Adriano Bausola è professore ordinario di filosofia
teoretica nell’Università Cattolica di Milano. Nella pagina che segue è messa
bene in evidenza la complessità del fenomeno libertà; quello che preme evidenziare
è come il piano filosofico, l’esigenza di una chiarezza tutta razionale (alla
quale Agostino teneva moltissimo), entri in conflitto con il piano piú
squisitamente religioso. Agostino filosofo cristiano non ha dubbi: di fronte
alla scelta tra fede e ragione sceglie la fede.
Il problema del libero arbitrio – oltre che per gli
autori indicati da Bausola – è fondamentale anche per Lutero, già monaco
agostiniano, autore di un De servo arbitrio in polemica con il
filosofo umanista Erasmo da Rotterdam.
Agostino affronta il
problema della libertà nel De libero arbitrio, una delle sue opere
filosofiche piú significative. Agostino l’aveva scritta per far luce sulle vere
ragioni che lo avevano portato, pochi anni prima, a un completo abbandono del
manicheismo; e il manicheismo, con la sua tendenziale negazione della libertà,
in effetti giace come sullo sfondo del dialogo (composto in un lungo arco di
tempo e completato nel 395, a Ippona, quando Agostino era già vescovo), da dove
giustifica l’insistenza dell’autore nel sottolineare [...] i motivi morali e
religiosi che gli imponevano di credere nella libertà dell’uomo. A
sospingere Agostino in questa direzione era soprattutto il fermo convincimento
che, senza una reale autonomia da Dio, noi non saremmo propriamente responsabili
del male che compiamo né meritevoli del premio promessoci da Cristo: non
potremmo cioè peccare, volendolo, né salvarci con pieno merito; e ciò
toglierebbe credibilità alla Parola. Quanto al problema della prescienza
divina, Agostino si limitava a osservare, sempre nel De libero arbitrio,
che il sapere ab aeterno se un uomo si salverà, o se sarà dannato, non
priva ancora l’individuo della sua libertà di iniziativa, infatti Dio nei
nostri confronti si atteggia costantemente a Spettatore, non funge da Attore:
vede ab aeterno come noi ci comporteremo e ab aeterno giudica i
nostri atti, senza tuttavia costringerci a un corso di azione piuttosto che a
un altro.
Le conclusioni del De
libero arbitrio erano rassicuranti per la fede, però non conservarono a
lungo il loro valore agli occhi di Agostino, che non lesinava gli sforzi, nel
tentativo di capire sempre piú a fondo la natura del messaggio cristiano. Dopo
il 395, il vescovo di Ippona riscoprí – tra gli altri – l’apostolo Paolo; e i
testi paolini gli schiusero nuovi orizzonti. Riflettendo su quelle pagine, egli
a poco a poco comprese che un’eccessiva esaltazione dell’uomo va a discapito
dell’importanza di Cristo, e ne rende quasi superfluo il sacrificio. Tutto
considerato, incominciava a chiedersi Agostino, se non è per grazia ricevuta
che noi possiamo salvarci, perché mai il Verbo si sarebbe fatto carne e sarebbe
morto per i nostri peccati? A che cosa è servita la Croce, se noi ci procuriamo
la salvezza in virtú dei nostri meriti? E una creatura immersa nel peccato,
potrebbe mai trovarsi in una situazione del genere, potrebbe mai acquistare
meriti sufficienti dinanzi a Dio?
A rendere ancora piú
incisive le sue riflessioni provvide poi la filosofia neoplatonica. Essa
indicava nell’Uno non soltanto il principio ontologico per eccellenza, ma la
stessa luce che illumina il mondo e, contemporaneamente, il Sommo Bene che
ordina a sé ogni cosa; e Agostino, che aveva cristianizzato ormai da tempo le
idee dei neoplatonici, dopo il 395 ricavò da esse nuove implicazioni. In
particolare, ora egli giunse a intravedere in Dio anche la ragione prima e
unica del nostro tendere verso il bene, della nostra capacità di operare
con spirito di giustizia, in definitiva, dell’impulso interiore che ci conduce
alla salvezza; e la libertà dell’uomo, a questo punto, dovette proprio
sembrargli, oltreché un ostacolo, un’illusione. Poteva davvero sussistere, in
fondo, la libertà di arbitrio, in un universo neoplatonicamente incentrato su
Dio, principio motore e allo stesso tempo causa finale del tutto?
Deciso ad andare alla
radice del problema, Agostino non ebbe tentennamenti: non si spaventò davanti
alla “durezza” della risposta che gli veniva suggerita da Paolo, e rivelò con
decisione, anzi con nettezza sempre maggiore man mano che trascorrevano gli
anni, il carattere gratuito e soprannaturale della grazia (a partire,
appunto, dal De diversis quaestionibus ad Simplicianum).
Contemporaneamente, egli si impegnò in una vigorosa polemica contro i seguaci
di Pelagio, sostenitori della tesi opposta, e la battaglia combattuta contro di
loro non ebbe certo poco peso nel determinare l’esito finale della sua
speculazione.
Secondo Pelagio, Dio aiuta
l’uomo, ma solo nel senso che in Cristo rende noto ciò che tutti debbono fare
per salvarsi; invece, la decisione di ottemperare ai decreti divini pertiene al
singolo, come al singolo spetta di scegliere la fede o la miscredenza, sicché
la responsabilità di una eventuale perdizione ricade esclusivamente su di noi,
non coinvolge Dio: Dio è del tutto innocente. Ma Agostino la pensava in
modo diverso, e contro Pelagio ribadí che, dopo la caduta di Adamo, senza un
intervento della grazia l’uomo non consegue la fede e non si incammina, in
essa, verso la vita eterna. Per di piú, egli aggiunse, la penetrazione
dell’Onnipotente in noi segue una strategia imperscrutabile e misteriosa
che sollecita e sostiene con infinita misericordia la nostra volontà, senza
tener conto della stessa né dei meriti acquisiti in precedenza.
Se, e in qual misura,
questo dono gratuito possa comportare per l’uomo un’effettiva perdita di
libertà, è questione controversa e di difficile soluzione; non la si affronterà
qui. Serve però ricordare che Agostino non uscí del tutto vincitore dalla
contesa. Infatti, dopo alterne vicende i pelagiani furono finalmente condannati
da papa Zosimo, nel 418: tuttavia il vescovo di Ippona venne quasi subito
accusato, a sua volta, di aver sottolineato con troppa foga l’intervento della
grazia, a danno della nostra libertà; e gli si fece inoltre carico di aver
contraddetto, con ciò, la tradizione dei Padri della Chiesa.
Invertitisi i ruoli, ora
era Agostino a doversi difendere. Non esitò a lungo, e nel breve volgere di tre
anni scrisse il De correptione et gratia (426 o 427), il De
praedestinatione sanctorum e il De dono perseverantiae (429),
cerando con i suoi ultimi due lavori di rispondere, in particolare, alle
obiezioni di Cassiano, del monastero di San Vittore, in Marsiglia. Questi
sosteneva che la grazia, pur se indispensabile per compiere il bene, a volte
segue a ricompensa della nostra buona volontà, e non predestina affatto.
Agostino non era d’accordo; a suo giudizio ciò costituiva anzi un errore: meno
grave di quello pelagiano, eppure non molto distante da esso e parimenti
pericoloso, poiché tendeva a conciliare l’inconciliabile (l’autonomia umana con
la radicale decisività del sacrificio compiuto da Cristo). Pertanto, nelle sue
repliche, il vescovo di Ippona fu drastico: radicalizzò le tesi sostenute in
precedenza e introdusse espressioni, già presenti nel De correptione et
gratia, che, secondo alcuni, costituiscono una conferma (e sono una
giustificazione) della lettura deterministica della teologia agostiniana poi
tentata da Thomas Bradwardine (1290 ca-1349), Calvino (1509-1564) e Giansenio
(1595-1638). Secondo altri, invece, tali affermazioni risultano solo accentuazioni
polemiche, infelici, certo, ma non cosí gravi da escludere la possibile
conciliazione di grazia e libertà in una superiore prospettiva religiosa:
quella per cui la grazia libera l’uomo dal peccato agendo sulla sua volontà
con soavità e leggerezza, senza dispotismi e prescindendo da qualsiasi forma di
coazione (cfr. per quest’ultima interpretazione, in particolare, De
correptione et gratia, c. VIII, sez. 17).
(A. Bausola, La libertà,
Editrice La Scuola, Brescia, 19862, pagg. 84-86)