Nel 1713 George Berkeley scrive i
Tre dialoghi tra
Hylas e Philonous, nei quali difende la propria dottrina
dell’immaterialismo. I protagonisti del dialogo sostengono il punto di vista
del materialismo (Hylas, dal greco hýle, “materia”) e
dell’immaterialismo (Philonous, dal greco phílos, “amante”, e noús,
“mente”, e dunque “amante della mente”). Dal Terzo Dialogo proponiamo la pagina
in cui Philonous sostiene che la dottrina dell’immaterialismo può risultare
utile sia in campo teologico sia in campo fisico e matematico.
G. Berkeley, Dialoghi fra Hylas
e Philonous, Dialogo III
Philonous - Quando uno inclina, senza
sapere perché, verso uno dei partiti della questione, credete voi possa esser
altro che l’effetto del pregiudizio, che non manca mai di accompagnare i
concetti vecchi e radicati? E difatti a questo riguardo io non posso negare che
la credenza nella materia si avvantaggia di molto sull’opinione contraria
presso gli uomini di educazione dotta.
Hylas - Confesso che sembra essere
come dite voi.
Philonous - Come contrappeso a questo peso
del pregiudizio, gettiamo sul piatto i grandi vantaggi che sorgono dalla
credenza dell’immaterialismo, sia riguardo alla religione sia riguardo
all’umano sapere. L’esistenza di un Dio e l’incorruttibilità dell’anima, questi
grandi articoli della religione, non sono essi provati con la piú chiara e piú
immediata evidenza? Quando dico l’esistenza di un Dio, io non intendo
una oscura causa generale delle cose della quale non abbiamo nessuna
concezione, ma Dio nel senso stretto e proprio della parola. Un essere la cui
spiritualità, onnipresenza, provvidenza, onniscienza, infinita potenza e bontà,
sono cosí cospicue come l’esistenza delle cose sensibili, di cui (nonostante le
fallaci pretese e gli affettati scrupoli degli scettici) non c’è piú
ragione di dubitare che del nostro stesso essere. Poi, in relazione alle
scienze umane: nella filosofia naturale, in quali complicazioni, in quali
oscurità, in quali contraddizioni ha menato gli uomini la credenza nella
materia! Per non dir niente delle innumerevoli dispute sulla sua estensione,
continuità, omogeneità, gravità, divisibilità, etc., non pretendono di spiegare
tutte le cose con corpi operanti su corpi, secondo le leggi del moto? Eppure,
sono essi capaci di comprendere come un corpo ne muova un altro? Anzi,
ammettendo che non ci sia nessuna difficoltà a conciliare la nozione di un
essere inerte con una causa; o a concepire come un accidente possa passare da
un corpo ad un altro; pur con tutti i loro pensieri sforzati e le loro
supposizioni stravaganti, sono stati essi capaci di ottenere la produzione
meccanica di un corpo animale o vegetale? Possono essi, con le leggi del moto,
spiegare le ragioni dei suoni, sapori, odori, o colori, o del corso regolare
delle cose? Hanno essi spiegato con i princípi fisici l’attitudine e
l’invenzione anche delle parti meno considerevoli dell’Universo? Invece,
lasciando da parte la materia e le cause corporee, e ammettendo solo
l’efficienza di una mente perfettissima, non sono tutti gli effetti di Natura
facili e intelligibili? Se i fenomeni non sono niente altro che idee, Dio è uno
spirito, ma la materia è un essere inintelligente e non percipiente. Se
i fenomeni dimostrano un potere illimitato della loro causa, Dio è attivo e
onnipotente, ma la materia è una massa inerte. Se l’ordine, la regolarità e
l’utilità dei fenomeni non saranno mai ammirati abbastanza, Dio è infinitamente
saggio e provvidente, ma la materia è destituita di ogni invenzione e disegno.
Questi certamente sono grandi vantaggi in fisica. Per non menzionare che
la concezione di una Deità lontana dispone naturalmente gli uomini a una
negligenza nelle loro azioni morali, nelle quali sarebbero piú cauti nel
caso che Lo pensassero immediatamente presente, e agente su le loro menti senza
la interposizione della materia o di cause seconde non pensanti. Poi in metafisica:
quali difficoltà su l’entità in astratto, le forme sostanziali, le nature
plastiche, la sostanza e l’accidente, il principio di individuazione, la
possibilità che la materia pensi, l’origine delle idee, la maniera in cui due
sostanze indipendenti, tanto differenti come lo spirito e la materia,
operino reciprocamente l’uno sull’altro? A quali difficoltà, dico, e infinite
disquisizioni su questi e innumerevoli altri punti simili, noi sfuggiamo
supponendo solo spiriti e idee? Perfino le matematiche, se togliamo via
l’esistenza assoluta delle cose estese, diventano assai piú chiare e facili:
ché i paradossi piú urtanti e le speculazioni piú intricate di codeste scienze
dipendono dalla divisibilità infinita di una estensione finita, la quale
divisibilità infinita dipende da quella supposizione.
(Grande Antologia Filosofica,
Marzorati, Milano, 1968, vol. XIII, pagg. 743-744)