Bruner, Sviluppo, cultura ed evoluzione

In questi “Studi” Jerome Seymour Bruner (1915) raccoglie i risultati delle ricerche condotte insieme ai suoi collaboratori del “Centro per gli studi cognitivi” presso l’Università di Harvard. L’interesse di Bruner è rivolto ad analizzare “come gli esseri umani accrescono la loro capacità di realizzare e usare la conoscenza”. Egli si richiama qui alla storia evolutiva dell’uomo per concludere che l’evoluzione dell’essere umano è dipesa dall’uso di strumenti tecnologici, trasmessi dalla cultura, che costituiscono “amplificatori” delle capacità motorie, sensoriali, intellettuali. Nell’individuo anche la rappresentazione dell’ambiente dipende da tecniche apprese: tecniche di rappresentazione attraverso l’azione, attraverso l’immagine, attraverso i simboli. Lo sviluppo cognitivo dell’uomo, influenzato dalla cultura, può assumere caratteristiche diverse a seconda dei diversi contesti culturali. In queste pagine analizza le differenze tra i processi di apprendimento che si verificano in società “primitive” (in cui si trasmettono tecniche e regole nel contesto dell’azione) e quelli che si verificano nella società “tecnologica” (che si serve di simboli astratti).

 

J. S. Bruner, Studi sullo sviluppo cognitivo

 

In occasione del centesimo anniversario della pubblicazione del libro di Darwin L’origine della specie, Washburn ed Howel (1960) presentarono alla celebrazione centenaria di Chicago uno scritto contenente il seguente passo (pp. 49 s):

 

“Sembrerebbe ora ... che la grande dimensione del cervello di alcuni ominidi sia uno sviluppo relativamente tardo e che il cervello si sia evoluto in forza della nuova pressione selettiva successiva al bipedalismo e conseguente all’uso degli arnesi. L’uso degli arnesi, la vita sul suolo, la vita di caccia crearono il grande cervello umano e non fu l’uomo dal grande cervello a scoprire certi nuovi modi di vita. Crediamo che questa conclusione sia il piú importante risultato delle recenti scoperte degli ominidi fossili e sia una conclusione ricca delle piú ampie implicazioni per l’interpretazione del comportamento umano e delle sue origini... L’importante è che la grandezza del cervello, per quanto può essere misurato in base alle capacità delle scatole craniche si è accresciuta quasi di tre volte in seguito all’uso ed alla costruzione degli arnesi... L’unicità dell’uomo moderno è vista come il risultato di una vita tecnico-sociale che triplicò la grandezza del cervello, ridusse la faccia e modificò molte altre strutture del corpo”.

 

Questa tesi implica che il principale cambiamento dell’uomo in un lungo periodo di anni (forse cinquecentomila) sia stato alloplastico piuttosto che autoplastico. Cioè egli si è trasformato, vincolandosi a nuovi ed esterni sistemi di attrezzature, anziché mediante un notevole cambiamento di morfologia: “evoluzione-per-protesi”, come la chiama Weston La Barre. I sistemi di attrezzature sembra siano stati di tre tipi generali: 1) amplificatori delle capacità motorie umane che vanno dall’arnese per tagliare, passano per la leva e la ruota e giungono alla grande varietà degli arnesi moderni; – 2) amplificatori delle capacità sensorie, che includono gli artifici primitivi come le segnalazioni col fumo e quelli moderni come l’ingrandimento ed il radar, ma anche probabilmente includono quei “software” come i riduttori percettivi convenzionalizzati che possono essere applicati ad un ambiente sensoriamente ridondante; – infine, 3) amplificatori delle capacità raziocinative umane infinitamente vari, che vanno dal linguaggio al mito, alla teoria ed alla spiegazione. Tutte queste forme di amplificazione sono piú o meno convenzionalizzate e trasmesse mediante la cultura; l’ultima di esse è probabilmente la piú notevole, dal momento che gli amplificatori raziocinativi implicano sistemi di simboli governati da regole, che bisogna condividere, per poterli usare.

Ogni sistema di attrezzature, per essere efficace, deve produrre un’adeguata contropartita interna, un’abilità appropriata, necessaria all’organizzazione degli atti sensomotori, per organizzare i percetti e i nostri pensieri in un modo che li renda adeguati alle esigenze dei sistemi di strumenti. Queste abilità interne rappresentate geneticamente come capacità, vengono lentamente selezionate nell’evoluzione. Nel senso piú profondo, perciò, l’uomo può essere descritto come una specie che acquista specializzazione attraverso l’uso di strumenti tecnologici. La sua selezione e la sua sopravvivenza sono dipese da una morfologia e da un insieme di capacità, che potevano essere legate ad artifici alloplastici, che hanno reso possibile la sua successiva evoluzione. Noi ci muoviamo, percepiamo e pensiamo in una maniera che dipende dalle tecniche piuttosto che da collegamenti presenti nel nostro sistema nervoso.

Dove si tratta della rappresentazione dell’ambiente, anch’essa dipende da tecniche apprese; e queste sono precisamente le tecniche che servono ad amplificare i nostri atti motori, le nostre attività raziocinative. Noi conosciamo le ricorrenti regolarità del nostro ambiente e rispondiamo ad esse mediante azioni che hanno un’abilità e seguono uno schema, mediante immagini spazio-qualitative convenzionalizzate, mediante un’organizzazione selettiva delle percezioni e attraverso una codificazione linguistica, che, come hanno notato molti autori, pone un casellario selettivo fra noi e l’ambiente fisico. In breve, le capacità della nostra evoluzione, in quanto usiamo strumenti, sono quelle su cui facciamo affidamento nel compito principale della rappresentazione.

La conseguenza dello sviluppo di un tale sistema rappresentativo, come hanno mostrato psicologi e antropologi, è di rendere possibile una specie di integrazione al di sopra dello spazio e del tempo, che si accosti alle condizioni necessarie per trattare il passato ed il futuro nel presente e per trattare ciò che è distante come se fosse vicino. Come disse Hallowell (1955) nel suo discorso presidenziale all’Associazione Antropologica Americana,

 

“La struttura psicologica che l’ominide sviluppò, è tale che in essa un ruolo di primo piano viene giocato dalle variabili, che intervengono a mediare l’immediatezza degli stimoli rispetto al comportamento palese. Tali variabili includono processi inconsci, come i sogni, ed operazioni coscienti, come il pensare ed il ragionare. “Con ciò le conseguenze remote ed immediate di un’azione imminente sono portate nel presente psicologico in tutta la loro forza, per cosí dire, e sono equilibrate e paragonate” [Mowrer e Ullman, 1945]”.

 

Col tempo in seno alla cultura umana si sviluppano i mezzi tradizionalmente trasmessi, per far sí che queste attività siano apprese piú facilmente e piú efficacemente.

Come nota Peter Medawar (1963), il punto in cui, nell’evoluzione dei primati, ha luogo l’adattamento quasi interamente attraverso lo sviluppo di tecniche piuttosto che attraverso mutamenti di morfologia, è il punto in cui l’evoluzione diviene reversibile e, in senso figurativo, lamarckiana. Per la nostra sopravvivenza dipendiamo dall’ereditarietà di caratteristiche acquisite dal patrimonio culturale anziché dal patrimonio cromosomico. Quindi la cultura diventa lo strumento principale per garantire la sopravvivenza con le sue tecniche di trasmissione, che sono di altissima importanza.

La dipendenza dell’uomo dall’eredità culturale è confermata dagli incidenti assai caratteristici della evoluzione morfologica dell’uomo, che ha prodotto un lungo periodo di iniziale debolezza. Il bipedismo, col suo bisogno di un cinto pelvico piú forte, riduce il canale del parto in un momento dell’evoluzione, in cui cresce la grandezza del cervello. Il compromesso morfologico è un cervello di neonato notevolmente immaturo e con pochi schemi di risposte già pronti. Questa circostanza insieme al chiaro dimorfismo sessuale dà molto tempo e molto potere alla donna per l’allevamento del bambino e una grande opportunità di inserimento in una cultura.

Ciò che una cultura “insegna” e come lo insegna, lo vedremo piú dettagliatamente nelle pagine successive. Ciò che sembra abbastanza chiaro è che la cosa piú caratteristica nelle lezioni impartite, sia rispetto a questioni di valore, sia rispetto a questioni di esistenza o del soggetto stesso, è la loro feconda generalità. Tutto ciò che viene appreso, sembra venir convertito in regole generali applicabili a molte situazioni mai incontrate prima. Quando apprendiamo una cultura, noi apprendiamo delle regole, è chiaro, ed in questo senso siamo ben vicini a quello che è l’apprendimento di un linguaggio. Ovviamente, “comportarsi culturalmente” non è qualcosa che sia “causato” piú dalle “regole” della cultura di quanto il parlare un linguaggio sia “causato” dalle regole grammaticali. Kroeber e Kluckhohn (1952, p. 170) citano una lettera del presente autore diretta alla sezione della loro monografia, la quale tratta della cultura implicita e di quella esplicita:

 

“Il processo mediante il quale viene “acquisita” la cultura implicita dell’individuo (cioè, il modo con cui la persona apprende a rispondere in maniera conforme alle aspettative), è tale che sono intrinsecamente difficili la presa di coscienza e la formulazione verbale. Anche nelle situazioni di laboratorio, dove proponiamo al soggetto il compito di formare concetti complessi, i soggetti cominciano a rispondere coerentemente nei termini di un principio prima che possano verbalizzare (a) che stanno operando su di un principio, o (b) che il principio è cosí e cosí. L’apprendimento di una cultura, giacché gran parte di essa ha luogo prima che gran parte della differenziazione verbale abbia avuto luogo e perché è appresa insieme agli schemi di un linguaggio e come parte del linguaggio, deve trovarsi in difficoltà di consapevolezza. I modi di pensare che sono inerenti ad un linguaggio, sono difficili ad essere analizzati da una persona che parla solo quel linguaggio, dal momento che non c’è un fondamento per discriminare un modo implicito di pensare salvo che paragonandolo con un diverso modo di pensare in un’altra lingua”.

 

Forse occorrerebbe anche notare che la fase “non verbalizzabile” dell’apprendimento concettuale, dell’apprendimento di regole e dell’apprendimento di abilità, costituisce la preparazione della vita motoria, sensoria ed intellettiva al godimento dell’aiuto offerto dal linguaggio; la questione è stata discussa nella sezione precedente. Una volta che ha luogo l’apprendimento, compare il tratto piú caratteristico del comportamento umano: la sua qualità simbolica, mediante la quale sostituiamo parole ed enunciati ad eventi, per avere la possibilità di tentare su di un piano vicariante le nostre operazioni sulla realtà.

Abbiamo anche osservato che l’estensione e la forma di questo sviluppo intellettivo, dal momento che nella sua stessa natura dipendono dall’assistenza di una cultura, varierà come una funzione della cultura. Secondo un concetto classico del relativismo, le culture sono diverse. Tuttavia, per sostenere questa posizione nell’analisi dell’influenza della cultura sullo sviluppo, si è costretti a studiare quale differenza si ha presso coloro che si sviluppano in luoghi diversi, e questa è certo una ricerca da niente al paragone dello studio delle poche e poderose forze plasmatrici che agiscono nella cultura e producono enormi uniformità nello sviluppo e poche cruciali differenze. Si considerino ora alcune di queste differenze.

Recentemente abbiamo avuto occasione di osservare attentamente su di un filmato il gioco di giovani babuini e di fanciulli boscimani Kung in habitat africani simili. Il paragone si estendeva, ovviamente, anche alla nostra cultura. È tipico del gioco del babuino giovane il fatto che è virtualmente tutto interpersonale. I giovani maschi si danno la caccia e fanno finte battaglie fra loro, sviluppando le abilità necessarie per svolgere il ruolo di capo maschio adulto. Le femmine vanno uno po’ a caccia intorno, ma subito si dedicano ai piccoli del gruppo, di cui s’interessano e cercano di prendersi cura. Gli adulti non impartiscono “istruzioni” ed interferiscono solo per stabilire dei limiti generali al comportamento degl’individui giovani. I limiti riguardano cose come il rumore che svela la loro posizione, infatti spesso si vede un maschio piú anziano, che “modera” un grande inseguimento di giovani. Gli adulti guidano anche gruppi di giovani animali verso una posizione adatta in seno al gruppo o in un albero, quando si accosta un predatore. C’è anche uno scambio di cure fra diverse generazioni. Ma nel gruppo di giovani, generalmente, si apprende giocando a coppie e sviluppando abilità che, messe insieme, costituiscono il repertorio di un adulto. L’importante, riguardo a questo gioco dei giovani babuini, è che esercita e sviluppa le abilità che, riorganizzate in uno schema diverso, hanno un posto nella vita degli adulti.

Fra i Boscimani c’è egualmente pochissimo insegnamento; ma ciò che è notevolmente differente, è la quantità di attività che i fanciulli e gli adulti compiono insieme. Il bambino acquista le sue conoscenze dalla diretta interazione con la comunità adulta, sia che si tratti di dire l’età delle tracce lasciata da un’antilope kudu, sia che si tratti di imparare a raddrizzare l’asticella di una freccia, di accendere il fuoco, di scavare un buco, per far venir fuori dell’acqua sorgiva. In migliaia di metri di film non si vede alcun esplicito insegnamento, nel senso di una “seduta” staccata dal contesto dell’azione intesa ad insegnare al fanciullo una cosa particolare. È tutto implicito. Si vedono fanciulli rivaleggiare fra loro nell’imitare ciò a cui hanno partecipato insieme agli adulti, come in una bella scena, in cui i fanciulli Boscimani lanciano freccine agli scarafaggi. L’unica eccezione è il noto insegnamento dei riti in alcune società indigene al tempo dei riti di passaggio. Ma questa cerimonia, dovunque è stata osservata, intende insegnare dei riti, dei canti, dei miti e delle cerimonie, mai delle tecniche (vedi Spindler, 1959). Nella società boscimane, in realtà c’è ben poco di questa specie di istruzione. Ordinariamente si trova che le danze, i giochi ed i riti s’incontrano prima quando il bambino è ancora trasportato dalla madre nella karosse ed è tenuto lí miracolosamente, mentre la madre esegue i passi complicati della danza del centopiedi.

Il campo di studio di gran lunga piú dettagliato del processo di apprendimento dei fanciulli in una società indigena si trova nella monografia del professore Meyer Fortes (1938) dell’Università di Cambridge, Aspetti sociali e psicologici dell’educazione nella terra dei Taltensi. Questa monografia, pubblicata come supplemento alla rivista “Africa”, non si può trovare facilmente, perciò vale la pena di esaminarne qui dettagliatamente il contenuto. Infatti si è colpiti da come certe osservazioni di Fortes corrispondono a quelle di altri, che hanno osservato il processo educativo nelle società indigene. La prima cosa che Fortes nota è di decisiva importanza (pp. 8-9):

 

“Il processo educativo fra i Tallensi e fra molti altri popoli africani di cultura analoga è comprensibile, quando si riconosca che la sfera sociale dell’adulto e del fanciullo è unitaria e indivisa. Nella nostra società i sentimenti; il pensiero e l’azione dei bambini hanno luogo soprattutto in rapporto ad una realtà (a scopi, responsabilità, compulsioni, oggetti materiali, persone e cosí via) che differisce completamente da quella degli adulti, anche se qualche volta coincide con essa. Questa dicotomia non si esprime solo nei nostri costumi; ma affiora anche nelle reazioni psicologiche che notano il passaggio dal mondo infantile a quello adulto, la cosiddetta fase negativa dell’instabilità dell’adolescenza, che è stata ritenuta universale nella nostra società. Essa è sconosciuta nella società dei Tallensi. In questa società sia fra gli adulti che fra i bambini le sfere sociali sono differenziate solo secondo le relative capacità. Tutti partecipano alla stessa cultura; il tipo di vita è lo stesso; ma corrisponde in gradi variabili al livello dello sviluppo fisico e mentale; niente dell’universo del comportamento adulto è nascosto ai fanciulli o è interdetto ad essi. Essi sono attivamente e responsabilmente parti ... del sistema. Da ciò derivano effetti psicologici di fondamentale importanza per l’educazione dei Tallensi. Qui, infatti, il bambino è orientato fin dall’inizio verso la stessa realtà, verso cui sono orientati i suoi genitori ed ha lo stesso materiale fisico e sociale, su cui dirigere il proprio patrimonio cognitivo ed istintivo. Gl’interessi, i motivi e gl’intenti dei bambini sono identici a quelli degli adulti, ma ad un livello piú semplice di organizzazione”.

 

La stessa cosa circa la continuità è stata notata in molte società indigene ed un episodio illustrativo presentato da Fortes (p. 11) trova un parallelo quasi identico fra i Netsilik di Pelley Bay, studiati cosí dettagliatamente dall’antropologo danese Rasmussen (1931). L’episodio dei Tallensi riguarda Maanyeya, una ragazza di nove anni, che non ha mangiato la carne del sacrificio della notte precedente. Interrogata perché non l’ha mangiata, risponde:

 

“Quando si sacrifica a Zukek, le donne non mangiano la carne. Se la mangiano, non avranno mai bambini, diventano sterili. [Che t’importa questo?] Non sono una donna? Chi mai vuol essere sterile?”.

 

Anche una ragazza Netsilik, piú o meno della stessa età, carica di amuleti, interrogata perché li portasse, elencò un catalogo di guai, propri dell’età adulta, dai quali si proteggeva con quegli amuleti.

Fra i Tallensi tutti istruiscono: l’adulto istruisce il fanciullo, il ragazzo piú grande istruisce il piú piccolo, si istruiscono fra loro quelli della stessa età; ma l’istruzione viene impartita sempre nel contesto dell’azione o nello svolgimento di uno sforzo. Virtualmente non c’è niente che possa paragonarsi a metodi standardizzati appositamente per addestrare i bambini. Il sistema poggia sulla “previsione di un comportamento normale... In ogni situazione sociale ciascuno è convinto che chiunque partecipi ad essa, già conosce o vuole conoscere come comportarsi appropriatamente alla situazione e secondo il suo livello di maturità” (pp. 25- 26). Al bambino si affidano compiti proporzionati alla sua capacità e si ritiene che egli parteciperà e contribuirà ai compiti economici, sociali e rituali della vita adulta, anche se in proporzioni molto modeste. Anche il gioco, che è vario e frequente, è caratterizzato da temi che hanno parte notevole tanto nella vita dell’adulto che in quella dei fanciulli.

 

“Gl’indigeni dicono che i bambini spesso pongono domande sulla gente e sulle cose che li circondano. Comunque, ascoltando quello che dicevano i bambini, ponendo i loro “perché”, sono stato sorpreso nel notare come fossero rari; ed i pochi esempi che potetti registrare, si riferivano ad oggetti o persone estranee allo svolgimento normale della vita Tallense. Sembrerebbe che i fanciulli tallensi avessero raramente da porre dei “perché” riguardo alla gente ed alle cose del loro ambiente normale, perché la maggior parte del loro apprendimento ha luogo in situazioni reali... ”.

 

Si consideri di nuovo la questione sollevata precedentemente sulla ragione per cui, in certe condizioni, lo sviluppo intellettivo procede verso una forma elaborata di rappresentazione simbolica con l’accompagnamento di tutta la poderosa attività simbolica, che diventa disponibile. Nella precedente discussione sono state menzionate cinque possibili fonti di questo sviluppo, ed ora possiamo considerarle piú dettagliatamente. In breve erano: a) l’uso delle parole come inviti a formare concetti; b) l’eventuale dialogo fra l’adulto ed il fanciullo; c) l’importanza della “scuola” come innovazione; d) lo sviluppo in una cultura di concetti “scientifici”; e) la possibilità di conflitto fra modi di rappresentazione.

Si noti prima di tutto che, quando una società diventa piú complessa nella sua tecnologia e nella divisione del lavoro, due profondi mutamenti non possono non verificarsi. Il primo è che la conoscenza e l’abilità all’interno della cultura diventa sempre piú esorbitante i limiti della conoscenza e dell’abilità che tutti possono raggiungere. Perciò quasi inevitabilmente si sviluppa una netta disgiunzione del mondo degli adulti dal mondo dei bambini. L’unità del mondo dei Tallensi diventa impossibile nelle società piú complesse. Allora progressivamente si sviluppa una nuova tecnica moderatamente efficace, per istruire i giovani, che è fondata soprattutto sul parlare delle cose fuori del loro contesto, anziché sul mostrare le cose nel contesto. La scuola, ovviamente, diventa il primo strumento di questa nuova tecnica, ma non certo l’unico. Infatti c’è anche un maggior parlare dei genitori, sempre fuori del contesto dell’azione, perché diventano pochi gli ambienti in cui si può praticare l’apprendimento in situ. È probabilmente in virtú di questo sviluppo che le domande col “perché” diventano una caratteristica cosí importante della risposta del fanciullo al suo ambiente. Esse servono a fornire un contesto verbale in assenza del contesto di azione caratteristico delle società indigene tecnologicamente semplici. In realtà è stato anche osservato che il mondo dell’apprendimento del fanciullo a scuola si distacca dalla vita quale è vissuta nella piú ampia società e si sente la voce del riformatore, il quale chiede che la scuola sia accostata alla vita.

Tuttavia, come si è spiegato altrove (Bruner, 1965), può darsi che la cosa importante per la scuola, come ora è costituita, sia che è staccata dal contesto immediato dell’azione socialmente rilevante. È proprio questo distacco che fa dell’apprendimento un atto a parte e ne rende possibile l’inserzione nel contesto del linguaggio e dell’attività simbolica. Infatti ora le parole sono inviti a formare concetti piú di quanto lo siano i contesti di azioni cosí appropriatamente descritti da Fortes (1938) ed altri. La comprensione verbale, l’abilità di esprimerla con parole e di elencare gli esempi diventa il criterio dell’apprendimento in tale contesto, in contrasto col concetto di “yam” dei Tallensi, il quale, secondo Fortes designa la saggezza ed il sapersela cavare sia nel comportamento pratico che in quello morale.

Nelle società tecnicamente piú evolute è proprio la natura dell’apprendimento che esige un dialogo provvisorio fra il genitore o l’educatore ed il fanciullo, perché, una volta che uno si trovi al di fuori del contesto operativo in cui l’apprendimento ha luogo direttamente, non può piú designare un significato o “lasciare che la situazione sia essa stessa portatrice del significato”. Saremmo propensi a predire, e la predizione è quasi banale, tanto è ovvia, che compiti analoghi proposti ad uno che è membro di una società piú tecnicizzata e ad un altro che è membro di una società meno tipicizzata, saranno sempre piú suscettibili di descrizione verbale per il primo che per il secondo. Il processo di traduzione dell’azione e dell’esperienza in forme simboliche vicarianti ha luogo proprio in questa applicazione della ricodificazione simbolica di “ciò che si sa”.

 

J. Bruner e altri, Lo sviluppo cognitivo, Armando, Roma, 1978, pagg. 72-79