

III. La coscienza come risultato dello sviluppo sociale ed economico dell’uomo

1. Il dibattito sulla coscienza

2. La nascita della coscienza

3. Che significa essere coscienti

4. A che serve la coscienza

 

Conclusione. Coscienza e pianificazione

1. Il posto dell’uomo nella natura

2. Il posto della coscienza nella storia dell’uomo e del processo produttivo

3. Le strutture di azione della coscienza sociale

4. Affinità

 

Bibliografia

 


Introduzione. Il materialismo per l’uomo moderno

 

 

1. Lo stato della scienza e della filosofia della scienza

 

Il secolo che si sta concludendo ha visto il più consistente sviluppo della scienza di tutta la storia umana e quindi di tutta la storia di questo pianeta. Possiamo affermare che l’uomo, e dunque la materia vivente nel suo complesso, ha capito, del mondo che lo circonda, più negli ultimi cento anni che nei precedenti cento milioni. È fin troppo facile prevedere che nei prossimi cento anni la scienza farà passi avanti talmente colossali, da rendere insignificante il corpus di conoscenze orgogliosamente conquistato fin qui. Eppure c’è un aspetto dell’impresa scientifica che non sembra affatto progredire: il suo metodo. Le rivoluzioni che hanno attraversato la scienza l’hanno trasformata radicalmente. Si può dire altrettanto dell’epistemologia? Le diverse scuole e diverse concezioni che si sono succedute hanno condotto a un avanzamento nella nostra analisi della scienza? Occorre in realtà constatare che la scienza ha tratto scarso beneficio dalle varie filosofie della scienza che si sono succedute nell’ultimo secolo. Spesso è stata da esse ostacolata e mal interpretata. Tolta la teoria di Kuhn, che è una semplice descrizione di quello che fanno gli scienziati, che cosa, di interessante, comunica l’epistemologia a chi si interessa dell’impresa scientifica? D’altra parte perché uno scienziato dovrebbe interessarsi alla filosofia, che spesso nega l’esistenza oggettiva della materia prima del lavoro dello scienziato, la realtà? In fondo, se tutti credessero che le malattie scompaiono quando non ci si pensa, i medici sarebbero disoccupati. Eppure l’epistemologia moderna, con le dovute eccezioni e nelle ovvie diversità di toni e di accenti, non è che la riproposizione dell’idealismo soggettivo di Berkeley e Mach, secondo cui è il soggetto a determinare l’esistenza dell’oggetto della ricerca, come se le malattie le creassero i medici (in modo da poter lavorare, si potrebbe credere). Come detto, non tutte le scuole filosofiche accettano una visione idealista della realtà, o meglio non apertamente, perché poi, se si scava sotto un realismo di facciata, si trova l’idea di sempre che la crescita della conoscenza è solo un’illusione e che non c’è nessun vero progresso scientifico, ovvero, l’idealismo soggettivo, nella sua applicazione allo sviluppo della scienza.

La maggior parte degli scienziati si occupa, per propria fortuna, assai poco di epistemologia e va avanti con un sano realismo, ovvio per tutti gli uomini che fanno un mestiere normale, ma assai raro tra i filosofi. Sarebbe difficile trovare un contadino, incolto finché si vuole, che dubiti dell’esistenza del mondo che lavora con tanta fatica. Invece l’idea che il mondo sia un “fascio di sensazioni” create da chi pensa è pressoché universale tra i filosofi. E questi dovrebbero essere quelli che insegnano a ragionare! È francamente sconfortante vedere come la filosofia della scienza proceda su basi fragili quando non del tutto mistiche, nel proprio cammino. Ma, come diceva un vero filosofo, né ridere né piangere ma capire; occorre capire il perché di tale stato pietoso, quali basi filosofiche e sociali ha e come porvi rimedio.

 

 

2. Le basi del soggettivismo metodologico

 

Le filosofie sono interpretazioni del mondo. Un uomo disperato fa gesti disperati, una società in crisi produce tipicamente due tipi di filosofie: una ottimista, secondo cui la crisi è solo un’illusione o una congiura delle forze del male e si sta bene se solo si sanno capire le cose importanti della vita; e una pessimista secondo cui il giorno del giudizio è dietro l’angolo e ormai non c’è più nulla da fare[1]. Il modo con cui ondate contrapposte dei due filoni si alternano e si intrecciano è la materia di studio di chi voglia indagare i periodi di transizione nella storia dell’umanità. Il nostro secolo è uno di questi periodi. Non è dunque strano assistere alla ricomparsa di saghe e leggende sotto forma di teorie scientifiche. Sembra curioso, oggi che molti uomini credessero che nell’anno Mille sarebbe finito il mondo. È però ancora più strano che nel paese più sviluppato del pianeta una raccolta di leggende mediorientali composte qualche millennio fa, la Bibbia, sia la base per l’insegnamento di molte scienze. Non c’è una regione del mondo dove il fondamentalismo religioso non accampi sempre più pretese sulla scienza e sulla vita. Che si tratti di far tornare le donne alla schiavitù “familiare”, che si tratti di negare gli avanzamenti della scienza in nome della religione, la razionalità, a oltre due secoli dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione Francese, è veramente nei guai. Le scienze naturali sfuggono, in parte, al misticismo, perché trattano di temi neutrali. Ma quando affrontano questioni scottanti, cadono sotto gli attacchi di ogni tipo di mistica (creazionismo, big bang ecc.). Le scienze sociali sono decisamente ottimiste. In particolar modo l’economia, che è la più sviluppata di esse, almeno matematicamente, è la scienza dell’armonia e della felicità. Più si sviluppa e più le sue teorie considerano i problemi reali della società fenomeni curiosi, shock momentanei, degenerazioni inspiegabili da una retta via fatta di letizia e di candore. Che poi l’economia moderna non abbia alcun rapporto con il mondo che ci circonda, questo non sembra preoccupare gli economisti.

Abbiamo affermato che la scienza ha fatto passi avanti enormi nell’ultimo secolo. Per quanto riguarda le scienze naturali, nonostante le recrudescenze oscurantiste, il progresso è palese. Nelle scienze sociali, invece, il progresso è puramente tecnico, gli economisti del 1990 sono tecnici migliori di quelli del 1890. Ma le teorie economiche del 1990 non spiegano più di quelle del 1890 o persino di quelle del 1790. È evidente che in questo quadro la filosofia della scienza è elemento di ulteriore decadenza per le scienze sociali, anche perché per l’economista tipico la filosofia della scienza “vera” è quella delle scienze naturali e i contributi originali dell’economia alla filosofia della scienza sono molto rari.

 

 

3. Perché il materialismo

 

Ritengo che ancora oggi la filosofia e la scienza debbano porsi il problema che l’uomo si pone da quando ha cominciato a ragionare: che legame c’è tra la materia e la coscienza, che legame c’è tra il mondo in cui viviamo e l’intelligenza con cui lo rappresentiamo. La decisione sulla natura di questo rapporto è quanto distingue alla radice le filosofie, le teorie e i metodi. Non credo che vi sia nessun modo per dimostrare la superiorità di una posizione sull’altra. Un filosofo una volta propose questa idea: “tira un calcio a una pietra, se ti fai male significa che la pietra esiste e la posizione realista sarà confermata”[2]. Purtroppo le cose non si pongono così facilmente, soprattutto nelle scienze sociali. Per mio conto l’idea che esista un mondo esterno indipendente dall’uomo, che tale mondo fisico esista da sempre e che l’uomo sia un risultato dell’evoluzione, come le piante e gli altri animali, mi sembra una ovvietà. Occorre però rassegnarsi all’idea che la maggior parte della scienza non la pensa così. Nell’epoca delle reti telematiche e dell’esplorazione spaziale l’esistenza della realtà al di fuori da noi è messa in dubbio da coloro che dovrebbero più di tutti aiutare a comprenderla. Come ho detto, non ritengo possibile “dimostrare” una posizione filosofica. In genere, non ritengo possibile dimostrare alcunché. Nemmeno ci si può cullare nella facile idea che lo sviluppo scientifico-sociale, automaticamente, elimini le teorie dei ciarlatani. Quando una società entra in una fase di declino storico, riemergono tutte le stolide leggende del passato, moltiplicate dallo sviluppo intercorso nel frattempo. Questo significa che occorre agire attivamente per difendere la scienza dal misticismo, la storia, da sola, non lo eliminerà per noi. Che gli azzeccagarbugli della filosofia protestino perché la scelta per il materialismo non ha nessuna base “logica”, le scelte fondamentali che l’umanità ha fatto non si sono mai basate su qualche micragnoso calcolo logico, sono le necessità immanenti dello sviluppo storico, oggettive come le pietre e i pianeti, a spingere gli uomini ad agire e lottare, a prendere in mano il proprio destino e a scegliere i migliori strumenti per farlo. Questo è il significato del materialismo nell’epoca che attraversiamo.

 

 

4. I limiti della teoria del riflesso

 

Da millenni il materialismo viene applicato alla teoria della conoscenza con la teoria classica del riflesso. Essa ha, come vedremo, un grave limite nella sua incapacità di spiegare la dimensione sociale delle teorie. L’evidente esistenza di tale dimensione viene utilizzata dai relativisti come scusa per negare il materialismo tout court. Sebbene questo limite sia indubbio, tenterò di mostrare come non sia affatto intrinseco a una teoria della conoscenza materialista, al contrario la sua permanenza impedisce al materialismo di essere completo, reale. Succede un po’ come succedeva nell’Ottocento con il meccanicismo. Essendo allora la forma dominante di materialismo, spingeva di fatto molti scienziati verso una qualche forma di scetticismo e di idealismo con la sua incapacità di spiegare le vere leggi di sviluppo della scienza e del reale.

La teoria del riflesso sostiene che la conoscenza è un riflesso della realtà esterna. Questa affermazione generale è in sé vaga e metterebbe d’accordo filosofi molto diversi tra loro. Il punto è la natura di questa riflessione. Sosterremo che occorre distinguere tra fonte della riflessione e conseguenze della riflessione per non rinunciare agli aspetti chiave di una filosofia materialista. La fonte della conoscenza rimane il mondo esterno e nient’altro. Qualsiasi forma di conoscenza cosiddetta a priori non è altro che conoscenza a posteriori divenuta a priori nel corso dell’evoluzione. Il legame tra il mondo esterno e la teorizzazione umana è la pratica. La pratica è il vero criterio con cui l’umanità ha sempre accettato o respinto le varie teorie. Questo per il semplice fatto che le teorie sono una generalizzazione della pratica, sono uno strumento della pratica. Se le teorie fisiche non ci aiutassero a costruire i ponti e le strade, le navi e gli aerei, a che servirebbero? D’altra parte è proprio questo loro utilizzo che ne decreta il successo o l’abbandono. A questo punto sembra che il materialismo debba accettare la concezione filosofica nota come “strumentalismo” secondo cui una teoria è solo, appunto, uno strumento e che non ci deve interessare il suo rapporto con la realtà. Si potrebbe allo stesso modo dire che un martello è solo una teoria e che ci disinteressiamo al suo rapporto con i suoi usi pratici, dato che uno strumento fisico e uno strumento teorico sono, in ultima analisi, uno strumento. Il punto è, ovviamente, che uno strumento ha un certo ruolo in base alle sue caratteristiche oggettive. Con un martello fatto di gelatina non si potrebbe battere nessun chiodo e il martello è uno strumento proprio perché ha delle caratteristiche fisiche ben determinate. Lo stesso principio vale per una teoria: una teoria è uno strumento perché rappresenta più o meno bene la realtà di cui è un’astrazione approssimata. Lo strumentalismo, e le scuole neopositiviste in genere, rifiutano l’aspetto ontologico del metodo. Per loro, l’esistenza del mondo esterno fa parte delle nebbie metafisiche da cui la scienza dovrebbe rifuggire. Viceversa un metodo che non chiarisca le proprie basi ontologiche non concluderà nulla in nessun altro campo.

D’altra parte la teoria del riflesso, che si dimostra ontologicamente salda, incorre in una critica “sociologica”: se le teorie rappresentano la realtà, come possono esserci teorie false? Come può progredire la scienza se tutte le sue conoscenze riflettono il mondo? A questo aspetto, che è decisivo, è dedicata buona parte di questa ricerca. In realtà, non c’è nulla di nuovo nelle spiegazioni che daremo su questa diatriba, dato che, secondo noi, il problema è già stato risolto circa un secolo e mezzo fa. Tuttavia questa sembra un’epoca in cui le lezioni del passato, siano esse filosofiche, politiche, storiche o sociali, sembrano perdersi facilmente e prosperano guru di varia tendenza, tutti con novità dell’ultima ora con cui seppellire il vecchiume filosofico e teorico del passato. Per fortuna, la storia in questo si comporta bene e mentre nel 2050 ci saranno studi su Aristotele, su Kant e sui problemi della teoria del riflesso, di questa gente non se ne sentirà più parlare fra qualche anno. Se con questa ricerca daremo un aiuto alla storia, ma soprattutto agli uomini di questo tempo, a riprendere il dibattito su punti fondamentali della filosofia e della scienza, avremo raggiunto i suoi obiettivi.

 

 

5. Materialismo e dialettica

 

Per la scienza ordinaria e anche per il buon senso di tutti i giorni le contraddizioni sono un aspetto negativo della nostra conoscenza. Se guardiamo le previsioni del tempo è per sapere se domani pioverà o farà bel tempo, se il meteorologo dicesse che pioverà e farà bel tempo insieme, lo riterremmo un incompetente o un tipo bizzarro. In effetti, la logica dicotomica aristotelica ci aiuta ad affrontare molti casi della vita e a cavarcela egregiamente. Così se vediamo un semaforo rosso ci fermiamo, se è verde avanziamo e se è rosso e verde insieme significa che è rotto e occorre agire con molta cautela. In filosofia c’è però una lunga tradizione di pensiero che mostra la parzialità e, in ultima analisi, l’erroneità di questa logica. Eraclito, che ne fu il primo critico occidentale, ha attaccato la logica ancora prima che Aristotele la compendiasse nei suoi scritti. Così, Eraclito faceva notare, ogni volta che ci si immerge in un fiume, dato che l’acqua scorre, non si tocca lo stesso fiume. Quello è ma insieme non è lo stesso fiume. Allo stesso modo, secondo il noto paradosso, se si toglie un capello alla volta dalla testa di un uomo, arriverà il momento in cui quest’uomo sarà completamente calvo, ma nessun capello avrà causato, da solo, la calvizie. Nel momento di togliere i capelli, quell’uomo sarà e non sarà calvo. In questi esempi si vede come la logica aristotelica abbia difficoltà ad analizzare i processi, che, svolgendosi nel tempo, non si lasciano incasellare da un semplice sì o no. La filosofia ha dibattuto a lungo questi problemi. Kant ed Hegel costituiscono i due apici della filosofia classica occidentale. Kant fornì la sintesi più organica e mirabile delle scuole gnoseologiche precedenti. Hegel propose, di questo “razionalismo critico”, una critica dialettica basata sul rifiuto della logica del tutto o niente. La dialettica in Hegel è il modo di procedere della materia nelle sue varie forme, ma lo sviluppo della materia viene interpretato in forma capovolta, come la conseguenza dello sviluppo dello spirito, dell’Idea. Il modo mistico con cui Hegel utilizzava la dialettica, e le conseguenze antiscientifiche a cui portò questo uso, allontanarono e allontanano moltissimi scienziati da questo concetto[3]. Anch’essi pensano e teorizzano in modo eminentemente dialettico, solo, senza che ne siano consapevoli. Ma l’uso mistico che Hegel fa della dialettica non toglie la sua importanza per una comprensione più profonda dei processi reali, naturali e sociali.

Marx ed Engels furono tra i pochi ad afferrare il significato scientifico della dialettica hegeliana. In una famosa lettera al compagno e amico, Marx nota che, se fosse avanzato del tempo, avrebbe voluto scrivere un riassunto materialista della Scienza della logica. Che ciò significasse che Marx volesse scrivere un’opera “sul metodo”, sulla teoria della conoscenza ecc., mi sembra assai dubbio. Marx non ha voluto lasciarci una “Logica”, essa invece traspare dai suoi lavori (è Il Capitale, come nota Lenin nei suoi appunti filosofici). Questo perché Marx considerava ovvia l’idea che non esistesse un metodo staccato dal reale procedere della scienza, un’ideale, un imperativo categorico a cui attenersi. Qualsiasi considerazione di puro metodo è in qualche modo idealista, perché, se si considera la scienza una riproduzione del mondo esterno, anche il metodo non sarà che l’astrazione delle leggi del divenire della realtà, la logica del movimento della materia in tutte le sue forme. A questo punto scrivere “sul metodo” diventa solo un esercizio di sintesi dello sviluppo concreto della ricerca scientifica, qualcosa di poco “metodologico”. Scrivere sulla teoria della conoscenza è dunque un’operazione rischiosa per chi si basi sulla concezione materialistica della storia e della scienza. In questo scritto però, affronteremo anche questi temi per spiegare che cosa si debba intendere per teoria del riflesso e come si possa arricchire questa teoria grazie anche ad alcuni sviluppi che la scienza ha avuto in questo secolo. La teoria del riflesso, che pure è la base razionale di ogni ricerca scientifica, è stata spesso interpretata, anche da alcuni materialisti, in modo banale, meccanico, quasi sensista, dando adito a confusione e spesso all’allontanamento da essa di validi scienziati e filosofi che rifiutavano la visione piatta che se ne dava. Come detto, si può fornire un’alternativa a queste malinterpretazioni. D’altra parte, nelle opere di molti famosi studiosi ci sono teorie validissime riguardo a questi temi, che però rimangono “pezzi” fecondi in un mare di confusione, oppure soffrono di una mancanza di chiarezza generale, di una mancanza di una visione complessivamente dialettica, che le condanna alla parzialità, all’unilateralità. Studiandole, si prova quasi dispiacere per la collocazione infelice riservata a simili gioielli della scienza.

Quando si compie uno studio estensivo di questo tipo, si corre il rischio di creare una specie di minestrone teorico sintetizzando le buone idee di tante persone. Si evita questo dannoso eclettismo se si possiede una teoria salda e flessibile per la valutazione delle altre teorie e in genere dei contributi alla conoscenza umana. Marx la possedeva e per questo è potuto essere insieme un grande dialettico e un feroce antihegeliano, un assertore di una teoria del valore oggettiva e un avversario dell’economia politica classica. Questa teoria, molto semplice e quasi banale può essere sintetizzata come segue: l’interpretazione che lo scienziato[4] dà della propria scoperta non ha nessun carattere necessario rispetto alla scoperta stessa. Le due cose sono su un piano gnoseologico e concreto diverso e sottostanno a valutazioni del tutto disparate. Si obietterà, con Popper, che ogni “fatto” è denso di teoria e che dunque una simile divisione è di fatto impossibile. Rispondiamo che ogni fatto è denso di teoria, non di interpretazione. Ma, obietterebbe il nostro ipotetico critico, la teoria è proprio un’interpretazione dei fatti. A questo punto siamo costretti, per affrontare questa inevitabile critica, a dividere la risposta in due. La vera risposta la affronteremo solo quando si spiegherà che cosa si intende per riproduzione scientifica. Qui invece si faranno solo alcuni esempi che paiono particolarmente illuminanti per spiegare questa tesi. Il primo esempio viene dalla paleontologia ed è il noto caso dei fossili ritrovati a Burgess shale[5]. In questo sito si sono trovati una serie di “strani” animali estinti da milioni di anni. Il loro scopritore originario, Walcott, ne diede un’interpretazione ortodossa poi rilevatasi del tutto inesatta. Ora, possiamo noi ammettere che a Burgess shale sono stati trovati veramente animali “nuovi” e “strani” rifiutando l’interpretazione classica di Walcott? Ovviamente, e infatti molti lo hanno fatto, arrivando a un’analisi più veritiera di quelle forme di vita. Qui la differenza tra scoperta e interpretazione è perfino banale. Un esempio molto simile è la scoperta del continente americano ad opera della spedizione di Colombo. Tutti ritengono naturalmente che Colombo ha scoperto l’America senza dover accettare la sua interpretazione errata. In esempi del genere la scoperta esiste di per sé, non dipende affatto dall’interpretazione che ne viene data. Gli animali del giacimento fossile stavano lì da milioni di anni e non aspettavano certo che un curioso mammifero bipede li andasse a scovare. Lo stesso dicasi per l’ossigeno, scoperto oggettivamente da Priestley, ma da costui interpretato secondo una teoria errata. Ma con altre teorie la cosa si fa più difficile. La “scoperta” del valore in economia, o della dialettica in filosofia è cosa ben più controversa. La mia proposta è semplicemente questa: lo status gnoseologico della dialettica, del continente americano, degli animali estinti, o del valore, è lo stesso. Hegel ha scoperto la dialettica come Colombo ha scoperto l’America, Newton la gravità, Priestley l’ossigeno ecc. Proprio come possiamo accettare gli animali del giacimento di Burgess e non l’interpretazione di Walcott, possiamo accettare la dialettica e non l’idealismo di Hegel, il valore e non il riduzionismo di Ricardo e così via. Dire dunque che Marx è un hegeliano è come dire che Whittington e Gould sono dei “walcottiani” perché hanno studiato molto a lungo i fossili scoperti da Walcott o che tutti gli americani sono seguaci di Colombo perché vivono nel continente in cui è approdato Colombo. Abbiamo dunque la facoltà di separare le scoperte oggettive, i progressi della scienza, dalle visioni che di essi si danno, fossero anche gli stessi scopritori a fornirne l’interpretazione. Non bisogna negare che alla scoperta facilmente rimane attaccata, in parte o totalmente, l’interpretazione originale, e che dunque il rischio di eclettismo non è facilmente superabile. Solo una visione generale coerente permette di organizzare ogni scoperta secondo una struttura valida e utile.

Chiarito questo punto non dovrebbe sorprendere l’utilizzo di autori e teorie che paiono in così forte contrasto tra loro. È come se questi studiosi avessero fatto delle foto al colpevole di un delitto, ma essendo poco pratici di fotografia, avessero immortalato solo un pezzo del soggetto. Sta a noi connettere tutti questi particolari, che, isolati, non hanno senso o sono addirittura svianti, per arrivare a un’analisi sensata. È un compito un po’ pericoloso. Per questo si adatta bene allo spirito del nostro tempo.

 

 

6. Sintesi della ricerca

 

Nella prima parte, Conoscenza come coevoluzione, tracceremo una teoria del rapporto tra conoscenza e sviluppo evolutivo, cercando di mostrare che lo sviluppo delle varie forme di materia segue le stesse leggi.

Nella seconda parte, Riflessione e riproduzione, discuteremo quali novità ha comportato nella rappresentazione del mondo esterno, la nascita della materia cosciente, cercando di sviluppare la teoria del riflesso oltre l’interpretazione meccanicista.

Nella terza parte, La coscienza come risultato dello sviluppo economico e sociale dell’uomo, affronteremo, da un punto di vista storico e analitico, la nascita della coscienza, cercando di evidenziare il suo ruolo nella conoscenza e nella vita dell’uomo.


I. Conoscenza come coevoluzione

 

 

1. Materia e coscienza

 

In ogni lavoro scientifico si parte dando alcuni assunti per scontati. Ogni scienza, ogni teoria deve partire da qualcosa di non dimostrato, per evitare un regresso infinito nella spiegazione, e in questo senso ha in sé un intrinseco tratto di convenzionalismo. Questo non significa che riteniamo valido il convenzionalismo come filosofia, ma solo che, come è ovvio, ci sono cose che non occorre spiegare senza che chi ascolta o legge si senta smarrito. Non c’è nulla di scorretto nel fare assunzioni senza dimostrarle, purché, però, si sia disposti a mettere in discussione successivamente anche questi assunti, perché vengono anch’essi da un confronto con la realtà e non sono innati. Per inciso, ritengo che la dimostrazione in sé costituisca un ben misero scopo della ricerca e anzi ritengo, con Gödel, che non sia possibile nessuna dimostrazione nella scienza, come si è notato nell’introduzione.

Il mio punto di partenza è semplice e molto generale: tutto ciò che “esiste” (dove esiste va interpretato in senso molto lato) è una parte della materia che costituisce l’universo, in una fase data del suo sviluppo. Nel corso dei suoi mutamenti, la materia si è sviluppata in tre forme: materia inanimata, materia organica e materia cosciente. Ogni cosa che ha la ventura di appartenere a questo universo esiste in una di queste forme. Lo sviluppo delle varie forme della materia segue le stesse leggi. A grandi linee questa è la base che noi consideriamo necessaria per ogni riflessione filosofica e scientifica e che storicamente è stata definita, molto semplicemente, materialismo[6]. Quanto affermato finora, non significa negare un’esistenza reale a quello che c’è nella nostra testa, alle nostre teorie ecc. Al contrario, significa dare pari dignità a ciò che esiste in senso puramente fisico e a ciò che è una conseguenza del mondo fisico. Pari dignità non vuol dire che, fisicamente, un albero e una teoria siano la stessa cosa, ma che la teoria trae il proprio contenuto dal mondo fisico e che non esistono altre fonti della conoscenza se non la materia stessa nelle sue forme concrete di esistenza[7]. Dire che la materia in ogni sua forma si trasforma in base alle stesse leggi non significa avere una pietra magica che ci fa comprendere tutto ciò che accade. La famosa affermazione di Marx ed Engels: “la storia è storia della lotta di classe” non è la panacea dello storico, non permette a questo di analizzare tutte le società in quattro e quattr’otto in base a questa regola universale. Piuttosto gli permette di avere un quadro generale, un elemento organizzatore della propria ricerca, ma la ricerca deve andare molto più a fondo, analizzando le forme concrete con cui quella verità opera in una data epoca. Come scrisse Marx, “le leggi della natura non possono mai essere annullate. Ciò che può mutare in condizioni storiche diverse non è che la forma con cui quelle leggi si impongono”[8]. Allo stesso modo la “legge universale” che abbiamo esposto non è l’alfa e l’omega della scienza, ma solo il quadro generale necessario, e per noi ovvio, senza cui ogni ricerca rischia di perdersi in un oceano di fenomeni disparati.

Inoltre quella legge non impedisce affatto che succedano “cose nuove”, lo richiede anzi, perché si basa su una trasformazione continua di tutte le forme della materia, una trasformazione che non si ripete sempre uguale, ma che anzi crea in continuazione fenomeni nuovi, inauditi. Per fare un’analogia: tutti gli animali si evolvono attraverso le stesse leggi, ciò non significa che tutti gli animali sono uguali o che non nascono mai nuove specie, tutto al contrario! Gli animali sono diversissimi e la natura non cessa mai di tirare fuori soluzioni strabilianti dal cilindro dell’evoluzione. Ai fini di questa ricerca mi interessa studiare quali “novità” ha prodotto la nascita della materia cosciente, dell’uomo insomma, quali risultati ha dato il raggiungimento di questa nuova tappa del divenire. Già i filosofi presocratici spiegavano che tutto è in relazione con tutto e che l’uomo interagisce in ogni istante con tutto ciò che lo circonda. La nascita di una forma vivente e poi cosciente di vita non ostacola ma moltiplica queste interazioni, creandone un’infinità di nuove. Sostengo che la conoscenza è una di queste interazioni, creata per necessità da una certa specie, durante il corso del suo sviluppo.

Nella storia dell’umanità alla conoscenza è stato sempre dato un posto speciale, quasi magico. L’idealismo inteso come il rifiuto di accettare che il nostro pensare è un’attività naturale che convive con tutte le altre e che anzi è in fondo tutto ciò che esiste, è il filo conduttore quasi necessario della filosofia. E non è affatto così strampalato. In fondo, se una giraffa dovesse dare un posto speciale a qualcosa ci metterebbe il suo collo, una tartaruga ci metterebbe magari il suo scudo osseo e un virus chissà, la propria resistenza al freddo. Il fatto è che solo l’uomo, per vie fortemente contingenti[9], ha dovuto sviluppare un organo che gli ha fornito la coscienza e la conoscenza cosciente. Per affermare una posizione equilibrata non bisogna trascurare nessuno dei due aspetti: la coscienza si è sviluppata esattamente seguendo le stesse leggi della proboscide dell’elefante, delle ali di un gabbiano o della mole di una balena. Ma è anche vero che la coscienza segna una nuova tappa nello sviluppo della materia. Anche se storicamente parlando è la stessa cosa, non è la stessa cosa gnoseologicamente. È equivalente e insieme non lo è, ai denti dello squalo o alla tela del ragno. Vedendo una balena da vicino non si può non rimanere affascinati e colpiti dalla sua enormità. Passandole accanto si ha paura che con una piccola scrollata ci elimini da questo pianeta come i bambini dispettosi fanno con le formiche. Eppure non c’è niente di inspiegabile in questa enormità, come non c’è niente di misterioso nella piccolezza di un insetto. In questo senso non c’è nulla di misterioso neanche nella coscienza. Ma, dato che essa è la nostra arma, la nostra salvezza evolutiva, è naturale che ce ne interessiamo e, come un felino si affila le unghie contro un albero, così noi ci facciamo domande sulla natura e la struttura di questa coscienza e sugli effetti che essa produce. Molti filosofi sono andati anche oltre, attribuendo alla coscienza ogni sorta di qualità mistiche. Ma su ciò dopo.

 

 

2. L’evoluzione

 

Descriverò qui, dell’evoluzione, quanto serve per comprendere come i rapporti che l’animale ha con la conoscenza si modifichino con il suo divenire biologico. La teoria della selezione naturale venne concepita da Darwin come lo specchio della propria epoca: una lenta e inesorabile marcia verso lo sviluppo, verso il meglio. Già ai tempi di Darwin c’erano sostenitori dell’evoluzione che rifiutavano l’interpretazione gradualista e ‘liberale’ fornita da Darwin (Huxley per esempio). Anche qui la scoperta non c’entra nulla con l’interpretazione che ne diede l’autore, Darwin. Negli ultimi decenni S. J. Gould e altri hanno dimostrato come la concezione gradualista sia una incrostazione ideologica che nulla ha a che vedere con il vero modo di sviluppo della natura. I due punti più interessanti della teoria di Gould sono questi: innanzitutto non è vero che la selezione si svolge modificando in ogni momento un pezzetto di struttura dell’animale. Piuttosto le specie animali attraversano lunghissimi periodi in cui non c’è virtualmente cambiamento e poi bruschi momenti di transizione in cui, per una serie di ragioni ambientali, una piccola popolazione si trasforma rapidamente in una nuova specie. In secondo luogo non è vero che la vita parte da una specie o da un phila per arrivare a una ramificazione. È invece il contrario: l’esplosione di forme di vita iniziale, quella fissata nei fossili del Cambriano, non ha eguali nella storia. Da allora gli animali si sono andati differenziando all’interno di pochi piani anatomici definiti, i quali piani erano stati selezionati a partire da un vasto numero iniziale. Per fare un esempio: tutte le centinaia di migliaia di specie di insetti che si conoscono sono molto più simili tra loro di due specie animali del periodo Cambriano. È come se la natura avesse indetto una gara iniziale e ricompensato i vincitori permettendo la loro differenziazione fino al turno seguente ovvero fino alla distruzione di massa successiva. Questo è il vero modo con cui le specie si sono evolute[10]. Prima che Darwin, prendendo a prestito dall’economia la metafora maltusiana, spiegasse che è la sopravvivenza del più adatto e la lotta per questa sopravvivenza a decidere chi si evolverà e dunque come si svolge la selezione, Lamarck aveva sostenuto una teoria per cui l’adattamento avviene per via diretta: una fissazione delle esperienze dell’individuo nel suo patrimonio genetico e dunque nella specie. Il figlio del muratore avrà i calli alle mani. Dopo Darwin, per decenni la teoria di Lamarck è stata sbeffeggiata e considerata come una superstizione. Sicuramente è intrisa dell’ambiente meccanicistico dell’epoca, ma non è così insensata come sembra[11]. Per quanto ci riguarda consideriamo la teoria di Darwin e quella di Lamarck come i due estremi del rapporto tra evoluzione e conoscenza. Tutta l’evoluzione degli animali si svolge all’interno di questa dialettica tra caso e necessità. A livello di animale domina il caso, ma a livello di specie il caso è stemperato dalla regolarità e dominano le necessità dell’ambiente. Il caso singolo veicola i processi necessari complessivi. Se l’evoluzione “normale” è un’interazione in cui il caso, la contingenza giocano un ruolo fondamentale, la coscienza di fatto rende l’evoluzione completamente lamarckiana. Per spiegare questa affermazione dobbiamo trattare il rapporto tra conoscenza ed evoluzione. Nel lungo periodo l’evoluzione plasma qualsiasi forma vivente secondo le esigenze dell’ambiente. Ma anche l’ambiente si trasforma e spesso in modo da rendere controproducenti gli adattamenti avutisi fino ad allora. Comunque l’adattamento è una risposta genetica a uno stimolo esterno. La teoria classica dice: è una risposta casuale. La genetica propone e la lotta per la vita dispone quale cambiamento sia buono e dunque vincente. Rifiutiamo questa visione perché il patrimonio genetico di ogni animale non è la somma di caratteri slegati che cambiano ognuno isolato dall’altro, ma un insieme di proprietà che si muove in una certa direzione. I geni non sono impermeabili all’ambiente[12]. Comunque è un fatto che nel lungo periodo le strutture dell’animale rispondono all’ambiente. Gli adattamenti dell’animale rispecchiano le esigenze di vita le quali sono legate al funzionamento oggettivo fisico, chimico, biologico del mondo. Dunque gli adattamenti incorporano conoscenza in modo incosciente. Noi abbiamo alcune teorie che ci permettono di costruire aerei, elicotteri e deltaplani. Nelle ali degli uccelli queste teorie si sono cristallizzate lungo i milioni di anni della loro evoluzione. L’adattamento è dunque una forma di conoscenza lenta e inconsapevole che pure riproduce nelle strutture dell’animale le leggi oggettive della natura[13]. È normale che gli scienziati studino le strutture degli animali per capire qualcosa sul mondo, perché queste strutture rappresentano proprio questo mondo. L’idrodinamicità di un pesce o di un cetaceo, la forma delle ossa di un uccello, il letargo degli orsi, tutte le strutture e i comportamenti animali riflettono il modo di essere della realtà, ovviamente in modo approssimato. Non c’è mai una perfetta corrispondenza, altrimenti non esisterebbe evoluzione. Gli animali sono sempre entità in movimento che si portano dietro un retaggio di svariati passati. Le loro strutture riflettono non la realtà di oggi, o non solo, ma anche la realtà di tutti i periodi storici che la specie e i suoi antenati hanno attraversato. Per questo le balene hanno le braccia e l’uomo la coda (atrofizzate). Gould ha ricordato che la ridondanza è una caratteristica essenziale dell’evoluzione, è la riserva a cui gli animali attingono quando occorre. Un certo organo può sembrare del tutto inutile, ma in base a certe circostanze si può modificare, nel corso del tempo, salvando la vita al suo possessore. Quello che comunque è l’aspetto basilare di questo processo è che gli animali incorporano la conoscenza come una coevoluzione. Si adattano in modo ovviamente non cosciente al mondo. Ha ragione dunque Lorenz quando sostiene che gli esseri viventi e il mondo sono di fronte gli uni all’altro come due specchi, che si rimandano continuamente la rappresentazione di sé. Il sistema Terra nel suo complesso si evolve tramite l’interazione di mondo fisico e mondo biologico. Questa coevoluzione, che è largamente accettata nelle scienze biologiche, ha una conseguenza gnoseologica importantissima e purtroppo poco considerata. Spetta a Lorenz il merito di aver esplorato tra i primi questa conseguenza che si può sintetizzare così: la coevoluzione fornisce una nuova base, granitica, alla teoria gnoseologica del riflesso. La coevoluzione spiega che le strutture cognitive di ogni animale sono il mondo, sono la realtà obiettiva organizzata e sviluppata da millenni di evoluzione. Il nostro cervello ha come unica fonte della conoscenza il mondo perché esso stesso è il mondo, ne è una rappresentazione biologica evolutasi nell’interazione tra specie e ambiente. Esso è il risultato oggettivo dell’incontro di “strati” di materia che a un diverso livello di sviluppo e di esistenza, interagiscono combinandosi. Con la coevoluzione dunque, il materialismo acquisisce una fondazione storica e biologica: la nostra conoscenza riflette la realtà perché si cristallizza in qualcosa che a sua volta rappresenta la realtà, in strutture che si sono formate sulla base della realtà stessa. Come è noto Lorenz ha tentato di utilizzare questa teoria per appoggiare la teoria della conoscenza di Kant. Sebbene a mio giudizio non riesca in questa operazione, arriva a una conclusione del tutto condivisibile: dato che la conoscenza si svolge sempre nell’interazione di realtà e strutture cognitive dell’animale, in ogni singolo momento esistono una sorta di a priori, che però evolvono anch’essi nel tempo. Considerando un certo istante nel tempo, fotografiamo lo sviluppo di un certo animale in una certa fase. Le strutture che l’animale ha in quella fase sono ovviamente innate, nel senso che le ali o le zampe o un sistema nervoso fatto in un certo modo ecc., sono in quel momento un dato, un qualcosa di immodificabile. Le strutture e i comportamenti degli animali sono dunque, in un certo momento, veramente innati[14]. Per quanto riguarda la teoria della conoscenza questo significa che il cervello non è una tabula rasa. Meno che mai quello dell’uomo. Poiché queste strutture si evolvono in altre strutture, in ogni singolo momento il cervello non è mai una tabula rasa. Ma se consideriamo tempi significativamente lunghi, anche la struttura più longeva è plasmabile e l’animale torna ad essere in un certo senso una tabula rasa che l’ambiente modella a piacimento. Tutto questo dovrebbe eliminare alla radice la diatriba tra empiristi e razionalisti o tra aprioristi e behavioristi. È ovvio che il cervello umano non è una tavoletta di cera molle che le esperienze riempiono di contenuti, ma le strutture cognitive generalizzano, organizzano l’esperienza che proviene dal contatto con il mondo fisico e poi sociale.

L’evoluzione si svolge in base alle esigenze che l’animale ha di sopravvivere. Queste necessità, che derivano direttamente o indirettamente dalle leggi oggettive del mondo fisico, si fissano in strutture, comportamenti. Prima, del tutto inconsapevolmente, provocando un adattamento puramente genetico. Poi sempre più creando non dei comportamenti istintivi ma piuttosto la capacità di comportarsi in modo corretto rispetto all’ambiente. Nell’uomo questa flessibilità raggiunge il grado di coscienza e l’adattamento diviene razionale, volontario. Ma non bisogna dimenticare che anche oggi il processo produttivo umano consiste in ultima analisi in un adattamento, altamente sofisticato certo, ma pur sempre un adattamento al mondo in cui viviamo, a un mondo che pian piano riusciamo a trasformare, spesso in peggio, ma che pur sempre ci domina. Gli aerei riflettono la stessa realtà incorporata nelle ali degli uccelli. Lo stesso dicasi per i palazzi e gli alberi, per il morso del serpente e per le armi chimiche. La differenza del ritmo dell’evoluzione è però evidente. L’antenato dei delfini, che, stanco della grama vita sulla terra ferma, si è rituffato in acqua e ha assunto la forma di un pesce, ha impiegato, per compiere questa eccellente trasformazione, milioni di anni. L’uomo, in qualche migliaio, è passato dalla canoa al sommergibile. Anche qui sottolineiamo con forza come occorre bilanciarsi per evitare due schematismi estremi. Un estremo è la piatta identificazione di ogni forma di sviluppo, per cui il computer è un adattamento, il movimento dell’ameba è un adattamento, A=A e l’uomo si adatta come l’ameba. D’altro canto va evitata una posizione idealista, di insensato libero arbitrio per cui l’uomo, in quanto animale cosciente, potrebbe creare da sé le leggi di funzionamento del mondo, addirittura esse non esisterebbero se lui non le pensasse, come se il mondo avesse atteso, trepidante, miliardi di anni che venissimo noi a comandare, a fare i Soloni dell’intero universo.

La conoscenza è dunque una coevoluzione. Questo significa che siamo liberi solo nella misura in cui la nostra mente riflette il divenire della realtà e lo organizza in teorie adatte allo scopo.

 

 

3. L’evoluzione delle teorie

 

L’epistemologia si è sviluppata come disciplina autonoma relativamente tardi nella storia del pensiero. In questo ha seguito le orme dell’economia politica, che ha potuto diventare scienza solo quando il processo produttivo capitalistico ha preso corpo, e assumendo questo processo come eterno. Ovviamente profonde riflessioni epistemologiche percorrono tutta la storia della scienza e della filosofia, come succede per l’economia. Aristotele ha dato una serie di contributi all’una e all’altra, ma non poteva essere un economista né un filosofo della scienza. Fino alla comparsa della teoria di Kuhn, l’epistemologia venne impostata come una teoria normativa, che prescriveva, in base a certi assunti, come lo scienziato doveva comportarsi. Venivano esecrati alcuni comportamenti e venivano esposti gli standard di onestà scientifica. Come sempre i sistemi normativi sono un’unione di dati di fatto dei processi reali (per esempio la proprietà privata dei mezzi di produzione) con la necessità di conservare questi dati di fatto contro comportamenti ad essi contrari (per esempio la lotta alla proprietà privata che può darsi a ogni livello, dal furto alla rivoluzione). Lo stesso valeva per l’epistemologia, perché naturalmente nessun criterio normativo è mai frutto veramente di una pura deduzione. Comunque lo stesso Popper, che si attribuisce il merito, invero eccessivo, di aver affossato il neopositivismo, non faceva che sostituire alle regole metafisiche degli empiristi logici, delle sue regole, che costituivano certo un miglioramento, ma si basavano comunque sull’idea di fondo che il filosofo debba spiegare allo scienziato con che metodo operare. Secondo questa impostazione, prima si impara il metodo, e poi lo si applica alla ricerca, come fa un giudice con la legge. Perciò “la teoria deve offrire il collo alla mannaia” ecc. Kuhn fu tra i primi filosofi della scienza a esporre una teoria descrittiva della crescita della conoscenza. Nel suo libro La struttura delle rivoluzioni scientifiche Kuhn espone le modalità con cui la scienza evolve. Non staremo qui a spiegare queste modalità (paradigma, scienza normale, puzzle-solving, ecc.) che sono ben note, passeremo invece direttamente alla critica e all’approfondimento di questa concezione. Se è grande il merito di Kuhn nell’aver proposto un’epistemologia descrittiva, è una debolezza decisiva della sua teoria il fatto che si mantenga sempre a livello di una semplice descrizione, non arrivando mai alla spiegazione dei nessi causali, al perché l’evoluzione della scienza segua certi percorsi[15]. Lasciata senza una base causale, la teoria kuhniana è inevitabilmente preda di una deriva soggettivista che ha i suoi esiti in Feyerabend e nella sociologia della conoscenza. Lo stesso Kuhn, nel tempo, si spostò verso un’interpretazione sempre più soggettivista delle proprie scoperte[16]. Come sempre, ci disinteressiamo di quello che pensa lo scopritore della propria scoperta, e ci occupiamo della scoperta stessa. In questo caso la cosa eclatante è che la teoria di Kuhn sembra la trasposizione della teoria marxista dello sviluppo storico applicata alla scienza. O, se vogliamo, della teoria di Gould sull’evoluzione animale applicata alle teorie[17]. Lunghi periodi di evoluzione graduale in cui si accumulano contraddizioni che alla fine portano a una rivoluzione che da vita a una nuova formazione sociale (a un nuovo paradigma, a una nuova specie). Il problema è che mentre è chiaro che cosa faccia sviluppare la società (e anche gli animali, ma è un altro discorso), le forze produttive, e quali siano i due poli attorno a cui si svolge lo sviluppo (rapporti di produzione e forze produttive), non è chiaro quale sia l’equivalente nella scienza. Questo in Kuhn manca e occorre cercarlo altrove. In ultima analisi, dato che lo sviluppo della scienza partecipa dello sviluppo della società nel suo complesso, le determinanti dello sviluppo e delle rivoluzioni sociali, sono anche le determinanti dello sviluppo e delle rivoluzioni scientifiche. Di questo si ha ampiamente prova nella storia della scienza. Anzi, questo condizionamento di lungo periodo vale ancora di più per la sovrastruttura in senso proprio (religione, ideologie, sistemi giuridici, ecc.). Nel breve periodo è banale e riduttivo andare a cercare nelle svolte dell’economia una spiegazione delle varie teorie scientifiche (a meno che queste teorie non trattino, appunto, dell’economia). Guardando la storia nel suo complesso, possiamo agevolmente riconoscere una coevoluzione e compresenza di rivoluzioni sociali e scientifiche, dell’affermarsi di nuove visioni del mondo e di fare scienza quando una nuova classe sociale si è fatta avanti e ha condotto una trasformazione radicale del modo di produzione o di aspetti fondamentali di questo. In questo modo superiamo le debolezze della teoria originale di Kuhn, il quale non poteva spiegare perché le stesse anomalie fossero insignificanti in una certa epoca e distruttive in un’altra; o perché nessuno scienziato per decenni avesse elaborato anomalie poi risultate ovvie. La teoria di Kuhn ha un altro punto debole nel concetto di paradigma che risulta indefinito, vago[18]. Alla concezione di Kuhn manca una stratificazione del paradigma, ovvero un’analisi di come esso si organizzi in livelli gerarchizzati che riproducono i problemi della lotta tra paradigmi su scala minore. L’idea che ogni paradigma non sia un monolite ma piuttosto un contenitore squassato al suo interno da lotte tra indirizzi, scuole e interpretazioni diverse potrebbe dedursi semplicemente da uno studio empirico sulla scienza[19], ma è interessante notare come questa stratificazione ripercorre alla lettera quello che accade nell’evoluzione animale. Si è descritto questo processo parlando della teoria di Gould e ora possiamo trasporlo in termini della crescita della conoscenza. Le teorie evolvono nel tempo in modo dialettico, come le specie, il che significa alternando periodi di rivoluzione, in cui, in modo violento e repentino, i paradigmi vengono distrutti e sostituiti con altri paradigmi, a periodi di lento sviluppo di scienza normale che accumula le anomalie, le contraddizioni, che forniranno la base per la nuova rivoluzione. Queste contraddizioni non sono una conseguenza di anomalie logiche della teoria, o lo sono in misura trascurabile nel confronto tra paradigmi, sono invece il risultato dell’inadeguatezza della teoria a spiegare la realtà, e soprattutto ad affrontare le situazioni nuove. In questo senso le teorie si estinguono come le specie, quando non riescono più ad assimilare le sfide dell’ambiente attraverso le proprie strutture. Questo parallelo tra teoria dell’evoluzione in natura e nella scienza non è nuovo. Ne parlò, per esempio, Popper e lo usò per tentare di convalidare una visione opposta a quella appena trattata. Questo è successo anche in economia e perfino nel marxismo. “La natura non fa salti” è il grido di battaglia di tutti i gradualisti, in biologia (Darwin), in economia (Marshall per esempio), in epistemologia (appunto Popper), e in politica (Kautsky, che tentò una combinazione di marxismo e darwinismo). Queste visioni vengono colpite alla radice da quanto qui esposto proprio perché si immaginano un’evoluzione naturale che non esiste. Il fatto che la teoria della selezione di Gould sia corretta non implica naturalmente che l’analogia testé provata sia di per sé corretta. Ma non può lasciare indifferenti vedere un evidente e stretto parallelo tra il modo di sviluppo della materia a ogni livello. La natura procede per salti, come le società e la scienza. Le rivoluzioni sono eventi rari ma necessari, nella società, nella scienza e nell’evoluzione animale (e bisognerebbe dire anche nell’universo, ma il discorso ci porterebbe lontano). E l’analogia può essere estesa ancora. Per esempio già Popper notava che anche gli animali conoscono, seppur a loro modo, attraverso il metodo del “trial and error”, anche se il risultato di questo metodo, che fa sì che tra l’ameba e Einstein ci sia solo un passo, conduce l’ameba alla morte e noi a nuove teorie. Sebbene tra l’ameba e Einstein ci siano molti passi, l’idea di fondo è giusta, l’uomo non ha nessun privilegio epistemologico particolare, solo per il fatto di essere l’unico animale che pensa: anche i suoi metodi devono basarsi su come funzionano la natura e il mondo. E proprio come le teorie sono su palafitte, sempre per usare una metafora popperiana, nel senso che potrebbero essere rovesciate in ogni momento, così gli animali sono su palafitte, sempre a rischio che un improvviso cambiamento (il ricongiungimento dei continenti, una trasformazione climatica) li spazzi via. Sempre continuando l’analogia dobbiamo rilevare come un eccesso antiempiristico, in parte anche una reazione alle posizioni neopositiviste, ha condotto Popper a negare un ruolo all’induttivismo, solo perché l’induttivismo non ha nessuna base logica sicura. Come ha spiegato bene Lorenz, questa “mancanza” non limita affatto la funzione dell’induttivismo nelle esperienze animali e umane. Il fatto che non è logicamente fondato dire che “tutti i corvi sono neri”, non significa affatto che nelle strutture delle prede del corvo l’evoluzione non faccia entrare questa caratteristica. Se poi comparisse un corvo bianco, farebbe stragi delle prede che non saprebbero come difendersi. L’induttivismo come raccolta di dati da cui generalizzare è il modo normale con cui la materia vivente fa esperienze e in base a cui agisce (inconsciamente o, nell’uomo, secondo raziocinio). Poi si può arrivare alla conclusione che l’induttivismo è pericoloso, perché la realtà si trasforma incessantemente e le verità di ieri diventano mezze verità oggi e sbagli clamorosi domani. Gli animali hanno invece un induttivismo genetico o al più un rapporto rozzo con l’ambiente che non permette loro, ovviamente, simili sottigliezze. Ma una teoria è sempre una guida per l’azione, per la trasformazione del reale, e nessuna inesattezza logica vale più del ruolo pratico di una teoria. L’errore dell’empirismo e del materialismo meccanicistico è quello di vedere nella raccolta dei dati già la loro strutturazione. Mentre ogni animale e ogni teoria hanno, in un istante nel tempo, certe strutture con le quali conoscono.

Veniamo adesso al lato dell’analogia che tratta del paradigma. Il paradigma ha un parallelo nei tre livelli della materia vivente: è una forma di organizzazione biologica (la specie), della coscienza (le strutture cognitive) e della conoscenza (il paradigma scientifico). Come ci sono battaglie tra paradigmi e dentro i paradigmi, ci sono lotte tra specie e dentro la specie e in entrambi i casi è questa dialettica intestina a creare le condizioni per una trasformazione. La teoria degli equilibri punteggiati infatti spiega che sono piccole popolazioni isolate di una certa specie ad evolversi velocemente verso qual cos’altro, proprio come alcune scuole eterodosse di un paradigma. Infine la situazione preparadigmatica, di magma teorico, ha un corrispondente nella situazione fluida che segue a una distruzione di massa, quando l’esplosione della varietà della natura fornisce la base per una selezione che sospinge i phila fortunati verso la differenziazione (quella che nella struttura della scienza è la stratificazione del paradigma). Questa evoluzione parallela non va presa con timore di un appiattimento biologico della scienza. Non ha implicazioni morali o metafisiche. Ha però un significato molto profondo e, a mio giudizio, ben difficilmente trascurabile: la coevoluzione della natura, della coscienza e della conoscenza non significa solo che, cosa ovvia, esse sono parte di una stessa realtà di cui costituiscono momenti diversi di sviluppo, ma, soprattutto, che hanno le stesse leggi di sviluppo in considerazione del fatto che sono elementi di una stessa totalità, poli di una dialettica senza fine. Questo permette una nuova fondazione, quanto mai storica e perfino “naturale” del materialismo. Il materialismo, la concezione che si può sintetizzare così: le teorie riproducono per approssimazione i processi reali del mondo (fisico, biologico, cognitivo, sociale ecc.), appare corretto perché è esso stesso frutto dello sviluppo di questo mondo: il materialismo è la presa di coscienza di come procede la realtà, di come si sviluppa il mondo.

 

 

3. I tre mondi

 

La coevoluzione acquista ora un senso concreto. Con questo concetto possiamo riassumere l’interazione che c’è tra le forme della materia. Abbiamo prima fatto riferimento a tre livelli della materia: l’esistenza fisica come parte del mondo fisico, la coscienza e la conoscenza. Questi sono anche i tre mondi della omonima e famosa teoria popperiana. Da quanto detto finora risulta chiaro perché l’analisi di fondo che con questa teoria si propone, è accettabile, mentre l’interpretazione che Popper stesso ne da è inadeguata[20]. Qui ci interessa comprendere lo status gnoseologico dei due mondi frutto dell’evoluzione della materia vivente sulla terra. Che rapporto sussiste tra la realtà e la coscienza che di questa realtà è frutto e insieme giudice.

La coscienza interviene sui dati fenomenici acquisiti già “in sede di formazione”, perché la coscienza si accompagna a una certa struttura cognitiva da cui essa stessa fu originata. Ciò significa che il fluire del mondo oggettivo dentro di noi non si accumula casualmente attendendo una successiva cernita e interpretazione. La coscienza analizza e interpreta il mondo circostante in ogni momento, come un radar segnala in ogni istante quello che le sue strutture gli permettono di vedere. In questo “intervento” costante non c’è nessun pericolo di soggettivismo, purché si accetti di fare un’analisi storica, evolutiva e non deduttiva, formale, della coscienza. Gli empiristi vecchio stampo non potevano accettare che le strutture cognitive dessero un’organizzazione già nella fase induttiva del conoscere, e con ciò riducevano l’uomo a meno di un’ameba, dato che perfino nell’ameba c’è una seppur minima forma di organizzazione cognitiva. Il fatto che un animale possa conoscere solo tramite certe strutture non ha nessun rapporto con l’idea che sia il soggetto a creare quanto si conosce, perché un qualsiasi animale, di qualsiasi epoca, non ha nessun potere sulle modalità di funzionamento delle strutture cognitive della sua specie, più di quanto ne abbia sulle forme di locomozione, di riproduzione o di comunicazione. L’evoluzione fornisce a ogni animale le strutture che gli permettono di assimilare le esperienze. Le esperienze sono l’impatto dei processi oggettivi su queste strutture. Un‘eruzione vulcanica può avere come spettatori una pietra, che si limita a scaldarsi al passaggio della lava, una lumaca, che sentendo il calore della lava tenta di allontanarsi, e un uomo che vede la lava e riflette su cosa sta succedendo (magari interpreta l’eruzione come l’ira degli dei ma questo è un altro discorso e lo riprenderemo in una parte successiva del lavoro). Lo stesso fenomeno naturale ha effetti diversi su forme di vita diverse. Questo è ovvio e non va confuso con una visione soggettivista che invece risponde a tutt’altra logica. Il mondo della conoscenza umana è ovviamente formato da certe esperienze basate sulla vita dell’uomo (in senso lato: anche la lettura di libri, lo studio di trattati scientifici e l’ascolto di cassette musicali sono tali esperienze). Ci interessa capire la natura di queste esperienze per poter comprendere il rapporto tra reale e soggetto e dunque tra mondo 1 e 3 (secondo la terminologia originale). La teoria classica del riflesso parlava di copie. In sé il termine non è eccellente, perché ricorda un processo tecnico, un’immagine fotografica, una fotocopia. Ma non ne faccio certamente una questione di termini. Una volta stabilita la natura di queste copie sarà risolto il problema gnoseologico che stiamo affrontando. Per il materialismo queste copie sono una rappresentazione dei fenomeni e dei processi reali nel cervello dell’uomo. Sono l’organizzazione che la mente umana fa dei dati sensibili. Questa organizzazione ha dunque una fonte (i dati sensibili e, in ultima analisi, la realtà), e una forma di sistemazione (le strutture cognitive ma non solo, e su questo non solo tornerò). Bisogna notare che non c’è nessuna divisione assoluta tra i dati sensibili e la loro strutturazione. Tanto l’occhio che il cervello che la mente sono il risultato degli stessi processi evolutivi, anzi ogni parte della catena della conoscenza coevolve con le altre. Dunque anche le strutture della conoscenza vengono dall’evoluzione, non hanno un qualcosa di sovrastorico. Fin qui il processo descritto è simile in tutti gli animali: le strutture cognitive servono, e a tal scopo sono evolute in quel modo, a organizzare la conoscenza. La conoscenza che in un dato momento un animale ha è dunque esperienza organizzata. Significa questo che questa conoscenza è, per usare una formulazione classica, l’unione di oggetto e soggetto? Quest’idea è accettabile solo se si parte dal presupposto che lo stesso soggetto è parte del mondo oggettivo in una certa fase di sviluppo. Ovviamente possiamo ben distinguere tra uno scienziato e un elettrone, ma il cervello e la mente dello scienziato non vengono da un’altra dimensione. Il modo con cui lo scienziato “vede” e conosce l’elettrone dipendono dall’evoluzione che l’uomo ha avuto. Quindi sì, l’esperienza organizzata e immagazzinata nel cervello è in questo senso l’unione di oggetto e soggetto, di un processo oggettivo e di una struttura che permette a questo processo di essere significativo per l’animale che lo esamina. A questo punto niente di più facile, per un idealista, che arrivare alla conclusione che è allora il soggetto a creare il processo, o comunque che quel processo esiste solo tramite l’esperienza e la strutturazione che ne dà chi lo esperisce. Questa conclusione non deriva certo dall’analisi fin qui vista. Per tornare all’esempio che si faceva, l’eruzione vulcanica non ha nessun rapporto necessario con l’uomo o la lumaca. Infatti ci sono state eruzioni prima della nascita dell’uomo e ce ne sarebbero anche se non ci fossero più uomini sulla terra. Ovviamente quando l’uomo non era ancora comparso, le eruzioni non esistevano “per lui”. Ma questo è irrilevante per l’esistenza del fenomeno. Se uno arriva in ritardo al cinema si accorge che il film è cominciato anche senza di lui, che esiste anche senza di lui. Per fortuna, altrimenti, se avessero ragione gli idealisti, per vedere un film bisognerebbe aspettare sempre lo spettatore più ritardatario!

La conoscenza perviene dunque a organizzarsi nelle strutture cognitive delle rappresentazioni dei vari processi che avvengono realmente[21]. I sostenitori della teoria del riflesso adoperano usualmente in modo intercambiabile i termini di copia, riflesso, rappresentazione o riproduzione. A mio giudizio, mentre i termini di copia e rappresentazione indicano una connessione generica, i termini riflessione e riproduzione indicano due momenti diversi del processo e per questo meritano la particolare attenzione che gli daremo[22].

 

 


II. Riflessione e riproduzione

 

 

1. Riflessione e riproduzione

 

La conoscenza viene elaborata nella mente e nel sistema nervoso di ogni animale. Questa elaborazione è frutto del funzionamento dei vari organi e della loro interazione. Nell’uomo questo funzionamento include anche le teorie, la cultura, la coscienza di classe ecc. Le strutture della conoscenza nell’uomo non sono solo “hardware”, nel senso di strutture fisiche, ma sempre più “software” nel senso di strutture cognitive apprese (teorie ecc.). Le due strutture funzionano comunque allo stesso modo e non c’è una divisione così netta tra loro, per via del processo spiegato precedentemente: l’evoluzione trasforma costantemente l’esperienza in adattamento. È come succede per i sistemi operativi dei computer: includono continuamente nuove funzioni, che all’inizio sono programmi indipendenti, nel loro operare. Nonostante questa somiglianza, propongo di distinguere tra riflessione e riproduzione come momenti storicamente e gnoseologicamente diversi del processo della conoscenza. Questa distinzione mi sembra essenziale per spiegare il processo dello sviluppo della conoscenza.

La riflessione è quel processo per cui il mondo esterno, la realtà obiettiva in tutte le sue forme, entra nell’esperienza di ogni animale, compreso l’uomo, in modo obbligato, come l’aria dalle finestre, senza che il soggetto possa impedire il processo se non interrompendo l’esperienza stessa (come quando ci tappiamo le orecchie per non sentire parole sgradevoli). La riflessione è il rapporto tra le strutture cognitive dell’essere vivente e la realtà. Ovviamente l’oggetto che tali strutture stanno riflettendo non dipende da loro. Le stelle c’erano anche prima che l’uomo le identificasse e le chiamasse in quel modo. La riflessione dunque è un processo che crea nella mente delle immagini fedeli, relativamente parlando, del fenomeno esperito. È un processo comune a tutte le specie viventi. In un certo senso non distingue nemmeno tra animali e piante, perché in una qualche misura anche le piante riflettono l’ambiente (si pensi al movimento fotosensibile dei girasoli). L’uomo però, per le ragioni discusse in precedenza, ha avuto un’evoluzione che lo ha condotto alla coscienza. La riproduzione è connessa alla coscienza come essa è connessa alla produzione. Così come la coscienza viene dallo sviluppo delle forze produttive (costruzione di strumenti), così essa crea la riproduzione, ovvero il pensiero astratto[23].

La riproduzione è il processo per cui la riflessione diventa una generalizzazione cosciente, conoscenza astratta dei fenomeni e dei processi. La riproduzione è un’attività esclusivamente umana, perché ha a che vedere con l’elaborazione sociale della riflessione. L’uomo elabora le immagini esterne esperite fenomenicamente in base, non solo alle strutture a lui intrinseche per via evolutiva, ma anche e soprattutto in base alle scienze, alle teorie, ai modelli, ai paradigmi scientifici, alle ideologie, insomma alle strutture sociali evolutesi storicamente. Giustamente Piaget e Lorenz hanno sostenuto che nessuna conoscenza è possibile senza certe strutture evolutesi nel tempo. Tali strutture sono state create per permettere all’uomo di utilizzare la conoscenza, di organizzarla. Negli altri animali l’organizzazione è svolta a livelli molto bassi, nell’uomo le strutture biologiche riguardano solo la riflessione e non già la riproduzione del reale. Ogni animale conosce per agire, la conoscenza ha sempre a che fare con l’azione, con una trasformazione del reale. Come ha osservato Piaget: “Il conoscere non consiste infatti nel copiare la realtà, ma nell’agire su di essa per trasformarla”. Chiaramente ciò ha effetti diversi a seconda che la conoscenza sia un rapporto meccanico tra ambiente e animale, o sia inserita in un rapporto tra materia e coscienza. Anche nell’uomo la conoscenza parte con la riflessione della realtà nelle strutture cognitive, ma non termina qui. Questo perché, per quanto esposto, la conoscenza umana si basa su una nuova attività: l’astrazione. L’astrazione non è un processo soggettivo in senso assoluto, come pensano la maggior parte degli scienziati. Certo, possiamo “astrarre” da ogni cosa, possiamo fare teorie astraendo dal fatto che siamo mortali, che abbiamo capacità intellettive limitate, che siamo animali sociali e non isolati[24], ma il risultato di queste “astrazioni” non aiuta certo a capire la realtà. Tuttavia sarebbe un errore sostenere che tali astrazioni siano “false”, irreali. Occorre invece capire la natura della loro falsità: perché astraggono da alcune condizioni piuttosto che da altre. Analizzando questo, si afferrerà la natura socialmente determinata della riproduzione scientifica[25]. Una teoria non è un riflesso immediato della realtà. Se così fosse, se questa concezione meccanicista fosse corretta, non potrebbero esistere teorie false o sbagliate se non per una frode cosciente del ricercatore (per altro possibile). Invece la teoria riflette la realtà solo mediatamente, solo come riproduzione sociale, astratta della riflessione del reale nella mente. Il modo con cui riproduce il reale non è meno oggettivo della riflessione stessa. Non si sta proponendo una concezione dualistica: riflessione oggettiva, riproduzione soggettiva. Tanto la riproduzione che la riflessione sono processi oggettivi. Solo che la riflessione è un processo che accomuna tutti gli esseri viventi e in quanto tale non spiega come la teoria riproduce il reale. Essa indica solo la fonte, l’unica fonte, della conoscenza. La riproduzione è un processo esclusivamente umano ed è legato alle condizioni storiche in cui la mente umana si trova a esistere. L’oggettività della riflessione è dunque fisica, biologica (sensistica verrebbe da dire). L’oggettività della riproduzione è sociale, è legata alla storia evolutiva e sociale dell’uomo e alle condizioni concrete della società.

 

 

2. Teorie di classe

 

La diatriba, che dura da sempre, sulla natura di “classe” di una teoria, acquista in tal modo una base concreta. La scienza e l’epistemologia dominanti hanno sempre rifiutato quest’idea. La sociologia della conoscenza e le altre scuole soggettiviste la accettano nell’ambito del relativismo: come l’evoluzionismo non è più vero del creazionismo, così le scienze sociali hanno vari paradigmi che lo studioso sceglie per ragioni psicologiche, politiche ecc. Mai è stato spiegato, né dai “realisti” né dai relativisti il perché esistano e il perché si evolvano teorie diverse e opposte concernenti una stessa realtà. Un logico aristotelico proporrebbe un semplice rimedio: poiché o è vero A o è vero non-A, confrontiamo le teorie e eliminiamo quella che contiene l’errore. Feyerabend o un suo consimile risponderebbero che non esiste l’errore in senso oggettivo e dunque non c’è nessun metodo per scegliere razionalmente una certa teoria. La soluzione a questo vicolo cieco è la distinzione tra riflessione e riproduzione. L’oggettività viene preservata e così anche il carattere sociale della conoscenza.

Come affermato, la riproduzione è legata all’astrazione. Solo l’uomo riproduce e solo l’uomo astrae. La capacità unica dell’uomo di astrarre non ha nulla di metafisico, non significa che l’uomo può librarsi nello spazio spezzando le catene delle leggi oggettive della natura, ma che può generalizzare socialmente le proprie conoscenze in modo da scoprire queste leggi che sono appunto modi comuni di essere della materia e che dunque noi possiamo percepire solo astraendo dai mille singoli casi concreti. Laddove ogni altro animale incorpora queste leggi in modo meccanico nel corso del suo sviluppo[26], l’uomo può conoscerle e riprodurle in modo approssimato nel proprio ambito: le teorie scientifiche. Una teoria scientifica non è dunque direttamente una copia della realtà. Come ricordato, se ci fosse questo passaggio diretto, non si spiegherebbe l’esistenza di teorie false, del ruolo sociale e di classe della conoscenza, delle rivoluzioni scientifiche.

Tanto la riflessione che la riproduzione attengono alla mente, alla conoscenza. Mentre però la riflessione è un processo comune a tutte le forme di vita, è la conseguenza dell’interazione tra animale e ambiente, il risultato dell’agire dell’animale, la riproduzione è la conseguenza dell’interazione tra uomo, ovvero animale cosciente, e ambiente. L’animale può solo adattarsi, l’uomo può sintetizzare le proprie esperienze e farci una teoria. Tanto l’uomo che ogni altro animale devono rispettare le leggi oggettive della natura per poter vivere. Ma l’animale soccombe a queste leggi, che incorpora nel proprio comportamento senza nessuna consapevolezza, noi, conoscendole, ce ne serviamo a nostro favore. Come scrisse Popper:

 

«Il metodo per prove ed errori non viene applicato soltanto da Einstein, ma anche, in maniera più dogmatica, dall’ameba. La differenza non sta tanto nelle prove, quanto in un atteggiamento critico e costruttivo di fronte agli errori».[27]

 

In ultima analisi questo “atteggiamento critico” non è altro che il prodotto dello sviluppo delle forze produttive. Questo sviluppo ha creato la coscienza, la conoscenza astratta e dunque ha permesso all’uomo un rapporto diverso con il suo ambiente.

Come spiegheremo meglio nella prossima sezione, la coscienza è il risultato della necessità di una riproduzione razionale dei propri mezzi di sostentamento, e dunque la possibilità di una progressiva creazione di questi mezzi di produzione. Ma la riproduzione non riguarda solo la ricostituzione fisica delle risorse utilizzate, riguarda anche e sempre di più la riproduzione del modo con cui l’uomo vive nel suo complesso. L’uomo riproduce se stesso non solo avendo figli e sfamandosi, perché l’uomo non è solo un transito di cibo, un ponte genetico tra due generazioni. È anche altro. Ma questo essere “più” che un semplice animale non ha nulla di metafisico: l’uomo non è un “super-animale”, figlio di qualche ente supremo. Le sue peculiarità sono un risultato abbastanza casuale dell’evoluzione di cui possiamo prendere atto solo ex post. La vita cosciente non era iscritta nella storia della Terra, anche se il grado di probabilità della sua nascita non è calcolabile[28]. Per quanto ne sappiamo, possono esistere miliardi di pianeti pieni di animali ma senza forme di vita cosciente. La riproduzione segnala dunque una nuova forma di vita sulla Terra e un nuovo modo di essere della materia. La differenza tra riflessione e riproduzione è essenziale perché rappresenta il salto di qualità della nascita della coscienza.

I due processi, riflessione e riproduzione, sebbene distinti da un punto di vista storico e gnoseologico, non è detto che operino, nella crescita della conoscenza, in modo successivo, anzi una distinzione nel loro funzionamento concreto, quotidiano è molto difficile. Questo perché in ogni momento lo scienziato, e l’uomo in genere, si pone di fronte alla realtà con tutte le strutture non solo cognitive ma anche culturali ereditate per via evolutiva e per via sociale. In questo senso è ovvia l’osservazione di Popper che i fatti sono “densi” di teoria. L’attività di ricerca non è mai puramente passiva, perché ricercare è una conseguenza delle necessità di esistenza della specie e dunque delle necessità di conoscere la realtà per trasformarla secondo le nostre esigenze. Questo ruolo inevitabile delle teorie nel sistematizzare la conoscenza non implica però che i fatti di per sé non esistano, che essi esistano solo in quanto chi li osserva possiede una certa teoria[29]. Questo è un argomento basilare nell’analisi delle rivoluzioni scientifiche. Come si è osservato, la teoria di Kuhn si deve arrendere di fronte alle obiezioni soggettiviste alle concezione di paradigma e di anomalia. Se veramente i fatti esistono solo in quanto c’è una teoria che li rende visibili, come è possibile che una teoria subisca un attacco dai “suoi” fatti? Il passo successivo è perciò quello di negare qualsiasi rapporto necessario tra teorie e realtà e concepire la storia della scienza come una lotta di fazioni avverse o una semplice ricaduta delle trasformazioni sociali. Per esempio tutto Contro il metodo, oltre 300 pagine[30], è dedicato a dimostrare che la concezione galileiana vinse contro l’astronomia tradizionale solo perché Galileo era più furbo, più scaltro, più bravo a vendere la propria merce. Che la sua teoria riproducesse più correttamente la realtà è del tutto secondario per Feyerabend, e in ultima analisi non ha senso porsi una simile domanda in questa prospettiva filosofica. Per chi accetti una concezione materialista della scienza il problema principale è proprio difendere una visione oggettiva della scienza e della crescita della conoscenza, pur accettando la prospettiva discontinuista e rivoluzionaria di Kuhn. La conoscenza nel lungo periodo è sostanzialmente cumulativa, ma nell’arco dei decenni e anche di secoli, può tranquillamente procedere di distruzione in distruzione, spazzando via ogni volta quanto veniva considerato valido fino a quel momento. La distinzione tra riflessione e riproduzione è necessaria perché non si perdano le due caratteristiche fondamentali della scienza: la sua oggettività e il suo carattere di approssimazione relativa. Purtroppo è invece molto facile che gli epistemologi, anche quelli materialisti, schiaccino una delle due caratteristiche, perdendo la bussola. Se si dimentica che la scienza è la riproduzione astratta e socialmente valida dei processi oggettivi, si perde di vista qualsiasi criterio razionale di giudizio della crescita della conoscenza e in genere dei progressi scientifici (non per niente per Feyerabend la teoria della relatività, il nazismo, la teoria di Galileo, il creazionismo o il darwinismo sono concezioni parimenti scientifiche e oggettive). Ma se si trascura che questa riproduzione è un’approssimazione relativa si perde la connessione tra scienza e società. Questa seconda caratteristica è molto più chiara se si considerano le scienze sociali. Infatti le scienze naturali, in quanto si occupano di processi del tutto indifferenti alle trasformazioni che la società attraversa, vedono riflessione e riproduzione come due processi molto più omogenei fra loro. Molti filosofi hanno attaccato l’idea del rapporto tra teorie e società, parlando delle scienze naturali. Colletti una volta ironizzò sull’idea di scienza di classe sostenendo che le bombe atomiche sovietiche erano costruite con le stesse teorie di quelle dell’America capitalista. Sebbene molti scienziati, anche validi, si portino dentro il laboratorio pezzi di filosofie, visioni delle cose, ideologie che sono deprecabili rottami, e arrivino a giudicare in base a questi brandelli di pensiero morto e sepolto la propria attività, è indubbio che il legame tra una teoria fisica, per dire, e la forma di produzione dominante è molto più blanda del medesimo legame nelle scienze sociali. La società condiziona le scienze naturali in altro senso: creando le risorse umane e tecnologiche sulla base di cui queste scienze possono procedere, obbligando spesso le direzioni della ricerca per certi scopi (b