BENJAMIN, PROGRAMMA PER UN TEATRO PROLETARIO DI BAMBINI

 

Quaderni piacentini n.38 [1969]

 

Premessa

 

Ogni movimento proletario che sia sfuggito allo schema della discussione parlamentare si vede davanti, tra le molte forze alle quali si trova improvvisamente di fronte impreparato, la nuova generazione come la forza più grande ma anche la più pericolosa. La sicurezza di sé dell’ottusità parlamentare nasce proprio dal fatto che gli adulti stanno fra loro. Sui bambini però le frasi non hanno alcun potere. In un anno si può ottenere che in tutto il paese i bambini le ripetano. Ma il problema è come far sì che in dieci o venti anni si agisca secondo il programma del partito. E a questo scopo le frasi non servono proprio a niente.

 

L’educazione proletaria dev’essere costruita sulla base del programma del partito, più esattamente: a partire dalla coscienza di classe. Ma il programma del partito non serve come strumento per un’educazione dei bambini fondata sulla coscienza di classe, perché l’ideologia, che in sé è estremamente importante, raggiunge il bambino soltanto come frase. Noi chiediamo molto semplicemente, ma non cesseremo neppure mai di chiedere, gli strumenti per un’educazione fondata sulla coscienza di classe dei bambini proletari. In ciò che segue lasceremo da parte l’insegnamento scientifico, perché prima che i bambini possano essere istruiti in modo proletario (nella tecnica, nella storia di classe, nella capacità di discutere), essi debbono venir educati in modo proletario. Cominciamo dal quarto anno di vita.

 

L’educazione borghese dei bambini più piccoli, corrispondente alla situazione di classe della borghesia, è priva di sistema. Ovviamente, la borghesia ha il suo sistema d’educazione. La disumanità dei suoi contenuti si tradisce per l’appunto unicamente nel fatto che essi falliscono nei confronti della prima infanzia. Su quest’età, soltanto il vero può agire in modo produttivo. Dall’educazione borghese dei bambini piccoli, quella proletaria deve differenziarsi in primo luogo attraverso il sistema. Ma sistema qui significa quadro. Sarebbe una condizione assolutamente insostenibile per il proletariato se, come succede negli asili della borghesia, ogni sei mesi penetrasse nella sua pedagogia un nuovo metodo con i più recenti perfezionamenti psicologici. Dappertutto, e qui la pedagogia non fa affatto eccezione, l’interesse per il "metodo" è un’impostazione autenticamente borghese, l’ideologia del tirare avanti e della poltroneria. L’educazione proletaria, tra tutte le condizioni, ha dunque in primo luogo bisogno di un quadro, di un territorio reale in cui si educa. Non, come nella borghesia, di un’idea a cui si educa.

 

Ora motiviamo perché il quadro dell’educazione proletaria dal quarto fino al quattordicesimo anno di età è il teatro proletario di bambini. L’educazione del bambino esige: che si afferri l’intera sua vita. L’educazione proletaria esige: che si educhi in un territorio circoscritto. Questa è la dialettica positiva della questione. Ora, dato che la vita intera nella sua illimitata pienezza appare inquadrata e circoscritta solo e soltanto nel teatro, il teatro proletario di bambini è per il bambino proletario il luogo dialetticamente determinato dell’educazione.

 

Schema di tensione

 

Lasciamo indeciso se il teatro di bambini, di cui si parlerà ora, abbia oppure no il più stretto rapporto con il grande teatro nei punti più alti della sua storia. Per contro dobbiamo stabilire con assoluta decisione che questo teatro non ha nulla in comune con quello della odierna borghesia. Il teatro della odierna borghesia è economicamente determinato dal profitto; sociologicamente, esso è prima di tutto, davanti e dietro le quinte, strumento di sensazione. Diverso il teatro proletario di bambini. Come il primo gesto dei bolscevichi fu quello d’innalzare la bandiera rossa, così il loro primo istinto li fece organizzare i bambini. Come centro di questa organizzazione si è sviluppato il teatro proletario di bambini, momento fondamentale dell’educazione bolscevica. Di questo fatto esiste una controprova sicura. Niente sembra alla borghesia tanto pericoloso per i bambini quanto il teatro. Non si tratta soltanto di un effetto residuale dell’antico terrore borghese di fronte ai teatranti nomadi rapitori di bambini. Qui piuttosto si erge la coscienza impaurita che vede evocata nei bambini, attraverso il teatro, la più grande forza del futuro. E questa coscienza impone alla pedagogia borghese di bandire il teatro. Come potrebbe mai reagire, quando il fuoco – in cui per i bambini gioco e realtà si fondono, si uniscono al punto che le sofferenze e le bastonate rappresentate possono tramutarsi in sofferenze autentiche e in bastonate reali – le si fa sentire da vicino.

 

E tuttavia: le rappresentazioni di questo teatro non sono, come quelle dei grandi teatri borghesi, la méta vera e propria dell’intenso lavoro collettivo che viene compiuto nei circoli dei bambini. Qui le rappresentazioni avvengono di passaggio, si potrebbe dire: per sbaglio, quasi come uno scherzo dei bambini, che in questo modo interrompono per una volta lo studio, per principio mai terminato. Colui che dirige non attribuisce grande valore a questa conclusione. A lui importano le tensioni che si sciolgono in queste rappresentazioni. Le tensioni del lavoro collettivo: sono esse gli educatori. Il lavoro educativo che il regista borghese effettua sull’attore borghese, un lavoro avventato, troppo ritardato, incompleto, in questo sistema è abolito. Perché? Perché nel circolo di bambini non potrebbe reggersi nessuna guida che volesse in qualche punto intraprendere il tentativo autenticamente borghese di agire direttamente sui bambini come "personalità morale". L’influenza morale qui non esiste. L’influenza diretta qui non esiste. (E su queste si basa la regia nel teatro borghese). Ciò che conta è solo e soltanto l’influenza indiretta sui bambini, da parte di chi guida, attraverso i materiali, i compiti, le manifestazioni. Gli inevitabili adeguamenti e correzioni morali sono assunti su di sé dal collettivo stesso dei bambini. Ne deriva che le rappresentazioni del teatro di bambini devono agire sugli adulti come una istanza autenticamente morale. Non vi è spazio per un pubblico in posizione di superiorità rispetto al teatro di bambini. Chi non è ancora completamente istupidito forse si vergognerà.

 

Ma anche questo non porta avanti. Il teatro proletario di bambini esige in modo assoluto, per agire fruttuosamente, un collettivo come pubblico. In una parola: la classe. E d’altra parte soltanto la classe operaia possiede un organo infallibile per fare esistere i collettivi. Tali collettivi sono le assemblee popolari, l’armata, la fabbrica. Un collettivo di questo genere è però anche il bambino. Ed è privilegio della classe operaia avere occhi apertissimi per il collettivo dei bambini, che non può mai essere scorto dalla borghesia. Questo collettivo non irradia soltanto le forze più potenti, ma le più attuali. L’attualità del formare e dell’atteggiarsi infantile è di fatto irraggiunto. (Rimandiamo alle note esposizioni dei più recenti disegni infantili).

 

La liquidazione della "personalità morale" in chi dirige rende libere enormi forze per il vero e proprio genio dell’educazione: l’osservazione. Soltanto essa è il cuore dell’amore non sentimentale. Ogni amore educativo al quale, nei nove decimi di tutti i casi di presunto sapere e volere, l’osservazione della vita infantile stessa non toglie coraggio e voglia, non serve a nulla. Esso è sentimentale e presuntuoso. Per l’osservazione però – e solo qui comincia l’educazione – ogni azione e gesto infantile diventa un segnale. Non tanto, come piace allo psicologo, segnale dell’inconscio, delle latenze, rimozioni, censure, ma segnale da un mondo in cui il bambino vive e comanda. La nuova conoscenza del bambino che si è formata nei circoli russi di bambini ha portato al principio: il bambino vive nel suo mondo da dittatore. Perciò una "teoria dei segnali" non è affatto un modo di dire. Quasi ogni gesto infantile è comando e segnale in un mondo, sul quale soltanto di rado uomini geniali hanno gettato uno sguardo. Primo fra tutti, Jean Paul.

 

È compito di chi dirige liberare i segnali infantili dal pericoloso regno incantato della pura fantasia e portarli a esecuzione nei materiali. Questo si fa nelle diverse sezioni. Noi sappiamo – per parlare soltanto della pittura – che l’essenziale anche in questa forma di attività infantile è il gesto. Konrad Fiedler ha per primo mostrato, nei suoi Scritti sull’arte, che il pittore non è un uomo che vede in modo più naturale, più poetico o più estatico delle altre persone. Piuttosto, è un uomo che osserva più da vicino con la mano là dove l’occhio si arresta, che traduce l’innervazione recettiva dei muscoli della vista in innervazione creativa della mano. Ogni gesto infantile è un’innervazione creativa in esatta connessione con quella recettiva. Lo sviluppo di questi gesti infantili nelle varie forme di espressione – la confezione di accessori, la pittura, la recitazione, la musica, la danza, l’improvvisazione – spetta alle differenti sezioni.

 

In esse tutte, l’improvvisazione rimane centrale; poiché in fin dei conti la rappresentazione è soltanto la loro sintesi improvvisata. L’improvvisazione domina; essa è la disposizione da cui emergono i segnali, i gesti che segnalano. E la rappresentazione o teatro deve appunto perciò essere la sintesi di quei gesti, perché soltanto essa possiede quella rigorosa unicità, in cui il gesto infantile si dispone come nel suo autentico spazio. Ciò che si strappa ai bambini come "prestazione" schietta non può mai eguagliare l’autenticità dell’improvvisazione. Il dilettantismo aristocratico che aveva preso di mira tali "prestazioni artistiche" dei poveri allievi non fece altro in fin dei conti che riempire i loro armadi e la loro memoria di cianfrusaglia, che fu conservata con grande pietà allo scopo di tormentare di nuovo i propri figli in memoria della propria infanzia. Non alla «eternità» dei prodotti, bensì all’«attimo» del gesto è destinata ogni prestazione infantile. Il teatro come forma fugace, è questa la forma infantile.

 

Schema di soluzione

 

All’organizzazione educativa del lavoro nelle sezioni la rappresentazione si oppone come la soluzione alla tensione. Di fronte ad essa, chi dirige si ritira del tutto. Poiché nessuna saggezza pedagogica può prevedere i modi in cui i bambini riassumeranno in una totalità teatrale i gesti e le capacità imparate insieme a mille sorprendenti varianti. Se già per l’attore professionista la prima rappresentazione è non di rado occasione per le più felici varianti nella parte studiata, nel bambino essa porta al completo dominio del genio della variante. La rappresentazione si contrappone all’addestramento educativo come un radicale sprigionamento del gioco, di fronte al quale l’adulto può soltanto stare a guardare. L’imbarazzo della pedagogia borghese e della borghesia adolescente si è ultimamente sfogato nel movimento per una Jugendkultur. Il contrasto che queste nuove tendenze sono destinate a mascherare risiede nelle esigenze che la società borghese, come ogni società politica, ha nei confronti delle energie della gioventù, le quali non devono mai essere animate in senso immediatamente politico. Prima di tutto quelle infantili. Ora, la Jugendkultur tenta un compromesso senza speranze: essa svuota l’entusiasmo giovanile attraverso riflessioni idealistiche su se stesso, per sostituire in modo impercettibile le ideologie formali dell’idealismo tedesco con i contenuti della classe borghese. Il proletariato non ha bisogno di sostenere il suo interesse di classe con i sudici mezzi di una ideologia destinata a soggiogare la suggestibilità infantile. La disciplina che la borghesia pretende dai bambini è il suo segno di vergogna. Il proletariato disciplina soltanto i proletari adulti; la sua educazione ideologica di classe comincia con la pubertà. La pedagogia proletaria dimostra la propria superiorità garantendo ai bambini la realizzazione della loro infanzia. L’ambito in cui questo avviene non ha perciò bisogno di essere isolato dallo spazio della lotta di classe. Per esempio i suoi contenuti e i suoi simboli possono senz’altro – o piuttosto debbono – trovar posto in esso. Essi non possono acquistare un dominio formale sul bambino, e non lo pretenderanno. Al proletariato infatti non occorrono neanche quelle migliaia di formulette, con cui la borghesia maschera gli interessi di classe della sua pedagogia. Alle pratiche "flessibili", "comprensive", "intuitive", alle educatrici "affettuose con i bambini", si potrà rinunciare.

 

La rappresentazione è la grande pausa creativa nell’opera educativa. Nel regno dei bambini, essa rappresenta ciò che era il carnevale nelle culture antiche. Ciò che è in alto viene ribaltato in basso e come nei saturnali romani il signore serviva il servo, così durante la rappresentazione i bambini stanno in scena e istruiscono e educano gli attenti educatori. Nuove forze, nuove innervazioni compaiono, delle quali spesso chi guida non aveva avuto sospetto nel corso del lavoro. È soltanto in questo selvaggio scatenamento della fantasia che egli impara a conoscerle. I bambini che fanno del teatro in questo modo, nel corso della rappresentazione diventano liberi. Nel gioco scenico la loro infanzia si realizza. Essi non portano con sé dei residui, che più tardi, attraverso lacrimosi ricordi d’infanzia, impediranno un’attività non sentimentale. Nello stesso tempo, questo teatro è per lo spettatore bambino l’unico utilizzabile. Quando gli adulti recitano per i bambini, quel che ne nasce è un’insulsaggine.

 

In questo teatro di bambini risiede una forza, che annullerà gli atteggiamenti pseudorivoluzionari del più recente teatro borghese. Poiché veramente rivoluzionaria non è la propaganda delle idee, che stimola ora qua ora là ad azioni ineffettuabili e finisce con la prima considerazione a mente fredda fatta all’uscita del teatro. Veramente rivoluzionario è il segnale segreto dell’avvenire, che parla dal gesto infantile.