In questa
intensa pagina l’autore ci chiama a contemplare il mistero d’amore che si
compie nella agonia del Figlio di Dio. Si avverte in questa pagina quanto la
riflessione sia nata dal vissuto esistenziale di un rapporto di amorosa fiducia
piuttosto che da una speculazione di carattere puramente razionale. Ciò non
toglie, e anzi se possibile rafforza, l’estrema logicità e coerenza del
ragionamento sviluppato da Bulgakov: alla sofferenza del Cristo partecipa la
Trinità divina. [la dottrina della divinoumanità, (o teandria, o
bogocelovecestvo) è ripresa da Solov’ëv; la parola greca kénosis
equivale a svuotamento, annientamento; esinazione (dal latino ex- inanitio)
è sinonimo della parola greca kenosis, piú comunemente usata in campo
teologico]
S. N. Bulgakov, L’agnello di Dio
La morte appare una disposizione voluta direttamente dal Padre, e accettata dall’obbedienza del Figlio. Tale accettazione della morte, secondo Fil 2, racchiude il piú profondo abisso della kenosi del Figlio, e insieme l’abisso della sua umanità nella sua via teandrica. Il minimo dubbio sulla realtà della morte di croce, la piú leggera ombra di docetismo, porta qui al dubbio e alla negazione circa tutta l’opera dell’Incarnazione. Si deve ammettere in tutta la sua forza il fatto che il Dio-Uomo ha sofferto e gustato la morte, non solo nella sua umanità, ma anche nel suo essere divino-umano. Qui non si può, contraddicendo il dogma di Calcedonia, dividere la sua umanità dalla Divinità con l’asserire che Egli non soffrí come Dio, ma solo come uomo, perché allora la morte sulla croce, come pure la totalità della sua vita, sarebbe semplicemente una parvenza, a cui la sua Divinità non avrebbe affatto preso parte. Al contrario, la kenosi consiste proprio in questo, che il Figlio si è abbassato nella sua Divinità, ed è divenuto soggetto, ipostasi di una vita divino-umana, vivendo ipostaticamente tutto ciò che era vissuto dalla sua umanità. Perciò la Divinità che gli era propria si era tanto umiliata per se stessa, si era tanto sprofondata nel proprio abisso, ossia nella propria potenzialità, da non essere piú di ostacolo alla morte e non annullarne la possibilità. Essa inconcepibilmente pativa la morte, certo senza morire, ma anche senza contrapporsi ad essa. Poiché la morte era innaturale per il Nuovo Adamo, in quanto Egli era senza peccato, era piú spaventosa e tormentosa che per i figli del vecchio Adamo che muoiono già lungo tutto il corso della loro vita mortale, mentre qui avveniva solo per una violenza contro la vita, per mezzo della crocifissione. Il calice della morte è bevuto per intero e senza attenuazioni sul Golgota, ma psichicamente è vissuto nel Getsemani: “E cominciò ad aver paura e ad abbattersi, e disse loro: “L’anima mia è triste fino alla morte”” (Mc 14, 34). È questa l’agonia spirituale, che corporalmente si compí sulla croce, di una vita di per sé immortale. Occorre essere attenti al fatto che la sua mortale tortura non fu attenuata e non fu neutralizzata né dalla profondità della coscienza divina, né dalla vittoria trionfale testimoniata nelle sue parole di congedo, né dalla forza della sua unione col Padre né, in una parola, da tutta la sua vita divina. La kenosi della Divinità, la sua estenuazione che qui arriva quasi ad estinguerla, è cosí profonda, che al Dio-Uomo si spalanca la voragine della morte, con la tenebra del non essere, con tutta l’intensità dell’abbandono di Dio. Il baratro vertiginoso del nulla della creatura si apre nella morte per lo stesso Creatore. E il grido dalla croce: “Elí, Elí, lemá sabacthani”, è il punto estremo di quella estenuazione della Divinità nell’annientamento della crocifissione: Egli qui ormai non si rivolge piú al Padre, perché, avvolto nel buio della morte, anche la coscienza della filialità divina lo abbandona, ma a Dio il Dio-Uomo rivolge in nome della creazione il lamento che Lui, il Padre, lo ha abbandonato, il Padre con cui Egli è uno e che non lo abbandona mai. Nella morte anche Egli, al pari di ogni uomo, resta solo. In codesto grido del Dio-Uomo morente, c’è tutta l’infinita profondità della kenosi, di quella divina autoesinanizione che è pari soltanto all’abisso dell’amore di Dio. E quasi a confermare che è proprio il Figlio di Dio nella sua Teantropia a varcare la soglia della morte, il gemito mortale verso Dio si trasforma in quell’invocazione al Padre che è anche l’epilogo della kenosi: “Padre, nelle tue mani raccomando il mio spirito” (Lc 23, 46) con la parola che tutto conclude: “Tutto è compiuto” (Gv 19, 30).
Nell’abnegazione della croce si vede chiaramente fino a qual punto l’abbassamento di Dio si proporziona alla misura umana. La Divinità si estenua al punto di non contrastare piú con la morte e, sebbene Essa stessa non muoia, pure quasi con-muore con la propria umanità morente. Con Essa e in Essa appare morente la sua stessa ipostasi divina, perché questa è l’ipostasi della sua umanità inseparabilmente unita alla Divinità. Perciò muore il Dio-Uomo nella sua integrale unità, nella piena complessità della sua struttura, ma differentemente in ciascuna delle sue essenze: muore l’umanità e quindi con essa passa al di là della soglia della morte, verso l’abisso del prima-dell’essere e del non-essere creaturale, quella sua ipostasi umana che è la divina ipostasi del Logos. Ma essa trae giú fino all’estrema estenuazione nella morte anche la propria natura divina. In questo senso la morte si estende a tutto il Dio-Uomo, non solo alla sua umanità, ma anche alla sua Divinità, benché differentemente, ed è perciò del tutto impossibile escludere la sua Divinità dalla partecipazione alla morte.
Lo stesso pensiero va ulteriormente esteso fino a coinvolgere non solo il Logos, ma anche le altre ipostasi della SS. Trinità. Qui attirano anzitutto l’attenzione i due gridi prima della morte. Il primo, sull’abbandono di Dio, significa un certo allontanamento del Padre dal Figlio col quale il Padre è in inscindibile unità personale. Adesso il Figlio lo invoca dal fondo della propria essenza umana. Codesto abbandono del Figlio è un atto del Padre che esprime la sua accettazione della morte del Figlio e pertanto anche la sua partecipazione paterna, perché per il Padre l’abbandonare il Figlio che muore sulla croce è, certamente, non la morte ma una qualche forma di spirituale con-morire nel sacrificio di amore. E non meno significativo di tale partecipazione del Padre all’umiliazione del Figlio sulla croce è l’ultimo grido di Gesú, che consegna il suo spirito nelle mani del Padre. Il Figlio ritorna nel seno del Padre, ma non ancora per dimorarvi come prima che il mondo fosse, né per sedere alla destra del Padre come nella gloriosa Ascensione. Il Figlio incarnato, nella morte si disincarna, per cosí dire, forzatamente, e il suo spirito divino-umano ritorna al Padre e al suo Dio similmente a come nella morte di un uomo il corpo ritorna alla terra, e “lo spirito ritorna a Dio che lo ha dato” (Qo 12, 7). È questo in particolare il momento della kenosi del Figlio, a cui in qualche modo compartecipa anche il Padre. Egli propriamente riceve lo spirito del Figlio, che ha abbandonato il proprio corpo, in consegna per i tre giorni che precedono la risurrezione. A Dio ritornano con la morte gli spiriti di tutti coloro che Egli ha mandato sulla terra, e quasi nel numero di codesti spiriti il Padre riceve anche lo spirito del Figlio che ha gustato la morte. Il consegnarsi del Figlio nelle mani del Padre significa il piú abissale kenotico nascondimento della Divinità; un mistero divino, insondabile per l’intelligenza umana, è implicito nell’atto del Padre che riceve il Figlio nell’umiliazione della morte e lo custodisce fino alla risurrezione, ma a questo mistero il nostro pensiero devoto si appressa perché ne è testimone il Vangelo.
S. N. Bulgakov, L’agnello di Dio, Città Nuova, Roma, 1990, pagg. 381-383