Coloro che non presero parte alla vita pubblica sotto la dittatura sono anche coloro che si sono rifiutati di appoggiarla in quanto evitarono quelle sedi di "responsabilità" dove un appoggio del genere viene richiesto facendo appello all'ubbidienza. E basta che ci soffermiamo anche solo per un attimo ad immaginare cosa sarebbe accaduto di questo tipo di regime se un numero sufficiente di persone avesse agito in questo modo "irresponsabile" e rifiutato l'appoggio, anche senza fare resistenza attiva o una rivolta, per capire quale arma efficace potrebbe essere questa. Si tratta in realtà di una delle tante varianti dell'azione non violenta, di forme di resistenza che sono state scoperte nel nostro secolo.
Dunque la ragione per cui riteniamo responsabili delle loro azioni questi criminali, che non erano né bambini né schiavi ma uomini cresciuti, sta nel fatto che in politica e in morale non esiste qualcosa come l'ubbidienza. L'unica sfera in cui questa parola potrebbe forse trovare un'applicazione è la religione, ossia la sfera in cui gli uomini dicono di ubbidire alla parola o al comandamento di Dio, perché la relazione tra Dio e uomo può essere considerata come il rapporto tra un adulto e un bambino.
Di conseguenza, a coloro che collaborarono e ubbidirono agli ordini non si dovrebbe chiedere mai "perché hai ubbidito?" bensì "perché hai dato il tuo sostegno?". Chi conosce l'influenza che alcune semplici "parole" esercitano sulla mente dell'uomo, che è prima di tutto un essere parlante, sa che questo mutamento dei termini della domanda non è un puro gioco semantico, assolutamente irrilevante. Sarebbe già una grande conquista se potessimo cancellare dal vocabolario del nostro pensiero morale e politico l'orribile parola "ubbidienza". Se riuscissimo a pensare fino in fondo questi problemi, potremmo recuperare persino una certa dose di fiducia in noi stessi e forse anche di orgoglio - quella cosa che le epoche precedenti hanno chiamato dignità o onore, forse non dell'umanità, ma certamente dell'uomo.
(da "La responsabilità personale sotto la dittatura", in Micro Mega [1991/4] 185-206, qui 206)