Dopo la Conferenza di Woods
Hole (1959) Jerome Seymour Bruner diventò negli Stati Uniti uno dei
protagonisti del nuovo indirizzo educativo tendente a riformare metodi e
programmi scolastici. In questo saggio, pubblicato nel 1961, Bruner compie una
rilettura critica dei princípi contenuti ne Il mio credo pedagogico di
John Dewey e sostiene la necessità di andare al di là di una concezione
educativa che, come l’attivismo, privilegia gli interessi immediati e
l’esperienza di vita del fanciullo. La scuola oggi non deve limitarsi ad
assicurare una continuità con la vita, ma deve introdurre nuovi orizzonti di
esperienza e nuovi traguardi, per favorire lo sviluppo delle potenzialità
intellettuali di ogni individuo. A questo scopo Bruner propone nella scuola
l’apprendimento delle “strutture” o “idee organizzatrici” interne a ogni
materia, che costituiscono un efficace mezzo per ampliare e soprattutto a
organizzare le conoscenze dello studente.
J. S. Bruner, Dopo Dewey
L’ottimismo di J. Dewey
Nel 1897, all’età di 38 anni, il filosofo ed educatore americano John Dewey (1859-1952) pubblicò uno scritto sensazionale e profetico dal titolo: Il mio credo pedagogico, che conteneva alcune fondamentali idee dell’autore, sviluppate poi in un secondo tempo.
Siamo di fronte a cinque atti di fede. Il primo riguarda il processo educativo e afferma:
“Tutta l’educazione si svolge nel senso di una progressiva partecipazione dell’individuo alla coscienza sociale della sua gente. Questo processo ha inizio, inconsapevolmente, presso che dalla nascita e plasma di continuo le capacità dell’individuo, offre contenuti alla sua coscienza, forma le sue abitudini, esercita la sua capacità ideativa e ne desta i sentimenti”.
Un secondo articolo di fede precisa il concetto che il Dewey aveva della scuola:
“Poiché l’educazione è un processo sociale, la scuola è semplicemente una forma di vita comunitaria in cui si accentuano tutti i fattori particolarmente atti a rendere il fanciullo partecipe delle risorse ereditate dalla sua gente e a metterlo in grado di servirsi delle sue capacità per fini sociali. Pertanto l’educazione è essa stessa vita, e non già preparazione alla vita futura”.
In un terzo “credo” Dewey parla dell’oggetto dell’educazione:
“La vita sociale del fanciullo è il principio unificatore di tutta la sua educazione o del suo sviluppo. La vita sociale conferisce un’inconsapevole unità ed uno sfondo ad ogni suo sforzo e ad ogni sua iniziativa... Il vero centro [dell’apprendimento]... non è nella scienza o nella letteratura, o nella storia, o nella geografia, ma nelle attività sociali del fanciullo”.
In un quarto articolo trova espressione la concezione del Dewey sul metodo educativo:
“La legge che indica come debbano essere presentati e svolti i contenuti dell’insegnamento è quella implicita nella natura stessa del fanciullo”. Per il Dewey, la legge educativa era nell’azione: “L’attività precede la passività nello sviluppo della natura del fanciullo. Io credo che la consapevolezza sia essenzialmente motricità e impulso, che la vita cosciente aspiri a concretarsi in azione”.
E finalmente ecco la quinta convinzione del Dewey:
“L’educazione è il metodo fondamentale di ogni progresso e di ogni riforma sociale”.
Oggi leggiamo questo documento con contrastanti sentimenti. L’ottimismo che l’informa, nella sua negazione dell’aspetto tragico della vita, è tipicamente americano. Vi è la definizione della verità, secondo la tesi pragmatista, come risultato di una indagine sulle conseguenze dell’azione; e vi si esprime una ferma fiducia non solo nella capacità dell’individuo di svilupparsi, ma, altresí, in una società capace di formare l’uomo nel migliore dei modi. Le ultime righe di questo credo dicono: “Ogni maestro dovrebbe sentire la dignità della sua vocazione: al servizio della società, è suo compito conservarla nell’ordine giusto ed assi curarne un ordinato sviluppo. In questo senso ogni maestro è sempre profeta del vero Dio, e introduce al regno dei cieli”.
Tuttavia, queste stesse espressioni di sicurezza e di equilibrio, e cioè l’ottimismo, il pragmatismo, la fiducia in un armonico rapporto tra l’uomo e la società, ci lasciano assai perplessi. In questi ultimi due terzi di secolo, dal 1897 ad oggi, vi sono stati profondi cambiamenti non solo nella nostra concezione della natura, ma anche in quella della società e del complesso delle istituzioni sociali; e, fatto forse piú importante, noi abbiamo sperimentato una rivoluzione nei nostri convincimenti sulla natura dell’uomo, sulla sua intelligenza, sulle sue possibilità, passioni e forme di sviluppo.
Il pensiero del Dewey non era certo insensibile ai mutamenti, nonostante le limitazioni poste dalle sue premesse filosofiche. Ma, dall’epoca della prima formulazione dei princìpi del Dewey ai giorni nostri, una serie di dottrine rivoluzionarie e di avvenimenti catastrofici è venuta a trasformare lo spirito stesso della ricerca. Le due guerre mondiali, il nefasto avvento di Hitler e del genocidio, la rivoluzione russa, le nuove concezioni rivoluzionarie relativistiche, in fisica e in psicologia, l’era dell’energia atomica con la sua nuova tecnologia, l’amaro predominio delle filosofie scettiche: sono tutti avvenimenti che costringono a ripensare i princìpi in base ai quali costruire una filosofia della educazione.
Premesse ad un esame dei
princìpi ottimisti del Dewey
Riesaminiamo perciò codesti princìpi guidati da ciò che oggi sappiamo sul mondo e sulla natura umana.
Sarà però anzitutto opportuno prevenire la possibilità di alcuni fraintendimenti per i quali c’è largo campo in una impresa come questa. Chi scrive ha sempre presenti le esperienze del proprio tempo, ed il Dewey aveva dinanzi a sé, nel 1890, lo spettacolo di un metodo educativo sterile e rigido, incapace di tenere adeguatamente conto della natura del fanciullo. L’entusiasmo con il quale il Dewey considerò l’importanza dell’esperienza diretta e della azione sociale, fu una critica implicita al vuoto formalismo di un’educazione che tanto poco si preoccupava di porsi in rapporto con il mondo dell’esperienza infantile. Dewey ha fatto molto per promuovere una riforma; ma ogni eccesso può mutarsi in difetto e noi, oggi, dobbiamo appunto riconsiderare l’educazione tenendo presente che un tale eccesso c’è stato nell’applicazione dei princìpi del Dewey, che furono spesso mal interpretati o seguiti con una aderenza pratica d’ordine sentimentale, che egli stesso deplorava. “Dopo l’accidia e il torpore intellettuale, dopo il formalismo e la routine, egli scriveva nel suo Credo, la nostra educazione non potrebbe essere minacciata da un nemico peggiore del sentimentalismo”.
Il culto sentimentale dei “progetti di classe”, dei “corsi di adattamento alla vita”, il timore di esporre il fanciullo a pericolosi sbalzi dovuti al diretto intervento dell’uomo e della natura turbando cosí il piacevole regno della sua esperienza, il concetto dolciastro di “tempo giusto”: sono tutte idee sulla fanciullezza, che spesso non hanno alcuna base nell’esperienza e che vengono giustificate in nome del Dewey. Egli fu certo di grande aiuto per la vita del suo tempo. Ma, che cosa è valido per il nostro tempo, in che termini dobbiamo esprimere il nostro credo?
L’educazione tende a sviluppare la sensibilità e la forza della mente. Il suo compito è duplice: da un lato essa trasmette all’individuo una parte del sapere, dei costumi e dei valori, accumulati nel tempo, che costituiscono la cultura di un popolo; ed in tal modo forma gli impulsi la coscienza, ed uno stile di vita negli individui. D’altro lato, l’educazione deve contribuire allo sviluppo dei processi intellettivi e far sí che l’individuo sia capace di procedere al di là delle forme culturali del mondo a cui appartiene, di essere in grado, cioè, di innovazioni, sia pure modeste, e di crearsi un’interiore cultura personale; e poiché non esistono discipline avulse dall’uomo, si tratti di scienza, d’arte, di storia o di geografia, ogni uomo deve mirare a divenire un artista, uno scienziato un letterato, uno storico o un navigatore. Ma a nessuno è possibile giungere al possesso di tutto lo scibile: è, questa, se mai, una prerogativa di ciò che potrebbe definirsi una “memoria sociale”, e che noi denominiamo cultura. Ogni uomo rivive solo un frammento di questa cultura; la sua “interezza ” consiste piuttosto nel crearsi una visione propria del mondo, movendosi da quella parte della sua eredità culturale della quale si è impadronito in virtú dell’istruzione.
Ma vi è da tener presente che oggi le scoperte della tecnica gravano pesantemente sulla libertà dell’individuo di crearsi una visione del mondo capace di soddisfare le sue piú profonde esigenze, mentre la nostra epoca ha assistito al sorgere delle ideologie che subordinano l’individuo ai fini specifici di una società: e si tratta di una forma di condizionamento priva, molte volte, di ogni comprensione per le tendenze personali, cosí da giudicare positivamente solo il contributo strumentale dell’individuo al progresso sociale. Nonostante questo condizionamento, la comprensione che l’uomo ha di se stesso e del suo mondo, naturale e sociale, si è venuta approfondendo, al punto da giustificare per la nostra epoca la denominazione di epoca d’oro dell’intelletto. Il futuro ci richiede ogni nostro impegno affinché questa piú profonda comprensione sia utile non soltanto al progresso della società, ma altresí a quello dell’individuo.
Anche il Dewey, e sono passati molti anni, affermò che l’educazione nasce dalla partecipazione dell’individuo alla coscienza sociale della sua gente: è una verità; ma si tratta di una verità a doppio taglio, poiché ogni istruzione, buona o cattiva, nasce in tal modo. Per fare un solo esempio, noi sappiamo oggi fino a che punto il linguaggio che ciascuno si trova a dover parlare condizioni e foggi lo stile e la struttura del suo pensiero e della sua esperienza; e sappiamo che gli stessi processi cogitativi non sono altro che una riproduzione interiore di rapporti sociali, un colloquio interiore che si svolge sullo schema di dialoghi avvenuti precedentemente nel mondo esterno. Ed è in ciò che si fonda la possibilità stessa dell’educazione. Ma perciò stesso l’educazione nel dar forma ed espressione alla nostra esperienza, può anche costituire la principale fonte di limiti intellettuali. Perciò, dato che il senso delle alternative è appunto quello di costituire una garanzia contro tali limiti, l’educazione non deve soltanto trasmettere una cultura, ma deve anche portare a contatto con visioni del mondo diverse da quella cultura, e spingere l’individuo ad esplorarle. [...]
Secondo il Dewey, che concludeva cosí il suo primo articolo di fede, l’educazione deve partire da “un’introspezione psicologica delle capacità, degli interessi e delle abitudini del fanciullo”; ma un punto di partenza non è un itinerario. Sacrificare l’adulto al fanciullo non è errore diverso da quello di sacrificare il fanciullo all’adulto; ed è pia illusione o vuoto sentimentalismo ritenere che l’insegnamento a vivere possa essere sempre adattato agli interessi del fanciullo, cosí come è un vuoto formalismo sforzare il fanciullo a ripetere pedissequamente le formule della società degli adulti. D’altronde, poiché è possibile creare e destare interessi nel fanciullo, ed in questo ambito si può ben dire che l’offerta crea la domanda e che la sfida costituita dalla raggiungibilità di un fine suscita la risposta, si debbono fornire al fanciullo mezzi piú prensili, piú efficaci, piú sottili, per aiutarlo a conoscere il mondo e se stesso.
La scuola è l’ingresso nella vita della ragione. È, certamente, vita essa stessa, e non mera preparazione alla vita; tuttavia è uno speciale tipo di vita, accuratamente programmato al fine di sfruttare al massimo quegli anni ricchi di possibilità formative che caratterizzano lo sviluppo dell’homo sapiens e che distinguono la specie umana dalle altre. La scuola non dovrebbe, quindi, limitarsi ad assicurare una semplice continuità con la società che l’attornia o con l’esperienza quotidiana. Essa è quella particolare comunità in cui si fa l’esperienza di scoprire le cose usando l’intelligenza ed in cui ci si introduce in nuovi e mai immaginati campi di esperienze; di un’esperienza che non ha rapporto di continuità con quella precedente, come accade allorché, per la prima volta, si comprende un poema o la bellezza, la forza e la semplicità implicite nell’idea dei teoremi sulla conservazione dell’energia; nell’idea, cioè, che nulla si distrugge ma tutto si trasforma, e che si tratta di una legge universalmente applicabile. Se v’è poi una esigenza di continuità con l’esperienza quotidiana nel processo educativo, questa consiste soprattutto nel convertire la fiducia del fanciullo nell’onnipotenza del pensiero, nella fiducia realistica di potersi servire del pensiero al modo degli uomini di azione.
Insistendo sul carattere di continuità che la scuola ha da un lato con la società e dall’altro con la famiglia, John Dewey sottovalutò la speciale funzione dell’istruzione come introduttrice a nuove prospettive. Infatti, se la scuola fosse soltanto una zona di passaggio dalla intimità della famiglia alla vita sociale, il suo compito sarebbe assai semplice: in proposito potrebbe essere molto interessante richiamarsi ai sistemi educativi delle società primitive, dove già era ben noto come la pubertà sia un momento di profonda trasformazione, contraddistinto da un “rite de passage” avente l’effetto di delimitare un rigido confine tra le forme di vita dell’infanzia e quelle della fanciullezza.
Ma sarebbe un romantico controsenso pretendere di foggiare i nostri sistemi sull’esempio di quelli di società precivili: il richiamo intende soltanto essere un invito a fissare l’attenzione su talune affinità che quelle culture offrono con la nostra: l’educazione stabilisce una precisa distinzione tra il fanciullo e l’adulto, e riconosce che il passaggio all’età matura richiede una introduzione a nuovi campi di esperienza, la scoperta e l’esplorazione di nuovi misteri e la conquista di nuove forme. È qui che l’educazione diviene attraente ed incontra la sua ricompensa. [...]
Le idee organizzatrici
dell’esperienza nell’economia del processo d’apprendimento
Ora, tale sapere è una costruzione esemplare che ha il fine di dare un significato a motivi costanti incontrati nella esperienza e di inserirli in una “struttura”. Le idee organizzatrici di un qualsiasi insieme di conoscenze sono scoperte che mirano a connettere e semplificare l’esperienza: in fisica si è scoperta l’idea di forza, in chimica quella di combinazione, in psicologia l’idea di motivazione, in letteratura quella di stile, al fine, sempre, di avere strumenti di comprensione. La storia della cultura è la storia dello sviluppo delle grandi idee organizzative o strutturali, idee che inevitabilmente derivano da giudizi e da ipotesi sempre piú profondi sull’uomo e sulla natura.
L’efficacia delle grandi idee organizzatrici non consiste soltanto nell’aiutarci a comprendere, e talvolta a prefigurarci o a modificare il mondo in cui viviamo, ma anche nel fornirci gli strumenti per l’esperienza. Cresciuti in un mondo culturale dominato dalle idee di Newton, fra le quali v’è l’idea del tempo che scorre con moto uniforme, noi abbiamo esperienza del tempo come di una freccia moventesi inesorabilmente ed uniformemente secondo un’unica direzione; invero, noi sappiamo ora, dopo un quarto di secolo di ricerche sulla percezione, che l’esperienza non ci giunge diretta e limpida, ma arriva a noi filtrata dalle precostituite disposizioni dei nostri sensi. Tali disposizioni sono fatte dalle nostre attese, e queste, a loro volta, derivano dalle nostre idee su ciò che esiste e su ciò che si ritiene debba accadere nel futuro.
Da tutto ciò possono derivare due convinzioni. La prima è che la, struttura della conoscenza, e cioè la sua connessione e le derivazioni che fanno scaturire un’idea dall’altra, è ciò che va sottolineato nell’educazione. È infatti tale struttura, costituita dalle grandi scoperte concettuali che portano ordine nelle osservazioni sconnesse, a dar significato a ciò che possiamo imparare ed a rendere possibile il dischiudersi di nuovi regni dell’esperienza.
La seconda convinzione è che l’unità del conoscere va ricercata nella conoscenza stessa, se questa è degna di essere denominata. Cercare la giustificazione di un argomento di studio, cosí come ha fatto il Dewey, sulla base del suo rapporto con l’attività sociale del fanciullo, significa fraintendere che cosa sia il conoscere e come questo possa essere denominato. In matematica, ad esempio, il significato del concetto di “commutatività” non deriva certo dalla intuizione sociale per cui due case abitate da 14 persone ciascuna non corrispondono a 14 case con due persone ciascuna; esso è, invece, implicito nel potere di un’idea di generare una maniera di pensare i numeri con uno stile, una bellezza, una ricchezza pratica: un’idea non meno intensa, ad esempio, del futuro condizionale nella grammatica formale. Senza i1 concetto di commutatività, l’algebra non sarebbe possibile. Se la teoria delle serie, che costituisce sovente la parte introduttiva dei piú recenti corsi di matematica, dovesse essere giustificata in termini di relazione con l’esperienza immediata e con la vita sociale, non varrebbe la pena di insegnarla; eppure, la teoria delle serie pone alla comprensione dell’ordine e del numero un fondamento che non potrebbe mai essere raggiunto con l’aritmetica sociale, quella dei ratei di interesse e delle balle di fieno a tanto la balla. La matematica, al pari di qualsiasi altra disciplina, deve cominciare con l’esperienza: ma il progresso verso 1’astrazione richiede assolutamente un continuo allontanamento dalle ovvietà dell’esperienza superficiale.
Occorre perciò soffermarsi sulla preminente esigenza di una economia massima nel processo d’apprendimento e stabilire intanto che non sarebbe possibile “dominare” interamente una materia neanche con una vita intera, se dominare significa prendere in considerazione tutti i fatti, tutti gli eventi, insomma ogni particolare. Al contrario, una materia presentata in modo da porre in luce la sua struttura logica avrà una forza generativa che permetterà all’individuo di ricostruire i particolari, o per lo meno gli consentirà di preparare uno schema funzionale dove i particolari potranno essere sistemati via via che si incontreranno.
I contenuti dell’apprendimento
Che cosa dire allora della concezione convenzionale delle materie d’insegnamento? La risposta alla domanda “che cosa dobbiamo insegnare?” non sarà diversa da quella che potrà essere data alla domanda “Che cosa non è senza valore?”. Se si potrà rispondere alla domanda “Che cosa è degno di conoscenza?”, non sarà difficile distinguere tra ciò che vale e ciò che non vale la pena di insegnare e di imparare. La conoscenza del mondo naturale, della condizione umana, della natura e del dinamismo, della società, la conoscenza del passato come fonte di esperienza per il presente e per il futuro, sono conoscenze, per certo, che sembrano essenziali per un uomo istruito. A queste conoscenze essenziali, si dovrà aggiungere la conoscenza delle opere d’arte piú significative per la storia dell’estetica, motivi di meraviglia o di continuo spirituale godimento.
A questo punto sorge però il problema riguardante il linguaggio simbolico nei cui termini si conosce e si esprime ciò che si sa.
Esiste un linguaggio naturale ed un linguaggio matematico. E non è possibile ammettere che fra un centinaio d’anni una persona colta non debba riuscire ad usare correttamente l’uno e l’altro linguaggio, in quanto si tratta di strumenti essenziali per dischiudere nuove esperienze e acquisire nuove capacità. Si tratta quindi di insegnamenti a cui deve essere assegnato un posto preminente in ogni corso di studi.
Infine, è vero per noi come lo era per il Dewey, che è impossibile prefigurarci il mondo in cui vivranno i fanciulli che noi educhiamo, e che, quindi, solo una mente ben formata ed il senso di poter dominare il sapere, sono i veri strumenti che noi possiamo dare loro e che resteranno validi qualsiasi trasformazione operino il tempo e le circostanze. Il corso di studi di una scuola ideale occorre perciò sia determinato ad un solo fine: a qualsiasi cosa lo studente sia indirizzato, si deve far in modo che egli la approfondisca abbastanza per ricavarne il senso che il potere mentale si accresce con l’approfondimento della conoscenza. È questa, piú di ogni altra, la maggiore garanzia di sicurezza per il futuro.
Il processo educativo ed il fine a cui mira sono la stessa cosa: il fine dell’istruzione è il sapere organizzato, e tale è anche il processo educativo.
Possiamo intanto stabilire che l’opposto della capacità di comprendere non è l’ignoranza o semplicemente la “non conoscenza”. Per comprendere qualcosa, anzitutto, occorre rinunciare a seguire vie disparate.
Rimanendo incerti tra una concezione ed un’altra che sembra migliore, si cade sovente nella confusione. Ed è un fatto legato alla nostra costituzione biologica che dalla confusione nasce l’angoscia, e che questa angoscia ci costringe ad assumere posizioni di difesa – all’evasione o alla ribellione o all’indifferenza – che sono in netta antitesi con il libero e vivo impiego della mente. L’attività mentale, del fanciullo come dell’adulto, può sopportare solo una limitata quantità di informazioni, poiché la nostra “apertura”, come si suol dire, non può abbracciare contemporaneamente piú di sei o sette cognizioni irrelate; diversamente, si crea sovraccarico, confusione, amnesia. [...]
Contenuti, strutture e metodo
d’apprendimento
Il grado in cui il materiale dell’apprendimento è tradotto in termini strutturali da chi apprende, determinerà se costui sta lavorando oro o scorie. Per questa ragione, come per altre a cui si è già accennato, è necessario che, prima di essere posto di fronte a nozioni su nozioni in ordine ad un argomento, il fanciullo abbia anzitutto una idea generale sul modo con cui la materia possa essere riordinata e del sistema in cui possa essere collocata.
Avviene sovente che la intuizione dell’idea generale si appoggi dapprima ad una serie di esperienze e di esemplificazioni concrete strettamente collegate con la vita del fanciullo. Il ciclo d’apprendimento ha inizio con il particolare e l’immediato, procede verso l’astrazione, e giunge ad una meta provvisoria allorché l’astrazione può venire impiegata per impadronirsi di nuove nozioni con quella particolare profondità che essa consente.
Nei limiti del possibile, qualsiasi modo di insegnamento deve proporsi il fine di offrire ad ogni fanciullo la possibilità di apprendere da solo. Impartire nozioni ai fanciulli per poi esaminarli su ciò che è stato detto loro ha l’inevitabile effetto di renderli passivi e pronti a dimenticare ogni insegnamento, quando sia cessato lo scopo, estrinseco ad ogni processo educativo, di appagare l’insegnante, di superare gli esami, di inorgoglirsi artificiosamente. Mentre i mezzi per incoraggiare lo studio sono di diverso duplice ordine: in primo luogo, il fanciullo deve impadronirsi di ciò che apprende ed inserirlo nell’interiore mondo culturale che si viene creando per sé; la scoperta ed il senso di confidenza che ne derivano, ugualmente importanti, costituiscono poi le vere ricompense dell’apprendimento: e sono ricompense che, per di piú, rafforzano il processo stesso su cui si fonda l’educazione, a cui è connaturata una disciplinata ricerca.
Il fanciullo deve essere incoraggiato a trarre i maggiori benefici da ciò che impara. Questo non vuol dire che egli possa applicare subito il suo sapere nella vita quotidiana, anche se ciò può essere auspicabile; ma piuttosto che egli deve divenire sensibile alla connessione sistematica propria del conoscere, cosí che due fatti uniti in un rapporto siano da lui considerati come un invito a generalizzare, ad estrapolare, a spingersi oltre l’intuizione sino ad abbozzare le prime sistemazioni teoriche.
Il passaggio dal mero apprendimento all’uso logico di ciò che si è appreso rappresenta un passo essenziale verso la maturità intellettuale. Tirare ad indovinare su una base di plausibilità, servirsi di un’ipotesi euristica, impiegare nel modo migliore una dimostrazione necessaria incompleta: queste sono, invero, le attività nelle quali il fanciullo ha bisogno di essere esercitato e guidato perché sono tra i piú efficaci antitodi contro la passività.
Di fondamentale importanza è liberare il processo educativo dalla disonestà intellettuale e dall’espedientismo a cui si ricorre per spiegare e non far comprendere.
Altrove io ho espresso la convinzione che si può insegnare in forma onesta qualsiasi argomento a chiunque, in qualsivoglia età. Non è onesto, però, presentare ad alunni di una quinta classe di studi storici una immagine di Cristoforo Colombo non diversa da quella del tipico adolescente americano che, nelle ore libere dalla scuola, discorre con il suo fratello Bart di ciò che c’è al di là dei mari, anche se ciò consente di collegare l’insegnamento alle piú immediate esperienze del fanciullo. Una falsità è sempre una falsità anche se ha l’aspetto di una verità familiare. Né è onesto presentare ad alunni di una sesta classe di studi scientifici una approssimativa, pur se concreta rappresentazione dell’atomo, non meno falsa, a suo modo, dell’immagine di Colombo presentata agli alunni nella classe precedente. Una falsa spiegazione può soltanto scoraggiare la ricerca intellettuale autonoma, unica fonte del vero sapere.
Il rapporto scuola e società
oltre l’esperienza immediata
Io credo che l’educazione sia il mezzo fondamentale della trasformazione della società. Persino le rivoluzioni non sono migliori delle idee che impersonificano e dei mezzi che sanno usare per realizzare tali idee.
Viviamo in un’epoca in cui i cambiamenti sono piú rapidi che mai prima nella storia e la diffusione delle notizie ad essi relative pressoché instantanea. Se vogliamo quindi credere seriamente in una scuola che possa essere apprezzata per se stessa, e non quale mera preparazione alla vita, tale scuola deve allora riflettere le trasformazioni che veniamo vivendo.
La prima conseguenza di questa fede è che si debbono trovare i mezzi per alimentare le nostre scuole con le conoscenze sempre piú profonde che si vanno maturando alle frontiere della conoscenza. È verità elementare, questa, per gli studi scientifici e matematici, e di fatto si stanno attualmente intraprendendo continui tentativi per introdurre nelle scuole, elementari e medie, nuovi metodi di conoscenza piú validi, e spesso meno complessi di quelli già in uso. Questo aggiornamento costante deve però estendersi anche a campi del sapere diversi dalle scienze, nei quali le frontiere della conoscenza non sono sempre nelle università o nelle ricerche di laboratorio, ma nella vita politica e sociale, nelle arti, nella creazione letteraria e nelle rapide trasformazioni delle organizzazioni commerciali e industriali. Ovunque il mondo si trasforma e nell’apprendere noi dobbiamo tener conto di ciò.
Io intravedo l’esigenza di una riforma delle strutture scolastiche e di una nuova concezione dei programmi. A tal fine, comincia anzi a rivelarsi opportuna la creazione non di una ma di molte nuove facoltà da denominare “Istituti per lo studio dei programmi scolastici”, dove gli uomini di cultura, gli scienziati, gli uomini di affari, gli artisti si incontrino regolarmente con insegnanti di valore per rivedere e aggiornare i nostri programmi. È un’attività, questa, che trascende i limiti delle singole facoltà universitarie del nostro paese, siano esse facoltà di pedagogia, di lettere, di scienze, di medicina o di ingegneria. Siamo già rimasti troppo a lungo insensibili alla rapidità delle trasformazioni nella vita contemporanea e alle conseguenze che ne derivano per la istruzione. Noi non abbiamo condiviso con gli insegnanti i benefici delle nuove scoperte, delle nuove prospettive aperte alla ricerca, delle nuove conquiste raggiunte sul piano dell’arte. Non soltanto noi abbiamo operato sinora con la concezione della classe isolata e autosufficiente, ma altresí con quella del singolo istituto scolastico isolato ed autosufficiente. Ed anzi, l’intero sistema scolastico è stato sino ad oggi considerato come una organizzazione autonoma. [...]
Conclusione
Come concluderemo dunque? Forse sarà bene richiamarci ancora al Credo di Dewey per stabilire un raffronto tra le sue e le nostre convinzioni: l’educazione non è semplicemente trasmissione di cultura, ma è anzitutto formazione di un potere e di una sensibilità mentale che consentano a ciascuno di procedere da solo alla ricerca e di costruirsi una personale cultura interiore. La scuola è la via che apre alla vita della ragione, con tutte le conseguenze che ciò implica circa la fiducia nella possibilità di servirsi dei propri poteri mentali al massimo e di verificare ciò che è implicito in quanto si è già appreso.
Fine dell’educazione è la conoscenza del mondo e delle sue leggi, conoscenza che ha una struttura ed una storia che ci consentono di ordinare e definire l’esperienza, e di godere della sorpresa.
Il metodo di insegnamento è quello implicito in ogni attività conoscitiva: esso è uno sforzo ordinato e responsabile verso l’autoapprendimento, uno sforzo per disporre ogni particolare conoscenza in un’ordinata rappresentazione del mondo che rispetti il particolare, ma riconosca altresí che l’astrazione è essenziale per l’intelletto.
Occorre che la scuola, per continuare ad essere alla base del progresso sociale in un’era di cosí rapide trasformazioni, trovi mezzo di ringiovanire e trasformare l’istruzione che offre, introducendo nei suoi programmi le nuove scoperte del nostro tempo. Tutto ciò dipende, alla fin fine, dalla capacità di coltivare e dare espressione ai modelli di perfezione che emergono dalla nostra poliedrica civiltà.
Fini meno ambiziosi di questi non sono all’altezza della sfida che fronteggiamo.
R. Fornaca-R. S. Di Pol, Dalla certezza alla complessità. La pedagogia scientifica del Novecento, Principato, Milano, 1993, pagg. 329-339