Barth pone con chiarezza quello che sarà il cuore
di tutta la teologia dialettica, l’Evangelo non può essere paragonato a nulla
di ciò che l’uomo ha elaborato come sua religione. Esso mette in crisi tutte le
forze umane e le religioni dell’uomo. La sua alterità è radicale.
K. Barth, L’Epistola ai Romani
Poiché io
non mi vergogno dell’Evangelo. Perché esso è la potenza di Dio per la salvezza
di ognuno che crede, per il Giudeo anzitutto e anche per il Greco. Poiché la
giustizia di Dio si svela in esso: dalla fedeltà alla fede, come sta scritto:
il giusto vivrà per la mia fedeltà.
“Io non mi vergogno.” L’Evangelo non ha bisogno di cercare né di fuggire il conflitto delle religioni e delle visioni del mondo. Come annunzio della limitazione del mondo conosciuto per opera di un altro, sconosciuto, esso è fuori concorso nei confronti di tutti i tentativi di scoprire e rendere accessibili, nell’interno del mondo conosciuto, zone di esistenza piú elevate, relativamente sconosciute. Esso non è una verità accanto ad altre verità, esso pone in questione tutte le verità. Esso è il cardine, non la porta. Chi lo comprende in quanto impegnato nella lotta per il tutto, per l’esistenza, è liberato da ogni lotta. Non vi è apologetica, non vi è preoccupazione per la vittoria dell’Evangelo. In quanto è la negazione e la fondazione di ogni dato, esso è la vittoria che piega il mondo. Esso non ha bisogno di essere patrocinato e sostenuto, anzi, difende e sostiene coloro che lo ascoltano e lo annunziano. Per la causa dell’Evangelo non è necessaria la venuta di Paolo in Roma, agitata da tutti gli spiriti, come è certo che in virtú dell’Evangelo egli può venire e verrà fiducioso e senza vergogna. Noi saremmo inutili a Dio, Dio dovrebbe vergognarsi di noi, se non fosse Dio – in ogni caso non il contrario.
L’Evangelo della risurrezione è “potenza di Dio.” Esso è la sua “virtus” (Vulgata), la rivelazione e la conoscenza della sua importanza, la dimostrazione della sua eccellenza sopra tutti gli dèi. Esso è l’azione, il miracolo dei miracoli, in cui Dio si dà a conoscere come quello che è, cioè come il Dio sconosciuto che abita in una luce inaccessibile, il Santo, il Creatore, il Redentore. “Quello che voi avete adorato senza conoscerlo, io ve l’annunzio!” (Atti 17:23). Tutte divinità che rimangono al di qua della linea segnata dalla risurrezione, che abitano in templi fatti d’opera di mano, e che sono serviti da mani d’uomini, tutte le divinità che hanno “bisogno di qualcuno” cioè dell’uomo che pensa di conoscerle (Atti 17:24-25), non sono Dio. Dio è il Dio sconosciuto. Come tale egli dà a tutti la vita, il fiato e ogni cosa. Perciò la sua potenza non è né una forza naturale né una forza dell’anima, né alcuna delle piú alte o altissime forze che noi conosciamo o che potremmo eventualmente conoscere, né la suprema di esse, né la loro somma, né la loro fonte, ma la crisi di tutte le forze, il totalmente Altro, commisurate al quale esse sono qualche cosa e nulla, nulla e qualche cosa, il loro primo motore e la loro ultima quiete, l’origine che tutte le annulla, il fine che tutte le fonda. Pura ed eccelsa sta la forza di Dio, non accanto e non “soprannaturalmente” sopra, ma al di là di tutte le forze condizionate-condizionanti, né deve essere scambiata con esse né messa in linea con esse, né senza estrema cautela può essere confrontata con esse. La potenza di Dio, che stabilisce Gesú come Cristo (1:4) è nel senso piú stretto presupposizione, libera di ogni contenuto tangibile. Essa avviene nello Spirito e vuole essere conosciuta nello Spirito. Essa è autosufficiente, incondizionata e in sé vera. Essa è l’assolutamente nuovo che nella riflessione dell’uomo intorno a Dio diventa un fattore decisivo, cardinale. Tra Paolo e i suoi uditori e lettori, si tratta appunto della proclamazione e dell’accettazione di questo messaggio. A questo messaggio si riferisce tutta la dottrina, la morale, il culto della comunità di Cristo; tutto ciò non è altro che il cratere, non vuole essere altro che lo spazio vuoto, in cui il messaggio presenta se stesso. La comunità di Cristo non conosce parole, opere, cose sacre in sé, conosce soltanto parole, opere, cose che come negazioni rinviano al Santo. Se tutto quello che è cristiano non venisse riferito all’Evangelo, non sarebbe altro che un prodotto secondario umano, un pericoloso residuo religioso, un deplorevole equivoco, fintanto almeno che volesse essere invece di spazio vuoto, contenuto, invece di concavo, convesso, invece di negativo, positivo, invece di espressione di indigenza e di speranza, espressione di un essere e avere. Se mirasse a questo, se ponesse al posto di Cristo il cristianesimo, se pervenisse a un trattato di pace o anche solo a un modus vivendi con la realtà del mondo in sé rivolgentesi al di qua della linea della risurrezione, non avrebbe piú niente da fare con la potenza di Dio. Il cosiddetto Evangelo, in questo caso non sarebbe fuori concorso, ma sarebbe gravemente impegnato nella ressa delle religioni del mondo e delle visioni del mondo. Poiché nel soddisfare bisogni religiosi, nel produrre efficaci illusioni sulla nostra conoscenza di Dio e particolarmente sulla nostra vita con lui, il mondo se n’intende certo meglio di un cristianesimo che si fraintende. Vi sarebbe allora ogni motivo di vergognarsi dell’“evangelo”. Ma Paolo pensa alla potenza del Dio sconosciuto: “Quel che nessun occhio ha veduto, nessun orecchio ha udito, e non è salito in cuor d’uomo.” Perciò egli non si vergogna dell’Evangelo.
K. Barth, L’Epistola ai Romani,
Feltrinelli, Milano, 1989, pagg. 11-13