Dopo aver affermato che i lager sono “la
società piú totalitaria mai realizzata”, il luogo in cui “l’impossibile è
diventato possibile”, Hannah Arendt conclude che per la prima volta nella
storia è stato realizzato il “male assoluto”.
H. Arendt, Le origini del totalitarismo
La propaganda della verità non riesce a convincere la persona normale perché tale verità è troppo mostruosa, ma ha un effetto pericoloso su coloro, quali sanno dalle proprie fantasticherie di esser capaci di fare qualcosa di simile e sono quindi fin troppo disposti a credere nella realtà di quanto hanno visto. Improvvisamente si scopre che quanto per millenni la fantasia aveva relegato in un regno al di là della competenza umana può esser realmente prodotto qui sulla terra, che l’inferno e il purgatorio, e persino un riflesso della loro durata eterna, possono essere instaurati coi piú moderni metodi di distruzione e terapia. A tali individui (e in ogni grande città ce ne sono piú di quanti vorremmo ammettere) l’esperimento totalitario dimostra soltanto che il potere dell’uomo è maggiore di quanto osassero supporre e che si possono realizzare le fantasie infernali senza che il cielo cada o si spalanchi la terra.
Queste analogie, ripetutamente messe in luce dalle testimonianze sul mondo dei morenti, sembrano essere piú che un disperato tentativo di esprimere quel che esula dal regno del discorso umano. Nulla forse distingue le masse moderne da quelle dei secoli precedenti come la mancanza di fede in un giudizio finale: i peggiori hanno perso la paura, e i migliori la speranza. Incapaci di vivere senza timore e speranza, queste masse sono attratte da ogni sforzo che sembra promettere un’instaurazione del paradiso sognato e dell’inferno temuto. Come gli aspetti volgarizzati della società senza classi hanno una strana somiglianza con l’era messianica, cosí la realtà dei campi di concentramento corrisponde in modo sorprendente alle immagini medievali dell’inferno.
L’unica cosa irrealizzabile è ciò che rendeva sopportabili le concezioni tradizionali del castigo: il giudizio universale, l’idea di un principio assoluto di giustizia associato all’infinita possibilità della grazia. Perché nella valutazione umana non c’è delitto o peccato che sia commisurabile con le pene eterne dell’inferno. Di qui il turbamento del buon senso, che si chiede: che cosa devono aver commesso queste persone per soffrire in modo cosí inumano? Di qui anche l’assoluta innocenza delle vittime: nessun uomo l’ha mai meritato. Di qui infine la grottesca casualità della scelta degli internati dei Lager nel perfetto stato di terrore: una simile “pena” può, con eguale giustizia e ingiustizia, essere inflitta a chiunque.
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Alla mescolanza di politici e criminali, con cui i Lager cominciarono in Russia e in Germania, venne ben presto aggiunto un terzo elemento, destinato a costituire la maggioranza di tutti gli internati. Tale elemento consisteva di persone che non avevano fatto assolutamente nulla che, nella loro coscienza o in quella dei loro persecutori, avesse un nesso razionale col loro arresto. In Germania, dopo il 1938, esso fu rappresentato da masse di ebrei, in Russia da tutti i gruppi che, per una ragione qualsiasi estranea alle loro azioni, erano caduti in disgrazia. Questi gruppi, innocenti in ogni senso, erano i piú adatti a subire la distruzione della personalità giuridica e le relative conseguenze, e formavano quindi, qualitativamente e quantitativamente, la categoria indispensabile della popolazione dei campi. Tale principio venne applicato nel modo piú completo nelle camere a gas che, se non altro per la loro enorme capacità, potevano essere destinate, non certo a casi singoli, ma soltanto a popoli “in genere”, ebrei, zingari o polacchi. In proposito, il seguente dialogo riassume la situazione dell’individuo: “Per quale scopo, chiedo, esistono le camere a gas?” – “Per quale scopo sei nato?”. È questo terzo gruppo dei totalmente innocenti che in ogni caso aveva la peggio nei Lager. I criminali e i politici dovevano essere assimilati a questa categoria e cosí privati della distinzione protettiva derivante dall’aver fatto qualcosa. L’obiettivo ultimo, chiaramente indicato nelle fasi finali del terrore nazista, era quello di avere una popolazione dei campi interamente composta da innocenti.
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L’ideologia totalitaria non mira alla trasformazione delle condizioni esterne dell’esistenza umana né al riassetto rivoluzionario dell’ordinamento sociale, bensí alla trasformazione della natura umana che, cosí com’è, si oppone al processo totalitario. I Lager sono i laboratori dove si sperimenta tale trasformazione, e la loro infamia riguarda tutti gli uomini, non soltanto gli internati e i guardiani. Non è in gioco la sofferenza, di cui ce n’è stata sempre troppa sulla terra, né il numero delle vittime. È in gioco la natura umana in quanto tale; e anche se gli esperimenti compiuti, lungi dal cambiare l’uomo, sono riusciti soltanto a distruggerlo, non si devono dimenticare le limitazioni di tali esperimenti, che richiederebbero il controllo dell’intero globo terrestre per produrre risultati conclusivi.
Finora la convinzione che tutto sia possibile sembra aver provato soltanto che tutto può esser distrutto. Ma, nel loro sforzo di tradurla in pratica, i regimi totalitari hanno scoperto, senza saperlo, che ci sono crimini che gli uomini non possono né punire né perdonare. Quando l’impossibile è stato reso possibile, è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile, che non poteva piú essere compreso e spiegato coi malvagi motivi dell’interesse egoistico, dell’avidità, dell’invidia, del risentimento, della smania di potere, della vigliaccheria; e che quindi la collera non poteva vendicare, la carità sopportare, l’amicizia perdonare, la legge punire. Come le vittime delle fabbriche della morte o degli antri dell’oblio non sono piú “umane” agli occhi dei loro carnefici, cosí questa nuova specie di criminali sono al di là persino della solidarietà derivante dalla consapevolezza della peccabilità umana.
È conforme alla nostra tradizione filosofica non poter concepire un “male radicale”, e ciò vale tanto per la teologia cristiana, che ha concesso persino al demonio un’origine celeste, quanto per Kant, l’unico filosofo che, nella terminologia da lui coniata, deve avere perlomeno sospettato l’esistenza di questo male, benché l’abbia immediatamente razionalizzato nel concetto di malvolere pervertito, spiegabile con motivi intelligibili. Quindi non abbiamo nulla a cui ricorrere per comprendere un fenomeno che ci sta di fronte con la sua mostruosa realtà e demolisce tutti i criteri di giudizio da noi conosciuti.
H. Arendt, Le origini del totalitarismo,
Comunità, Milano, 1967, pagg. 611-613, 615 e 628-629