Aristotele, La filosofia prima (metafisica)

I primi due capitoli del primo libro della Metafisica sono particolarmente significativi. Aristotele inizia l’opera con questa frase: “Tutti gli uomini hanno un innato desiderio di sapere”. Nel secondo capitolo troviamo un altro passo da meditare attentamente: “Tutte le altre scienze saranno piú necessarie di questa [la filosofia], ma superiore nessuna” (983a 10).

Aristotele sottolinea poi la specificità degli uomini nei confronti degli animali, individuata nel loro essere dotati di ragione, e l’importanza della facoltà astrattiva della ragione stessa al fine di raggiungere il livello della conoscenza scientifica. Attenzione alla parola “scienza”: si tratta di un tentativo di tradurre la parola greca epistéme, che significa propriamente “conoscenza che si pone al di sopra” (epí-ístemi), quindi piú generale, piú profonda, piú solida.

 

Metafisica, 980a 21-983a 21

 

           1       [980a] [...] Tutti gli uomini per natura tendono al sapere [toû eidénai]. Segno ne è l’amore per le sensazioni: infatti, essi amano le sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità, e, piú di tutte, amano la sensazione della vista: in effetti, non solo ai fini dell’azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire, noi preferiamo il vedere, in certo senso, a tutte le altre sensazioni. E il motivo sta nel fatto che la vista ci fa conoscere piú di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze fra le cose.

           2       Gli animali sono naturalmente forniti di sensazione; ma, in alcuni, dalla sensazione non nasce la memoria, in altri, invece, nasce. [980b] Per tale motivo questi ultimi sono piú intelligenti e piú atti ad imparare rispetto a quelli che non hanno capacità di ricordare. Sono intelligenti, ma senza capacità di imparare, tutti quegli animali che non hanno facoltà di udire i suoni (per esempio l’ape e ogni altro genere di animali di questo tipo); imparano, invece, tutti quelli che, oltre la memoria, posseggono anche il senso dell’udito.

           3       Orbene, mentre gli altri animali vivono con immagini sensibili e con ricordi, e poco partecipano dell’esperienza, il genere umano vive, invece, anche d’arte e di ragionamenti. Negli uomini, l’esperienza deriva dalla memoria: infatti, molti ricordi dello stesso oggetto giungono a costituire un’esperienza unica. [981a] L’esperienza, poi, sembra essere alquanto simile alla scienza e all’arte: in effetti, gli uomini acquistano scienza e arte attraverso l’esperienza. L’esperienza, infatti, [...], produce l’arte, mentre l’inesperienza produce il puro caso. L’arte si genera quando, da molte osservazioni di esperienza, si forma un giudizio generale ed unico riferibile a tutti i casi simili.

                    [...]

           4       Orbene, ai fini dell’attività pratica, l’esperienza non sembra differire in nulla dall’arte; anzi, gli empirici riescono anche meglio di coloro che posseggono la teoria senza la pratica. E la ragione sta in questo: l’esperienza è conoscenza dei particolari, mentre l’arte è conoscenza degli universali; ora, tutte le azioni e le produzioni riguardano il particolare: infatti il medico non guarisce l’uomo se non per accidente, ma guarisce Callia o Socrate o qualche altro individuo che porta un nome come questi, al quale, appunto accade di essere uomo. Dunque, se uno possiede la teoria senza l’esperienza e conosce l’universale ma non conosce il particolare che vi è contenuto, piú volte sbaglierà la cura, perché ciò cui è diretta la cura è, appunto, l’individuo particolare.

           5       E, tuttavia, noi riteniamo che il sapere e l’intendere siano propri piú all’arte che all’esperienza, e giudichiamo coloro che posseggono l’arte piú sapienti di coloro che posseggono la sola esperienza, in quanto siamo convinti che la sapienza [tò eidénai], in ciascuno degli uomini, corrisponda al loro grado di conoscere [tèn sophían]. E, questo, perché i primi sanno la causa, mentre gli altri non la sanno. Gli empirici sanno il puro dato di fatto, ma non il perché di esso; invece gli altri conoscono il perché e la causa.

           6       Perciò noi riteniamo che coloro che hanno la direzione nelle singole arti siano piú degni di onore e posseggano maggiore conoscenza e siano piú sapienti dei manovali, [981b] in quanto conoscono le cause delle cose che vengon fatte; invece i manovali agiscono, ma senza sapere ciò che fanno, cosí come agiscono alcuni degli esseri inanimati, per esempio, cosí come il fuoco brucia: ciascuno di questi esseri inanimati agisce per un certo impulso naturale, mentre i manovali agiscono per abitudine. Perciò consideriamo i primi come piú sapienti, non perché capaci di fare, ma perché in possesso di un sapere concettuale e perché conoscono le cause.

           7       In generale, il carattere che distingue chi sa rispetto a chi non sa, è l’essere capace di insegnare: per questo noi riteniamo che l’arte sia soprattutto la scienza [epistéme] e non l’esperienza; infatti coloro che posseggono l’arte sono capaci di insegnare, mentre gli empirici non ne sono capaci.

           8       Inoltre, noi riteniamo che nessuna delle sensazioni sia sapienza [sophía]: infatti, se anche le sensazioni sono, per eccellenza, gli strumenti di conoscenza [gnósis] dei particolari, non ci dicono, però, il perché di nulla: non dicono, per esempio, perché il fuoco è caldo, ma solamente segnalano il fatto che esso è caldo.

           9       È logico, dunque, che chi per primo scoprí una qualunque arte, superando le comuni conoscenze sensibili, sia stato oggetto di ammirazione da parte degli uomini, proprio in quanto sapiente e superiore agli altri, e non solo per l’utilità di qualcuna delle sue scoperte. Ed è anche logico che, essendo state scoperte numerose arti, le une dirette alle necessità della vita e le altre al benessere, si siano sempre giudicati piú sapienti gli scopritori di queste che non gli scopritori di quelle, per la ragione che le loro conoscenze non erano rivolte all’utile. Di qui, quando già si erano costituite tutte le arti di questo tipo, si passò alla scoperta di quelle scienze che non sono dirette né al piacere né alle necessità della vita, e ciò avvenne dapprima in quei luoghi in cui gli uomini erano liberi da occupazioni pratiche. [...]

           10    E lo scopo per cui noi ora facciamo questo ragionamento è di mostrare che col nome di sapienza [sophía] tutti intendono la ricerca delle cause prime e dei princípi. Ed è per questo che, come si è detto sopra, chi ha esperienza è ritenuto piú sapiente di chi possiede soltanto una qualunque conoscenza sensibile: chi ha l’arte piú di chi ha esperienza, chi dirige piú del manovale e le scienze teoretiche piú delle pratiche.

           11    [982a] È evidente, dunque, che la sapienza [sophía] è una scienza [epistéme] che riguarda certi princípi e certe cause.

           12    Ora, poiché noi ricerchiamo proprio questa scienza, dovremo esaminare di quali cause e di quali princípi sia scienza la sapienza. E forse questo diventerà chiaro, se si considereranno le concezioni che abbiamo del sapiente [sophós]. Noi riteniamo, in primo luogo, che il sapiente conosca tutte le cose, per quanto ciò è possibile: non evidentemente che egli abbia scienza di ciascuna cosa singolarmente considerata. Inoltre, reputiamo sapiente chi è capace di conoscere le cose difficili o non facilmente comprensibili per l’uomo (infatti la conoscenza sensibile è comune a tutti, e, pertanto, è facile e non è affatto sapienza). Ancora, reputiamo che, in ciascuna scienza, sia piú sapiente chi possiede maggiore conoscenza delle cause e chi è piú capace di insegnarle ad altri. Riteniamo anche, che, tra le scienze, sia in maggior grado sapienza quella che è scelta per sé al puro fine di sapere, rispetto a quella che è scelta in vista dei benefici che da essa derivano. E riteniamo che sia in maggior grado sapienza la scienza che è gerarchicamente sopraordinata rispetto a quella che è subordinata: infatti, il sapiente non deve essere comandato ma deve comandare, né egli deve ubbidire ad altri, ma a lui deve ubbidire chi è meno sapiente.

           13    Di tale natura e di tal numero sono, dunque, le concezioni generalmente condivise intorno alla sapienza e intorno ai sapienti. Ora, il primo di questi caratteri – il conoscere ogni cosa – deve necessariamente appartenere soprattutto a chi possiede la scienza dell’universale: costui, infatti, sa, sotto un certo rispetto, tutte le cose <particolari, in quanto queste sono> soggette <all’universale>. E le cose piú universali sono, appunto, le piú difficili da conoscere per gli uomini: sono, infatti, le piú lontane dalle apprensioni sensibili. E le piú esatte fra le scienze sono quelle soprattutto che vertono intorno ai primi princípi: infatti, le scienze che presuppongono un minor numero di princípi sono piú esatte di quelle che presuppongono, altresí, l’aggiunta <di ulteriori princípi>, come ad esempio l’aritmetica rispetto alla geometria. Ma è anche maggiormente capace di insegnare, la scienza che maggiormente indaga le cause: infatti, insegnano coloro che dicono quali sono le cause di ciascuna cosa. Inoltre, il sapere ed il conoscere che hanno come fine il sapere e il conoscere medesimi, si trovano soprattutto nella scienza di ciò che è in massimo grado conoscibile: infatti, colui che desidera la scienza per se medesima, desidera soprattutto quella che è scienza in massimo grado, e tale è, appunto, la scienza di ciò che è in massimo grado conoscibile. [982b] Ora, conoscibili in massimo grado sono i primi princípi e le cause; infatti, mediante essi e muovendo da essi si conoscono tutte le altre cose, mentre, viceversa, essi non si conoscono mediante le cose che sono loro soggette. E la piú elevata delle scienze, quella che piú deve comandare sulle dipendenti, è la scienza che conosce il fine per cui vien fatta ogni cosa; e il fine, in ogni cosa, è il bene, e, in generale, nella natura tutta, il fine è il sommo bene.

           14    Da tutto ciò che si è detto, dunque, risulta che il nome che è oggetto della nostra indagine si riferisce ad una unica e medesima scienza: essa deve speculare intorno ai princípi primi e alle cause: infatti, anche il bene e il fine delle cose è una causa.

           15    Che, poi, essa non tenda a realizzare qualcosa, risulta chiaramente anche dalle affermazioni di coloro che per primi hanno coltivato filosofia. Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà piú semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della Luna e quelli del Sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall’ignoranza, è evidente che ricercano il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica. E il modo stesso in cui si sono svolti i fatti lo dimostra: quando già c’era pressoché tutto ciò che necessitava alla vita ed anche all’agiatezza ed al benessere, allora si incominciò a ricercare questa forma di conoscenza. È evidente, dunque, che noi non la ricerchiamo per nessun vantaggio che sia estraneo ad essa; e, anzi, è evidente che, come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito ad altri, cosí questa sola, tra tutte le altre scienze, la diciamo libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa.

           16    Per questo, anche, a ragione si potrebbe pensare che il possesso di essa non sia proprio dell’uomo; infatti, per molti aspetti la natura degli uomini è schiava, e perciò Simonide dice che “Dio solo può avere un tale privilegio”, e che non è conveniente che l’uomo ricerchi se non una scienza a lui adeguata. E se i poeti dicessero il vero, e se la divinità fosse veramente invidiosa, è logico che se ne dovrebbero vedere gli effetti soprattutto in questo caso, e che dovrebbero essere sventurati tutti quelli che eccellono nel sapere. [983a] In realtà, non è possibile che la divinità sia invidiosa, ma, come afferma il proverbio, i poeti dicono molte bugie; né bisogna pensare che esista altra scienza piú degna di onore. Essa, infatti, fra tutte, è la piú divina e la piú degna di onore. Ma una scienza può essere divina solo in questi due sensi: (a) o perché essa è scienza che Dio possiede in grado supremo, (b) o, anche, perché essa ha come oggetto le cose divine. Ora, solo la sapienza possiede ambedue questi caratteri: infatti, è convinzione a tutti comune che Dio sia una causa e un principio, e, anche, che Dio, o esclusivamente o in grado supremo, abbia questo tipo di scienza. Tutte le altre scienze saranno piú necessarie di questa, ma nessuna sarà superiore.

           17    D’altra parte, il possesso di questa scienza deve porci in uno stato contrario a quello in cui eravamo all’inizio delle ricerche. Infatti, come abbiamo detto, tutti cominciano dal meravigliarsi che le cose stiano in un determinato modo: cosí, ad esempio, di fronte alle marionette che si muovono da sé nelle rappresentazioni, o di fronte alle rivoluzioni del Sole o alle incommensurabilità della diagonale al lato: infatti, a tutti coloro che non hanno ancora conosciuto la causa, fa meraviglia che fra l’una e l’altro non vi sia una unità minima di misura comune. Invece, bisogna pervenire allo stato di animo contrario, il quale è anche il migliore, secondo quanto dice il proverbio. E cosí avviene, appunto, per restare agli esempi fatti, una volta che si sia imparato: di nulla un geometra si meraviglierebbe di piú che se la diagonale fosse commensurabile al lato.

           18    Si è detto, dunque, quale sia la natura della scienza ricercata, e quale sia lo scopo che la nostra ricerca e l’intera trattazione devono raggiungere.

(Aristotele, Metafisica, Rusconi, Milano, 19942, pagg. 3-15)