Se il
linguaggio ordinario non è l’“ultima parola”, esso è però la “prima” e serve egregiamente nei casi della vita,
molti dei quali sono difficili e complessi.
J. L. Austin, A plea for Excuses [Una
richiesta di scuse]
Sicuramente, il linguaggio ordinario non pretende di essere l’ultima parola, se mai questo possa darsi. Certo, esso incorpora qualcosa di meglio che la metafisica dell’età della pietra, e cioè, come si è detto, l’esperienza e l’acume di molte generazioni di uomini. Ma questo acume si è principalmente esercitato sugli affari pratici della vita. Se una distinzione lavora bene per gli scopi pratici della vita ordinaria (e ciò non è piccola faccenda, poiché la vita ordinaria è piena di casi difficili), allora si può esser ben sicuri di trovare qualcosa in essa e non è possibile che essa non indichi nulla: benché è ben comprensibile che questa non sia la migliore maniera di sistemare le cose se i nostri interessi sono piú vasti o intellettuali di quelli ordinari. Inoltre, quella esperienza è derivata solo dalle fonti disponibili all’uomo ordinario nei corso della piú gran parte della storia civilizzata: ma non è stata arricchita delle risorse del microscopio e dei suoi successori. E bisogna anche aggiungere che superstizioni, errori e fantasie d’ogni genere sono state incorporate nel linguaggio ordinario e talvolta sopravvivono alla prova del piú adatto (solo che, se è cosí, perché non dovremmo scoprirli?). Certo, allora, il linguaggio ordinario non è l’ultima parola: esso, per principio, può venir ovunque completato e migliorato e rimpiazzato. Solo che occorre ricordarsi che: esso è la prima parola.
D. Antiseri, Filosofia analitica, Città
Nuova, Roma, 1975, pagg. 129-130