Apel
contrappone al relativismo la convinzione che per poter esprimere qualsiasi
tesi, compresa quella relativista, sia necessario riconoscere e accettare le
norme del discorso. Su di esse poi è possibile fondare un’etica razionale. Ma
alla fine egli deve ammettere che fondare una scelta per il bene sulla sola
forza della ragione rimane una tesi problematica e difficile da sostenere.
K. O. Apel, Etica della comunicazione
L’idea stessa di una decisione fra le due alternative di fondo [...] risulta in vero intelligibile solo presupponendo che già si possa argomentare (pensare!). Ma ciò presuppone a sua volta il già avvenuto riconoscimento delle norme del discorso (Apel 1973, pp. 31l ss.).
Su questo riconoscimento riflessivo dell’inaggirabilità del punto di vista della ragione discorsiva e delle relative norme del discorso, poggia la possibilità di rispondere non solo alla domanda iniziale “perché mai essere razionali?”, ma anche alla nostra domanda iniziale “perché mai essere morali?”. Se si condivide un concetto di fondazione orientato in senso logico-formale, risulta, come noto, impossibile offrire a questi due interrogativi una valida risposta – interrogativi affatto cruciali per la questione relativa alla possibilità di una morale post-convenzionale nella moderna crisi adolescenziale (Dostoevskij e Nietzsche). Come si afferma a ragione, presupponendo la logica apodittica obiettivabile e formalizzabile, ogni risposta dovrebbe già presupporre ciò che deve venir fondato (il riconoscimento delle norme di ragione) e finirebbe cosí in una petitio principii. Perché, al contrario, in ogni fondazione intesa in senso logico-apodittico, si deve già presupporre proprio la ragione sotto forma di norme del discorso? A questa domanda la fondazione ultima pragmatico-trascendentale risponde tramite stretta riflessione sulle condizioni inaggirabili di possibilità della validità dell’argomentare (del pensiero!).
Per questa ragione, confrontandomi con il “razionalismo critico”, che dichiara impossibile in linea di principio ogni “fondazione ultima” in filosofia, formulai il criterio per una fondazione ultima nel modo seguente: “Se non posso contestare qualcosa senza cadere in una auto-contraddizione attuale [= performativa] ed insieme non posso fondarlo deduttivamente senza cadere in una petitio principii logico-formale, allora esso rientra tra quelle presupposizioni pragmatico-trascendentali dell’argomentazione, che devono esser state già sempre riconosciute, affinché il gioco linguistico dell’argomentare possa conservare il suo senso” (Apel 1975a; v. anche Kuhlmann 1985). La mia formulazione dimostra chiaramente che il metodo riflessivo-trascendentale della fondazione ultima, specifico a mio parere della filosofia, tiene conto fin dall’inizio dell’aporia in cui si incorre muovendo dal concetto, improntato sulla logica formale, dell’argomentazione come derivazione di qualcosa da qualcos’altro (deduzione, induzione o abduzione). Non le incombe quindi obbligo alcuno di confutare il cosiddetto “trilemma di Münchhausen” (o regresso all’infinito o petitio principii o dogmatizzazione di una premessa assiomatica), in cui cadrebbe, ad avviso di Hans Albert (Albert 1968, pp. 11 ss.) ogni tentativo di fondazione ultima. Inoltre, andrebbe sottolineato che il metodo riflessivo-trascendentale, in quanto linguistico-pragmatico, non fa neppure ricorso, nel senso della classica filosofia trascendentale, ad una evidenza, esente da interpretazione, della coscienza dell’io. Essa risale piuttosto all’evidenza paradigmatica del gioco linguistico, nel quale può venir costruita l’auto-contraddizione performativa insita nella contestazione dei presupposti in questione; come ad esempio quella seguente: “io asserisco con ciò come intersoggettivamente valido (ovvero, come liberamente accettabile da ogni partner del discorso) il fatto che io non debba riconoscere la norma della libera accettabilità delle asserzioni”.
La struttura riflessiva della fondazione, ora schizzata, in quanto relativa all’inaggirabile riconoscimento già sempre avvenuto delle presupposizioni dell’argomentazione, offre anche la possibilità di decifrare il richiamo di Kant all’“evidenza” del “fatto [non empirico] della ragione [pratica]”, con cui Kant, nella sua seconda Critica, suggella l’impossibilità, precedentemente ammessa, di una deduzione trascendentale della validità dell’imperativo categorico. Se infatti fosse possibile interpretare nel senso di un perfetto apriorico la struttura profonda della grammatica del discorso kantiano a riguardo di un “fatto” non empirico, allora non vi leggeremmo – come invece da altri affermato (Ilting 1972) – una variante della “fallacia naturalistica”, bensí un rinvio alla possibilità della fondazione ultima riflessivo-trascendentale.
È chiaro quindi che anche noi
intendiamo questa forma della fondazione ultima come alternativa alla derivazione
delle norme fondamentali dell’etica da qualsivoglia fatti. Non si tratta
qui di esibire un fatto nel mondo, per derivare da esso
qualcos’altro – una norma fondamentale – tramite obiettivabili operazioni
logiche; si tratta bensí di un ricorso riflessivo al riconoscimento già
sempre avvenuto di norme fondamentali in quanto tali (quindi in
quanto dover-essere!). Detto altrimenti, nella fondazione ultima
pragmatico-trascendentale (della filosofia tanto teoretica quanto pratica) non
ha luogo nessun ricorso fondativo a fatti fondamentali né ontologici né
antropologici (come spesso viene ipotizzato), tali fatti vengono bensí
introdotti in modo euristico, quali candidati per il test riflessivo della
fondazione ultima. Il test consiste tuttavia in un esperimento di
pensiero, con cui viene dimostrata – in modo strettamente riflessivo – l’incontestabilità
senza auto-contraddizione performativa.
Pur avendo risolto la questione filosofica della fondazione ultima in forza di un atto di conoscenza riflessivo, non si è ancora risposto alla domanda seguente: chi ha raggiunto tale cognizione (il che non vale per tutti, dato che è indispensabile aprirsi a tale riflessione trascendentale), come ad esempio la cognizione che egli ha l’obbligo di agire moralmente, cioè che egli ha già sempre riconosciuto come moralmente vincolanti le norme fondamentali della giustizia, della solidarietà e della co-responsabilità in quanto norme fondamentali del discorso – questa persona filosoficamente avveduta tradurrà anche, in forza di una volontà buona, la conoscenza da lui cosí conseguita in decisioni pratiche (sia a livello di discorso argomentativo, sia anche a livello della prassi di vita)? A me sembra che solo con questo interrogativo si sia toccato il problema davvero inteso da Popper, quando egli parla della necessità di una decisione “irrazionale”, ma “morale”, a favore della ragione in forza di un “atto di fede” (Popper 1958, vol. 2, pp. 284 ss); e che qui l’etica del discorso giunga a toccare il limite del cognitivismo (Apel 1986b).
È in effetti difficile guadagnare in etica un aspetto razionale alla questione della motivazione, almeno nel caso in cui, diversamente dal Socrate dell’antichità classica e piuttosto nel senso del cristianesimo e di un Kant, si muova dalla convinzione che qualcuno possa compiere volontariamente e consapevolmente ciò che egli stesso è in grado di riconoscere come male. Qui, come parrebbe, rimane soltanto la possibilità di domandarsi, in termini di psicologia empirica, quale forza motivazionale abbiano davvero gli atti cognitivi etico-filosofici per la prassi comportamentale. Osserverei tra parentesi che il noto psicologo evolutivo e filosofo morale Lawrence Kohlberg è giunto a tal riguardo ad un risultato degno di nota. In base ai risultati dell’esperimento Milgram (in cui alcuni vennero invitati, in nome della scienza e della sua autorità, a somministrare ad altre persone scosse elettriche e, su comando, ad aumentarne vieppiú l’intensità, nonostante le simulate urla di dolore delle “vittime”), coloro i quali possedevano una competenza di giudizio morale di livello post-convenzionale si sarebbero dimostrati, secondo Kohlberg, piú pronti degli altri ad opporsi all’ordine impartito in base a ragioni di ordine morale. Anche da un punto di vista filosofico, comunque, sembra intuitivamente poco plausibile supporre che chi, ad esempio durante la crisi adolescenziale, si ponga seriamente la questione di una possibile giustificazione del dovere morale, comprenda ed accetti in termini cognitivi la risposta da noi sopra schizzata, non debba risultarne motivato anche nelle sue decisioni di rilievo pratico – sebbene ciò non garantisca una volontaria messa in atto di queste sue cognizioni.
K. O. Apel, La strada, Rizzoli, Milano, 1983, pagg. 101-107