Anche
Aristotele, come Platone, sente il bisogno del passaggio dalla teoria alla
pratica: lo sguardo empirico e disincantato del filosofo sottolinea pertanto la
necessità della politica per la vita degli uomini; e la necessità, nella
politica, dell’aspetto normativo e di quello punitivo.
Etica
nicomachea, 1179a
33-1180a 24
1 [1179a] [...] Se di questi
argomenti e delle virtú, ed inoltre dell’amicizia e del piacere si è trattato
sufficientemente nelle loro grandi linee, bisogna forse pensare che l’intento
propostoci ha fine? O non è forse che, come si è detto, nel campo di ciò che è
soggetto d’azione, il fine non è [1179b] il contemplare ed il conoscere
ogni singola determinazione, ma piuttosto il compierla? Pertanto neppure per
quel che concerne la virtú è sufficiente il conoscere, ma bisogna cercare di
possederla e di praticarla, o, se per qualche altra via diventiamo uomini
dabbene, battere questa via.
2 Se dunque i ragionamenti fossero in se
stessi sufficienti a rendere onesti gli uomini “porterebbero a buon diritto
molte e grandi ricompense”, secondo il detto di Teognide, e se ne dovrebbe far
provvista. Ma, in realtà, consta che essi volgono ed incoraggiano sí quei
giovani che sono di spirito liberale ad esser forti, e rendono un carattere
nobile e veramente amante della bellezza morale posseduto dalla virtú, ma sono
incapaci di volgere la massa degli uomini verso l’assoluta perfezione. Infatti
la massa non è naturalmente portata ad ubbidire al pudore, ma alla paura, né ad
astenersi dalle azioni malvagie per la loro turpitudine, ma per le punizioni:
giacché, vivendo sotto l’impulso della passione, persegue i piaceri che le sono
propri e le cose per le quali saranno realizzati, e fugge i dolori opposti;
invece della bellezza morale e del vero piacere non ha neppure l’idea, poiché
non ne prova il gusto. Gente di questo genere quale argomento potrebbe
cambiare? Infatti non è possibile o non è facile che delle determinazioni da
lungo tempo radicate nei caratteri siano cambiate dal ragionamento. Ma c’è
senz’altro da esser soddisfatti se, possedendo tutte le condizioni in forza
delle quali riteniamo di diventare persone oneste, riusciamo a partecipare
della virtú.
3 Alcuni pensano che si diventi buoni per natura,
altri per abitudine, altri ancora con l’insegnamento. Ora, ciò che è dono della
natura è chiaro che non dipende da noi, ma è per qualche causa divina che
appartiene a coloro che sono veramente fortunati. E d’altro canto
l’insegnamento teorico c’è da temere che non sia efficace in tutti quanti gli
uomini, ma con le abitudini bisogna preparare previamente l’animo
dell’ascoltatore e rallegrarsi e ad odiare per giusti motivi, come terra che
nutrirà il seme. Infatti chi vive secondo la passione non darebbe retta ad un
ragionamento che lo distolga da questo genere di vita, né invero lo
comprenderebbe. Ora, chi versa in una simile condizione com’è possibile
persuadere a cambiare vita? È comunemente ammesso che, in generale, la passione
non si sottomette alla ragione, ma alla forza. Di conseguenza il carattere deve
in qualche modo già possedere qualcosa che è proprio della virtú, amando la
bellezza morale ed avendo in dispregio la turpitudine.
4 Ma avere fin da giovane una retta
educazione alla virtú è difficile se non si è allevati sotto leggi di questo
genere: infatti vivere nella moderazione e nella fermezza ai piú non è
piacevole, e specialmente ai giovani. Per questo si devono regolare con delle
leggi il loro nutrimento e le loro occupazioni: esse infatti non saranno penose
una volta divenute abituali. [1180a] Ma, senz’altro, non basta avere
quando si è giovani un corretto regime alimentare ed una corretta cura; ma
poiché anche quando si è diventati adulti si devono praticare le cose che si
sono apprese ed avervi consuetudine, anche a questo riguardo avremo bisogno di
leggi: e, in generale, dunque, ne avremo bisogno per tutta la vita. Infatti la
massa degli uomini ubbidisce di piú alla costrizione che al ragionamento, ed al
castigo che alla bellezza morale.
5 Per questo alcuni pensano che i
legislatori da un lato devono invitare alla virtú ed esortare ad essa in grazia
della bellezza morale, nella speranza che daranno loro ascolto coloro che nelle
abitudini sono progrediti come si conviene; dall’altro infliggere punizioni e
castighi a quelli che non ubbidiscono e sono riottosi per natura, e bandire
totalmente gli incorreggibili. Infatti l’uomo dabbene, che vive per la bellezza
morale, obbedirà al ragionamento, mentre il malvagio, il quale desidera il
piacere, sarà punito con una pena, come un animale da soma. Per questo si dice
anche che le pene devono essere di natura tale da opporsi massimamente ai
piaceri che sono stati amati.
6 Se dunque, come s’è detto, colui che sarà
un uomo dabbene deve essere stato ben allevato ad aver contratto buone
abitudini, e in seguito vivere cosí tra occupazioni che si convengono, e non
compiere, né volontariamente, né involontariamente, ciò che è cattivo: ebbene,
questi risultati si avranno per coloro che vivono secondo l’intelletto ed un
retto ordinamento il quale possieda forza. Ora, l’autorità del padre non
possiede forza né coercitività (né, in generale, l’autorità di un solo uomo, a
meno che non sia un re o una persona di questa sorta); per contro la legge ha
potere coercitivo, poiché è una regola che deriva da una certa saggezza ed
intelligenza.
7 Ancora, si odiano fra gli uomini quelli
che si oppongono ai nostri desideri, anche nel caso che sia giusto che lo
facciano, ma la legge non è odiosa nel prescrivere ciò che è onesto.
(Aristotele, Etica Nicomachea, Bur, Milano, 1986, vol. II, pagg.
877-883)