Butterfield, La rivoluzione scientifica come processo di lunga durata

L'espressione "Rivoluzione scientifica" è entrata nell'uso comune relativamente da poco: alla fine degli anni Quaranta, a seguito della pubblicazione, nel 1949, del lavoro di Herbert Butterfield, Le origini della scienza moderna. Secondo lo studioso inglese il passaggio dall'antica scienza aristotelica alla scienza moderna è un processo lungo e opera di molti uomini; un processo di cui gli stessi protagonisti, come ad esempio Francis Bacon, non si rendevano completamente conto. A questa tesi interpretativa se ne sono poi affiancate altre, come, ad esempio, quella della rottura radicale sostenuta da Th. S. Kuhn.

 

È naturale che il passaggio alla scienza moderna ci appaia spesso come una reazione alla dottrina di Aristotele: dato che bisognava lottare contro una resistenza conservatrice, i sostenitori delle nuove idee si sentivano costretti a produrre quella che a volte fu una letteratura polemica spietatamente antiaristotelica. Le apparenze, tuttavia, ingannano, e spesso è piú giusto guardare alle nuove idee come a ultertiori conquiste dei successivi commentatori di Aristotele. Questi uomini compresero il loro debito verso l'antico maestro e vollero rimanere fedeli a una grande parte del suo sistema anche se in qualche punto si sforzavano di superarne i limiti. In risposta ai conservatori del loro tempo, gli innovatori sostenevano che Aristotele stesso sarebbe stato dalla loro parte se fosse vissuto nel mondo moderno. [...]

È relativamente facile, oggi, accettare come un fatto normale i mutamenti che possono aver luogo nei piú alti campi delle diverse scienze [...]. Non è chiaro, tuttavia, quello che farebbero i patriarchi della nostra generazione se noi ci trovassimo di fronte a un mutamento radicale e completo della scienza, tale da costringerci a considerare antiquati e inutili e a toglierci di mente i primi fondamenti insegnatici sull'Universo alla scuola elementare; se dovessimo mutare radicalmente il nostro atteggiamento e considerare, per esempio, l'intero problema del moto locale partendo da un punto di vista diametralmente opposto a quello al quale siamo abituati. Al principio del diciassettesimo secolo vi era maggiore coscienza di quanta non ne possediamo noi ora (nella nostra qualità di storiografi) del carattere rivoluzionario del periodo al quale si era allora giunti. Ogni vecchio principio era in dissoluzione, l'ordine precedente minato alla base, e tuttavia il nuovo sistema scientifico non era ancora venuto alla luce, il conflitto era teso ed esasperato: gli uomini tendevano effettivamente a una rivoluzione, non semplicemente per spiegare le anomalie esistente, ma per raggiungere una nuova scienza e un nuovo metodo. Sorgevano programmi di carattere rivoluzionario, ed è chiaro che alcuni uomini erano pienamente coscienti della situazione critica nella quale i trovava il loro mondo. In un certo senso, tuttavia, essi mancavano di discernimento tendendo a credere che la rivoluzione scientifica potesse compiersi interamente nel corso della vita di un singolo individuo: secondo loro era come se si fosse dovuto mettere una diapositiva dell'Universo al posto di un'altra - creare un nuovo sistema che sostituisse quello di Aristotele. Lentamente essi scoprirono che una sola generazione non bastava e che ce ne volevano forse due per portare il processo a compimento. Verso la fine del XVII secolo essi giunsero a vedere che avevano aperto la strada a un futuro senza fine e che le scienze erano ancora e solo nella loro prima infanzia.

 

(H. Butterfield, Le origini della scienza moderna, trad. di A. Izzo, Il Mulino, Bologna, 1962, pagg. 22 e 115-116)