Ayer, Metafisica e senso comune

Alfred Jules Ayer (1910) durante un soggiorno nella capitale austriaca nel 1932 entrò in contato con il neopositivismo del Circolo di Vienna. Nel suo primo scritto, Language, Truth and Logic (“Linguaggio, Verità e Logica”, 1936), sostiene i principali temi neopositivistici, anche se con grande attenzione alle questioni etiche e religiose. Successivamente affronta le questioni tipiche dell’empirismo inglese (i dati sensibili, la conoscenza del mondo esterno, ecc.) risentendo anche dell’influenza del secondo Wittgenstein. Nella pagina che proponiamo alla lettura (tratta da un saggio del 1996) Ayer vuol mantenere le distanze dalla metafisica, secondo la tradizione del neopositivismo, dell’empirismo e del primo Wittgenstein, ma prendere l distanze non significa rifiuto totale e in blocco: certamente la metafisica non svolge nessuna funzione conoscitiva e nemmeno è in grado di autogiustificare la propria esistenza; ma può svolgere comunque una funzione positiva come correttivo di certe difese strenue del “linguaggio comune” (come il linguaggio comune è correttivo “ai voli piú spericolati della metafisica”).

 

A. J. Ayer, Metaphysics  and Common Sense (1966)

 

È diventata una moda, di recente, affermare in difesa della metafisica che essa, sebbene non ci procuri conoscenza, nel senso di stabilire proposizioni vere, può tuttavia procurarci penetrazioni apprezzabili. Non è comunque molto facile da vedere che cosa tali penetrazioni possano essere, o perché siano apprezzabili, se non sono esprimibili come verità. Ciò che si intende, forse, è che è illuminante essere messi in grado di considerare il mondo in una maniera radicalmente diversa da quella a cui siamo abituati, e io sono d’accordo su ciò, ammesso che si possa mostrare esistente la maniera alternativa di considerare il mondo. Ma questa è una riserva ampia e non conosco un sistema metafisico in cui sia adeguatamente soddisfatta. Anche stando cosí le cose, non ne deriva che la fatica di coloro che hanno costruito tali sistemi sia stata interamente sprecata per niente. A mio modo di vedere il servizio principale che ci rendono è di indurci a considerare criticamente lo sfondo teoretico delle operazioni della scienza e del senso comune. Sono sollevati problemi ardui circa la relazione di soggetto e predicato, o il funzionamento dei termini generali, o lo stato delle entità astratte, o il significato della necessità, o la divisibilità infinita dell’estensione spaziale e temporale, o il dualismo di mente e materia, o a proposito della nostra giustificazione per attribuire esperienze alle altre persone o per credere nell’esistenza degli oggetti esterni. Eccetto il raro caso in cui il problema ha una portata scientifica, la soluzione di questi enigmi non aumenta la nostra capacità di controllare il nostro ambiente, o di predire il corso futuro degli eventi, ma c’è un senso in cui essa può accrescere la nostra comprensione del mondo, aprendoci gli occhi sulle implicazioni teoriche dei modi in cui noi lo descriviamo. Io non ho alcuna ricetta sovrana per risolvere, o dissolvere, gli enigmi filosofici, ma in alcuni casi, almeno, penso che la soluzione può prendere la forma “metafisica” di mostrare che qualche classe di entità è eliminabile, o che il carttere di qualche concetto, o serie di concetti, è stato inteso erroneamente, o che qualche concetto potrebbe, con vantaggio, venire definito piú rigorosamente o modificato in qualche maniera.

Il fatto che si possano sollevare problemi esterni ci induce anche a tollerare asserzioni metafisiche come quella che siamo noi a introdurre il tempo nel mondo. L’implicazione è che la realtà è condizionata dal nostro modo di descriverla e che sta a noi decidere quale metodo impiegare, cosicché in un certo senso noi non scopriamo propriamente, ma determiniamo come il mondo è. Anche qui, tuttavia, non dobbiamo parlare di metodi alternativi di descrizione, dobbiamo accertarci che esistano, ed è arduo vedere come ci potrebbe essere una descrizione intelligibile del mondo che non includesse la categoria di tempo. Non va inoltre dimenticato che quando parliamo di noi stessi come facenti questo o quello, stiamo già operando all’interno di un sistema concettuale. Poiché, che cosa siamo noi, se non corpi fisici che occupano una posizione nello spazio e nel tempo? Ma, fino a che stiamo operando entro un sistema concettuale, siamo legati ai suoi criteri di realtà; e allora dire che introduciamo il tempo nel mondo è dire che capitò niente prima della comparsa degli uomini sulla Terra, il che è completamente falso, proprio come è completamente falso, se uno sta operando entro un sistema che pone la condizione degli oggetti fisici, dire che questi non esistono quando non sono percepiti.

Ciò che il metafisico gradirebbe fare è di assumere una posizione al di fuori di un sistema concettuale: ma ciò non è possibile. Il massimo che e gli può sperare di ottenere è qualche modificazione del prevalente orientamento generale; trovare un modo, per esempio, di eliminare i termini singolari o forse anche escogitare di rappresentare se stesso e le cose attorno a sé come costruzioni logiche a partire dalle loro apparenze. Ma se tale avventura deve essere comprensibile, e sia pur soltanto di interesse teorico, essa deve avere almeno una corrispondenza grossolana con il  modo in cui esse sono ordinariamente concepite. Cosí se un filosofo vuol riuscire non soltanto a coinvolgerci in enigmi logici o semantici o epistemologici, ma nel cambiare o nell’affinare la nostra visione del mondo, egli non può lasciare dietro di sé il senso comune.

Questo non significa tuttavia, che egli debba vincolarsi strettamente alle sue domande. L’insistenza sul fatto che il linguaggio ordinario è perfettamente a posto è stata un correttivo assai utile ai voli piú spericolati della speculazione metafisica, ma, se presa troppo letteralmente, può portare al nostro lasciare andare cose che potrebbero essere poste in questione e a mobilitarci in difesa di ciò che non bisognerebbe difendere. È certo meglio ordinare le pietre miliari lungo la strada principale dell’uso ordinario che parlare con grande entusiasmo della nullità o dell’essenza dell’uomo; ma sarebbe un errore concettuale rinunciare alle specie piú ricche di immaginazione dell’esplorazione concettuale, puramente a causa del maggior rischio di perdersi. In filosofia niente dovrebbe essere assolutamente sacrosanto: neppure il senso comune.

 

Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol. XXVIII, pagg. 305-307