L’inizio del quinto dialogo dell’opera De la causa, principio et Uno è una
sintesi potente del pensiero di Bruno sull’Uno e sulle sue caratteristiche. È
evidente, oltre all’influenza di Plotino, anche quella di Nicola Cusano.
Lasciati da parte i logici con le loro fantasie, i filosofi naturali sono
giunti alla conclusione che, nonostante le variazioni e mutazioni degli enti,
la sostanza rimane sempre unica e immutabile. Bruno si riferisce sia alla
tradizione filosofica greca (soprattutto a Parmenide, ma anche a Eraclito e a
Pitagora) sia alla Bibbia, di cui cita un passo del Libro di Qoelet,
interpretandolo all’interno del suo sistema filosofico. Teofilo è il
sostenitore delle posizioni filosofiche di Bruno.
G. Bruno, De la causa, principio et Uno, Dialogo Quinto
a) Tutto è in tutto
Teofilo: È dunque
l’Universo uno, infinito, immobile. Una, dico, è la possibilità assoluta, uno
l’atto, una la forma o anima, una la materia o corpo, una la cosa, uno lo ente,
uno il massimo ed ottimo; il quale non deve posser essere compreso [contenuto];
e però [perciò] infinibile ed interminabile, e per tanto infinito ed
interminato, e per conseguenza immobile. Questo non si muove localmente, perché
non ha cosa fuor di sé ove si transporte, atteso che sia il tutto. Non si
genera; perché non è altro essere che lui possa desiderare o aspettare, atteso
che abbia tutto lo essere. Non si corrompe; perché non è altra cosa in cui si
cange, atteso che lui sia ogni cosa. Non può sminuire o crescere, atteso che è
infinito; a cui come non si può aggiongere, cossí è da cui non si può
suttrarre, per ciò che lo infinito non ha parte proporzionabili. Non è
alterabile in altra disposizione, perché non ha esterno da cui patisca e per
cui venga in qualche affezione. Oltre che, per comprender tutte contrarietadi
nell’essere suo in unità e convenienza, e nessuna inclinazione posser avere ad
altro e novo essere o pur ad altro ed altro modo di essere, non può esser
soggetto di mutazione secondo qualità alcuna, né può aver contrario o diverso
che lo alteri, perché in lui è ogni cosa concorde. Non è materia, perché non è
figurato né figurabile, non è terminato né terminabile. Non è forma, perché non
informa né figura altro, atteso che è tutto, è massimo, è uno, è Universo. Non
è misurabile né misura. Non si comprende, perché non è maggior di sé. Non si è
compreso, perché non è minor di sé. Non si agguaglia, perché non è altro ed
altro, ma uno e medesimo. Essendo medesimo ed uno, non ha essere ed essere; e
perché non ha essere ed essere, non ha parte e parte; e per ciò che non ha
parte e parte, non è composto. Questo è termine di sorte [tale] che non è
termine; è talmente forma che non è forma; è talmente materia che non è
materia; è talmente anima che non è anima: perché è il tutto indifferentemente,
e però è uno, l’Universo è uno. In questo certamente non è maggiore l’altezza
che la lunghezza e la profondità, onde per certa similitudine si chiama, ma non
è, sfera. Nella sfera, medesima cosa è lunghezza che larghezza e profondo,
perché hanno medesimo termine; ma ne l’Universo medesima cosa è larghezza,
lunghezza e profondo, perché medesimamente non hanno termine e sono infinite.
Se non hanno mezzo, quadrante ed altre misure, se non vi è misura, non vi è
parte proporzionale, né assolutamente parte che differisca dal tutto. Perché se
vuoi dir parte de l’infinito, bisogna dirla infinito; se è infinito, concorre
in uno essere con il tutto: dunque l’Universo è uno, infinito, impartibile. E
se ne l’infinito non si trova differenza, come di tutto e parte e come di altro
ed altro, certo l’infinito è uno. Sotto la comprensione [all’interno] de
l’infinito non è parte maggiore e parte minore, perché alla proporzione de
l’infinito non si accosta piú una parte quanto si voglia maggiore che un’altra
quanto si voglia minore; e però ne l’infinita durazione non differisce la ora
dal giorno, il giorno da l’anno, l’anno dal secolo, il secolo dal momento;
perché non son piú gli momenti e le ore per gli secoli, e non hanno minor
proporzione quelli che questi a la eternità. Similmente ne l’immenso non è
differente il palmo dal stadio, il stadio de la parasanga; perché alla
proporzione de la inmensitudine non piú si accosta per le parasanghe che per i
palmi. Dunque infinite ore non son piú che infiniti secoli, ed infiniti palmi
non son di maggior numero che infinite parasanghe. Alla proporzione,
similitudine, unione ed identità de l’infinito non piú ti accosti con essere
uomo che formica, una stella che un uomo; perché a quello essere non piú ti
avvicini con essere Sole, Luna, che un uomo o una formica; e però nell’infinito
queste cose sono indifferenti. E quello che dico di queste, intendo di tutte
l’altre cose di sussistenza particulare. Or, se tutte queste cose particulari
ne l’infinito non sono altro ed altro, non sono differenti, non sono specie,
per necessaria consequenza non sono numero; dunque l’Universo è ancor uno
immobile. Questo, perché comprende tutto, e non patisce altro ed altro essere,
e non comporta seco né in sé mutazione alcuna; per consequenza, è tutto quello
che può essere; ed in lui, come dissi l’altro giorno, non è differente l’atto
da la potenza. Se dalla potenza non è differente l’atto, è necessario che in
quello il punto, la linea, la superficie ed il corpo non differiscano: perché
cossí quella linea è superficie, come la linea, movendosi, può essere
superficie; cossí quella superficie è mossa ed è fatta corpo, come la
superficie può moversi e, con il suo flusso, può farsi corpo. È necessario
dunque che il punto ne l’infinito non differisca dal corpo, perché il punto,
scorrendo da l’esser punto, si fa linea; scorrendo da l’esser linea, si fa
superficie; scorrendo da l’esser superficie, si fa corpo: il punto dunque,
perché è in potenza ad esser corpo, non differisce da l’esser corpo, dove la
potenza e l’atto è una medesima cosa. Dunque, l’individuo non è differente dal
dividuo, il simplicissimo da l’infinito, il centro da la circonferenza. Perché
dunque l’infinito è tutto quello che può essere, è inmobile; perché in lui tutto
è indifferente, è uno; e perché ha tutta la grandezza e perfezione che si possa
oltre ed oltre avere, è massimo ed ottimo immenso. Se il punto non differisce
dal corpo, il centro da la circonferenza, il finito da l’infinito, il massimo
dal minimo, sicuramente possiamo affirmare che l’Universo è tutto centro o che
il centro de l’Universo è per tutto, e che la circonferenza non è in parte
alcuna per quanto è differente dal centro, o pur che la circonferenza è per
tutto, ma il centro non si trova in quanto che è differente da quella. Ecco
come non è impossibile, ma necessario, che l’ottimo, massimo, incomprensibile è
tutto, è per tutto, è in tutto, perché, come semplice ed indivisibile, può
esser tutto, essere in tutto. E cossí non è stato vanamente detto che Giove
empie tutte le cose, inabita tutte le parti de l’Universo, è centro de ciò che
ha l’essere, Uno in tutto e per cui Uno è tutto. Il quale, essendo tutte le
cose e comprendendo tutto l’essere in sé, viene a far che ogni cosa sia in ogni
cosa.
b) Essere e nulla
Teofilo: Però
profondamente considerando che gli filosofi naturali, lasciando i logici ne le
loro fantasie, troviamo che tutto lo che fa differenza e numero, è puro
accidente, è pura figura, è pura complessione. Ogni produzione, di qualsivoglia
sorte che la sia, è una alterazione, rimanendo la sustanza sempre medesima;
perché non è che una, uno ente divino, immortale. Questo ha possuto intendere
Pitagora che non teme la morte, ma aspetta la mutazione. L’hanno possuto
intendere tutti i filosofi, chiamati volgarmente fisici, che niente dicono
generarsi secondo la sustanza né corrompersi, se non vogliamo nominar in questo
modo l’alterazione. Questo lo ha inteso Salomone che dice: “Non essere cosa
nova sotto il Sole; ma quel che è, fu già prima”. Avete dunque come tutte le
cose sono ne l’Universo, e l’Universo è in tutte le cose; noi in quello, quello
in noi: e cossí tutto concorre in una perfetta unità. Ecco come non doviamo
travagliarci il spirto, ecco come cosa non è per cui sgomentarci doviamo.
Perché questa unità è sola e stabile, e sempre rimane; questo Uno è eterno;
ogni volto, ogni faccia, ogni altra cosa è vanità, è come nulla, anzi è nulla
tutto lo che è fuor di questo Uno. Quelli filosofi hanno ritrovata la sua amica
Sofia, li quali hanno ritrovato questa unità. Hanno saputo tutti dire che vero,
Uno ed ente son la medesima cosa, ma non tutti hanno inteso; perché altri hanno
seguitato il modo di parlare, ma non hanno compreso il modo d’intendere di veri
sapienti. Aristotele, tra gli altri, che non ritrovò l’Uno, non ritrovò lo
ente, e non ritrovò il vero, perché non conobbe come Uno lo ente; e benché
fusse stato libero di prendere la significazione de lo ente comune alla
sustanza e l’accidente, ed oltre de distinguere le sue categorie secondo tanti
geni e specie per tante differenze, non ha lasciato però di essere non meno
poco aveduto nella verità per non profondare alla cognizione di questa unità ed
indifferenza de la costante natura ed essere; e, come sofista ben secco, con
maligne esplicazioni e con leggiere persuasioni pervertere le sentenze de gli
antichi ed opporsi a la verità, non tanto forse per imbecillità di intelletto,
quanto per forza d’invidia ed ambizione.
Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1964, vol. VI, pagg. 1337-1341