Riportiamo questo brano dalla celeberrima Destructio destructionis philosophorum, uno scritto polemico nel quale Averroè sottopone a critica serrata le proposizioni dei filosofi e dei teologi del suo tempo (il suo referente principale è Algazali). Il problema in gioco è quello della raggiungibilità della certezza razionale nell'ambito della ricerca scientifica. Allo scetticismo dei filosofi Averroè risponde con la convinzione che riposa nel fatto che l'umana ragione partecipa ed è fondata dalla sapienza divina.
E poiché i teologi concessero che gli opposti sono ugualmente possibili negli enti e che così sono presso l'agente ed ognuno degli opposti viene determinato dalla volontà dell'agente, e non già che la sua volontà sia in un continuo processo, o sempre o per lo più, ecco che le contraddizioni che i teologi trovano necessarie (negli altri) sono necessarie anche per essi[1]. Infatti la scienza certa è conoscenza della cosa in ciò che essa ha in sé; e allora non essendovi negli enti se non la sede dei due opposti, sia dalla parte del ricevente che da quella dell'agente, non vi è affatto qui scienza fissa della cosa, neppure a colpo d'occhio, avendo noi posto l'agente come imperante sugli enti al modo di un re tirannico che possiede sovranità assoluta, di fronte al quale non vi è opposizione nel regno, né legge che lo regoli, né consuetudine, e le sue azioni sono necessariamente conosciute per loro natura; e quando ha luogo una sua azione, se questa durerà o no è cosa per sua natura sconosciuta[2]. (...)
E la nostra ignoranza sui possibili ha luogo solo perché noi ignoriamo tale natura che attribuisce ad essi l'esistenza o la privazione. Poiché se negli enti gli opposti fossero uguali per se stessi e per le cause agenti, seguirebbe di necessità che in essi dovrebbero trovarsi la non-esistenza e la non-privazione oppure l'esistenza e la privazione insieme; ed ecco che si rende necessario che uno dei due opposti sia preponderante verso l'esistenza. E la scienza dipende dall'esistenza di tale natura. Questa è che rende necessario che uno dei due opposti consegua l'esistenza; e la scienza che vi è collegata o è scienza che lo precede; ed è la scienza che lo ha causato, la quale è scienza antica; o è la scienza che lo segue; ed è scienza non antica. E la scienza dell'occulto non è che aver notizia di tale natura. Ed il pervenire alla scienza di ciò di cui non abbiamo una guida che ci conduce ad esso è ciò che la gente chiama opinione e nei profeti profezia. E la vita e la volontà e la scienza eterna che rendono necessaria negli enti questa natura è ciò il cui significato espose il Lodato quando disse: "Non vi è scienza dell'occulto che è nei cieli e nella terra se non in Dio"[3].
(Averroè, "La distruzione della distruzione dei filosofi", D, XVII, 1)
[1] Il problema concreto di cui si discute è quello della certezza del conoscere o, se vogliamo, in termini più moderni, dell'evidenza: il referente polemico di Averroè sono i teologi ortodossi islamici che tendono a negare la possibilità di raggiungerla, Qui Averroè fa osservare che se la certezza non si può raggiungere, questo principio si ritorce anche su chi lo propone e quindi i teologi, nel caso concreto, non possono ad esempio, affermare che una cosa e il suo opposto sono ugualmente possibili nella realtà,
[2] Arriva qui la spiegazione dell'affermazione precedente: la realtà è solo il luogo in cui si verifica la presenza degli opposti, non gli opposti stessi, Ma dato che scienza è conoscenza della cosa in se stessa, allora degli opposti non abbiamo scienza,
[3] Ecco la soluzione sapienziale del problema proposta da Averroè: la certezza, negata dai teologi, è resa trasparente dalla autorità di Dio che se ne fa garante, Un unico principio conoscitivo, accomuna così l'uomo e Dio: ciò che in questo è sapienza piena che si partecipa, in quello è sapienza temporale partecipata,