Per
Maurice Blondel (1861-1949) l’uomo si sente circondato da misteri e sente un
grande desiderio di comprendere. “Fra quello che so, quello che voglio e quello
che faccio c’è sempre una sproporzione inesplicabile e sconcertante”. Ma
l’azione è una mia necessità; essa è inevitabile.
M. Blondel, L’azione, trad. it. a c. di
R. Crippa, La Scuola, Brescia, 1970, pagg. 3-10
Si o no? Ha o non ha un senso la vita umana? E l’uomo ha un destino? Agisco, ma, senza sapere che cosa sia l’azione, senza aver desiderato di venire al mondo, non so chi sono e nemmeno se sono. Eppure mi si dice che quest’apparenza di essere che si agita in me, che queste lievi e fugaci azioni di un’ombra implichino una responsabilità che peserà in eterno e che nemmeno a prezzo del sangue potrò comperare il nulla, poiché per me il nulla non è piú: sono condannato alla vita, condannato alla morte, condannato all’eternità. Ma come e con quale diritto, se non l’ho né saputo né voluto?
Voglio vederci chiaro. Se c’è qualcosa da vedere, debbo vederla. Saprò forse se questo fantasma che sono a me stesso – con questo universo che porto nello sguardo, con la scienza e la sua magia, con il sogno strano della coscienza, – possiede oppure no una sua consistenza. Scoprirò senza dubbio ciò che si cela nei miei atti, in quelle profondità estreme dove, senza di me, mio malgrado, subisco l’essere e a esso mi aggrappo. Saprò se del presente e dell’avvenire, quali che siano, possiedo una conoscenza e una volontà che mi consentano di non sentirvi mai tirannia alcuna.
Il problema è inevitabile, l’uomo lo risolve inevitabilmente e la soluzione, giusta o falsa, ma volontaria e insieme necessaria, ognuno la porta nelle sue azioni. Per questo bisogna studiare l’azione il significato stesso del termine e la ricchezza del suo contenuto si dispiegheranno a poco a poco. È bene prospettare all’uomo tutte le esigenze della vita, tutta l’occulta pienezza delle sue opere, perché in lui si consolidi, con la forza di affermare e di credere, il coraggio di agire.
[...] Non mi rimarrà almeno la speranza di condurmi, volendo, in piena luce e di governarmi secondo le mie idee? No. La pratica non tollera indugi, non consente mai un’assoluta chiarezza, non essendo possibile un’analisi completa a un pensiero finito. Ogni regola di vita unicamente fondata su una teoria filosofica e su principi astratti sarebbe temeraria: non posso rimandare l’azione fino al raggiungimento dell’evidenza e ogni evidenza che riluce alla mente è sempre parziale. Una pura conoscenza non basta mai a farci muovere, perché non ci impegna nella nostra totalità in ogni atto c’è un atto di fede. Potrò fare almeno quello che ho deciso di fare, qualunque cosa sia, nel modo deciso? No. Fra quello che so, quello che voglio e quello che faccio, c’è sempre una sproporzione inesplicabile e sconcertante. Le mie decisioni vanno spesso oltre i miei pensieri e i miei atti oltre le mie intenzioni. Ora non faccio ciò che voglio, ora, quasi a mia insaputa, faccio quello che non voglio. E tali azioni da me non completamente previste e non interamente ordinate, una volta compiute, pesano su tutta la mia vita e agiscono su di me, si direbbe, piú di quanto io stesso non abbia agito su di esse. Mi trovo quasi a essere loro prigioniero: talvolta mi si rivoltano contro, come un figlio ribelle contro il padre. Hanno fissato il passato e già incidono l’avvenire.
[...] Non si ripeterà mai abbastanza: nessuna difficoltà di fatto, nessun dubbio speculativo possono legittimamente sottrarre chicchessia a questo metodo pratico che, sin dall’inizio, sono obbligato e deciso ad applicare.
Mi si chiedono testa e cuore e braccia. Sono pronto; sperimentiamo. L’azione è una necessità; agirò. L’azione m’appare spesso come un obbligo; obbedirò. Tanto peggio se è illusione, pregiudizio ereditario, residuo di educazione cristiana: ho bisogno di una verifica personale e verificherò a ogni costo. Nessun altro può fare questo controllo al mio posto; si tratta di me e della mia totalità; nell’azione metto me stesso e il mio tutto. Possiedo solo me stesso; le vere prove, le vere certezze sono quelle che non si comunicano. Viviamo soli moriamo soli e gli altri non possono farci nulla.
Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991,
vol. I, pagg. 756-758