Bonaventura
riassume in queste pagine del Breviloquium la sua concezione circa il rapporto fra l’uomo,
l’universo e Dio, nota come dottrina dell’esemplarismo. Essa è di chiara
ispirazione francescana oltre che agostiniana.
Breviloquium, Parte II, cap. XII
1. Da tutte le cose predette si può
concludere che il mondo, creatura di Dio, è come un certo libro, in cui riluce,
si rappresenta e si legge la Trinità che ne è la fattrice [in quo relucet,
repraesentatur et legitur Trinitas fabricatrix] secondo un triplice grado
di espressione, cioè per modo di vestigio, di immagine e di similitudine: cosí
che la ragione di vestigio si trova in tutte le creature, la ragione di
immagine nelle sole creature intellettuali, la ragione di similitudine nelle
sole creature deiformi; da ciò, come da tanti gradi scalari, l’intelletto umano
è indotto gradatamente ad ascendere verso il sommo principio che è Dio.
2. La ragione poi per cui noi intendiamo queste
cose è che, avendo tutte le creature riferimento al loro Creatore e dipendenza
da esso, ad esso possono venir paragonate o come a principio creativo, o come
oggetto motivo, o come dono inabitativo. Sotto il primo aspetto viene riferito
a Dio ogni suo effetto, sotto il secondo aspetto viene riferito ogni
intelletto, sotto il terzo aspetto ogni spirito che sia giusto e accetto a Dio.
Pertanto ogni effetto per quanto poco abbia di essere, ha Dio come principio.
Ogni intelletto per poco che abbia di luce, è atto per mezzo della luce e
dell'amore a capire Dio. Infine ogni spirito giusto e santo ha infuso in sé il
dono dello Spirito Santo.
3. E poiché la creatura non può avere Dio come
principio, se non è configurata ad esso secondo l'unità, la verità e la bontà;
né Dio secondo l'obbietto, se non lo capisce per mezzo della memoria,
dell'intelligenza e della volontà; né Dio come dono infuso se essa non è
configurata a Lui per mezzo della fede della speranza e dell'amore come
triplice dote; e avendosi cosí tre conformità: lontana da Dio la prima,
propinqua la seconda e prossima la terza, ne deriva che la prima si chiama
vestigio della Trinità, la seconda immagine e la terza similitudine.
4. Lo spirito razionale poi è in mezzo tra la
prima ed ultima conformità, cosí che lo spirito inferiore tiene la prima
conformità; lo spirito di mezzo tiene la seconda, lo spirito superiore tiene la
terza. Pertanto nello stato di innocenza, quando l’immagine non era viziata
bensí fatta deiforme per opera della grazia, bastava il Libro della creatura
perché l’uomo potesse esercitare se stesso alla visione del lume della divina
sapienza; essendo egli sapiente quando vedesse tutte le cose in sé, nel proprio
genere e infine nell’arte (divina), a seconda che le cose posseggano
l’essere, cioè nella materia o natura propria, nell’intelligenza creata e
nell’arte eterna; secondo le tre parole della Scrittura pronunciate da
Dio (Gen. 1, 3 e segg.): fiat, fecit et factum
est.
5. Per la qual triplice visione l’uomo ebbe
un triplice occhio, come dice Ugo di S. Vittore (Libro I de Sacram. p. X
c. 2), della carne, della ragione e della contemplazione: l’occhio della carne
con il quale vedere il mondo e le cose che sono nel mondo; l’occhio della
ragione con il quale vedere l’animo e le cose che sono nell’animo; l’occhio
della contemplazione con il quale vedere Iddio e le cose che sono in Dio. Cosí
con l’occhio della carne l’uomo poteva vedere le cose che sono al di fuori di
lui; con l’occhio della ragione le cose che sono entro di lui; con l’occhio della
contemplazione le cose che sono al di sopra di Lui. L’atto poi di quest’occhio
contemplativo, che non è perfetto se non nella gloria, si smarrisce a causa
della colpa, viene ricuperato mediante la grazia e la fede e l’intelligenza
delle Scritture, con le quali la mente umana è purgata illuminata
perfezionata in ordine alla contemplazione delle cose celesti; alle quali cose
l’uomo decaduto non può giungere se prima non riconosca i difetti e le tenebre
proprie; il che egli trascura di fare ove non considerasse e prestasse
attenzione alla rovina dell’umana natura.
(Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1966, vol. IV,
pagg. 869-870)