Agostino,
maestro di retorica a Milano, nel 385, convertitosi al cristianesimo, lascia la
cattedra e la città per ritirarsi in una villa in Brianza prestatagli da un
amico; in questo ritiro si prepara a ricevere il battesimo nella Pasqua del
386. È questa l’occasione in cui egli scrive i tre libri Contra Academicos: la prima opera
filosofica di Agostino cristiano è quindi una polemica nei confronti degli
Accademici, gli scettici sostenitori dell’impossibilità per l’uomo di raggiungere
una qualche certezza. L’atteggiamento polemico nei confronti dello scetticismo
resterà una costante nel pensiero di Agostino anche nel De vera religione
(389-391) e nel De Trinitate (399-426). Muovendosi nella convinzione che
la ragione – pur non illimitata nelle sue possibilità – sia uno straordinario
dono fatto da Dio all’uomo, Agostino la ritiene in grado di conoscere la Verità
sia nella forma epistemica, sia nella forma noetica (capax Dei). Per
questo egli considera indispensabile il confronto con gli Accademici: contro di
loro egli propone la vita stessa come verità inconfutabile.
De Trinitate, 15, 12, 21
Prescindiamo da ciò che nell’anima è
apporto dei sensi; in questo campo la realtà è cosí spesso diversa
dall’apparenza che l’insensato, avendo l’anima troppo ingombra di queste false
apparenze, si ritiene pieno di buon senso; per questo la filosofia
dell’Accademia ha preso vigore fino al punto che, dubitando di tutto, è caduta
in una follia piú miserevole. Prescindendo dunque da ciò che si trova
nell’anima come apporto dei sensi, c’è, fra quelle che ci restano, una
conoscenza ugualmente certa di quella che abbiamo di vivere? In questo caso non
abbiamo timore alcuno che ci accada di essere ingannati da qualche falsa
apparenza, perché è certo che anche colui che si inganna, vive. Qui non accade
come nel caso della vista degli oggetti esterni, in cui l’occhio si può
ingannare, come si inganna quando un remo appare spezzato nell’acqua, quando
una torre sembra muoversi a coloro che navigano, e mille altri casi in cui la
realtà è differente da ciò che appare, perché questo non si vede con l’occhio
della carne. È con una scienza interna che noi sappiamo di vivere, cosicché un
filosofo dell’Accademia non può neppure obiettare: “Forse tu dormi senza saperlo,
e quello che tu vedi lo vedi in sogno”. Chi non sa infatti che le cose viste in
sogno sono assai simili alle cose viste in stato di veglia? Ma colui che, con
scienza certa, sa di vivere, non dice: “So di essere sveglio”, ma: “So di
vivere”, dunque che dorma o che sia sveglio, vive. Si tratta di un sapere che
il sonno non può rendere illusorio, perché sia dormire che vedere in sogno sono
proprietà di uno che vive. Né contro questa scienza l’Accademico può obiettare:
“Forse sei pazzo senza saperlo”, perché, è vero che anche le visioni dei folli
sono estremamente simili alle visioni dei sani di mente, ma colui che è folle,
vive. E contro gli Accademici non afferma: “So di non essere pazzo”, ma: “So di
vivere”. Non si può dunque sbagliare, né può mentire colui che dice che sa di
vivere. Si possono dunque opporre innumerevoli esempi di errori dei sensi a
colui che afferma: “So di vivere”, non ne temerà alcuno, perché colui stesso
che si inganna, vive. Ma se la scienza umana si limita a queste conoscenze, sarebbero
ben poche, a meno che non si moltiplichino in ogni direzione, in modo tale che
non soltanto divengano piú numerose, ma si estendano all’infinito. Infatti
colui che afferma: “So di vivere”, afferma di sapere una cosa; ma se dice: “So
che so di vivere” sa già due cose; il fatto poi che egli sa queste due cose,
significa che ne conosce una terza; procedendo cosí ne può aggiungere una
quarta, una quinta, e innumerevoli, se ne è capace. Ma, poiché non può con
un’addizione sempre rinnovata di singole unità, né comprendere un numero
innumerevole né esprimerlo con una ripetizione indefinita, comprende almeno e
dice con assoluta certezza che questa affermazione è vera e che può ripeterla
un numero cosí grande di volte che veramente il numero infinito di essa non si
può comprendere, né esprimere. Altrettanto si può affermare quando si tratta
delle certezze proprie della volontà. Non sarebbe prenderlo in giro rispondere:
“Ti inganni” a qualcuno che dicesse: “Voglio essere felice”? E se egli dice:
“So che voglio questo e so di saper questo”, può aggiungere una terza certezza
alle due prime, cioè che egli sa queste due verità e poi una quarta: che sa di
sapere queste due verità e cosí continuare all’infinito. Cosí se qualcuno dice:
“Non voglio sbagliare”, non sarà forse vero che, sia che sbagli, sia che non
sbagli, in ogni caso è vero che non vuole sbagliare? Chi avrà l’impudenza di
dirgli: “Forse ti inganni”? perché è fuori dubbio che, sebbene si inganni su
tutte le altre cose, non si inganna su questa: che non vuole ingannarsi. E se
dice che sa questa verità, aumenta il numero delle sue conoscenze, quanto
vuole, sino ad ottenere un numero infinito. Infatti colui che dice: “Non voglio
ingannarmi e so che non lo voglio e so di sapere questo” può già, sebbene sia
difficile esprimerlo, mostrare che vi è là la fonte di un numero infinito.
(Agostino, La Trinità, Città Nuova, Roma, 1973, pagg. 657-659)