[in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi 1962, pp. 31-38.]
Destino e carattere vengono concepiti per lo più in rapporto causale, e il carattere è definito come una causa del destino. L'idea che è alla base di tale concezione è questa: se da un lato il carattere di un uomo, e cioè anche il suo modo specifico di reagire, fosse noto in tutti i particolari, e se dall'altro l'accadere cosmico fosse noto in tutti i campi in cui entra a contatto con quel carattere, si potrebbe dire con esattezza sia ciò che capiterebbe a quel carattere che ciò che sarebbe da esso compiuto. In altri termini, sarebbe noto il destino. Un aggancio teoretico diretto al concetto di destino non è permesso dalle concezioni attuali, per cui i moderni addivengono bensì all'idea di leggere il carattere dai lineamenti fisici di un individuo, trovando già in qualche modo in sé la nozione di carattere in generale, mentre l'idea di decifrare analogamente il destino di un uomo dalle linee della sua mano sembra loro inaccettabile. Ciò sembra impossibile come «predire il futuro»; categoria sotto cui viene assunta senz'altro la previsione del destino, mentre il carattere appare, di contro, come qualcosa di dato nel presente e nel passato, e quindi di conoscibile. Ma è proprio la tesi di chi pretende di poter predire agli uomini, in base a questi o quei segni, il loro destino, che questo, per chi sappia farvi attenzione (per chi ha già in sé una nozione immediata del destino in generale), è già, in qualche modo, presente, o, detto con più cautela, è già sul posto. L'ipotesi che un certo «esser sul posto» del destino futuro non contraddica al concetto del medesimo, né la sua predizione alle forze conoscitive dell'uomo, non è, come si può mostrare, assurda. Anche il destino, come il carattere, può essere osservato solo in segni, non in se stesso, poiché – per quanto questo o quel tratto di carattere, questo o quel concatenamento del destino, possa essere immediatamente visibile – la connessione indicata da quei concetti non è però mai presente che in segni, essendo posta al di sopra dell'immediatamente visibile. Il sistema dei segni caratteriologici è generalmente limitato al corpo, a prescindere dall'importanza caratteriologica dei segni studiati dall'oroscopo, mentre segni del destino, secondo la concezione tradizionale, possono diventare, coi tratti fisici, tutti i fenomeni della vita esterna. Ma il rapporto fra segno e designato costituisce, in entrambe le sfere, un problema egualmente difficile e riposto, anche se, per tutto il resto, diverso, perché, a dispetto di ogni superficiale considerazione e falsa ipostatizzazione dei segni, non è in base a connessioni causali che essi significano, nei due sistemi, carattere o destino. Un contesto significativo non si può mai motivare causalmente, quand'anche, nel caso in questione, quei segni fossero stati determinati causalmente, nella loro realtà, dal destino e dal carattere. Qui non studieremo la fisionomia di questo sistema di segni del carattere e del destino; ma ci occuperemo esclusivamente dei designati stessi.
Appare che la concezione tradizionale della loro natura e del loro rapporto non solo rimane problematica, poiché non è in grado di rendere razionalmente intelligibile la possibilità di una previsione del destino, ma che è falsa, perché la separazione su cui si fonda è teoricamente irrealizzabile. Poiché è impossibile formare un concetto non contraddittorio dell'esterno di un uomo agente, come nocciolo del quale, in quella concezione, viene pure considerato il carattere. Nessun concetto di un mondo esterno si lascia delimitare nettamente rispetto al concetto dell'uomo agente. Fra l'uomo che agisce e il mondo esterno tutto è, piuttosto, interazione reciproca, i loro cerchi d'azione sfumano l'uno nell'altro; per quanto le rappresentazioni possano essere diverse, i loro concetti non sono separabili. Non solo non è possibile mostrare in nessun caso che cosa debba essere considerato, in una vita umana, in ultima istanza come funzione del carattere e che cosa invece come funzione del destino (ciò che non vorrebbe dire ancora nulla, se, per esempio, essi sfumassero l'uno nell'altro solo nell'esperienza), ma l'esterno, che l'uomo agente trova come dato, può essere ricondotto, in linea di massima, in tutta la misura che si vuole, al suo interno, e il suo interno, in tutta la misura che si vuole, al suo esterno, anzi l'uno essere considerato in linea di principio come l'altro. In questa considerazione, carattere e destino, lungi dall'essere teoricamente separati, verranno a coincidere. Come in Nietzsche, quando dice: «Chi ha carattere ha anche un'esperienza che ritorna sempre». Ciò significa: se uno ha carattere, il suo destino è essenzialmente costante. Ciò che però a sua volta significa – e questa conseguenza è stata tratta dagli stoici – che non ha un destino.
Dovendosi ottenere il concetto di destino, bisogna quindi separarlo nettamente da quello di carattere, ciò che a sua volta non può riuscire se anche quest'ultimo non riceve una determinazione più precisa. In base a questa determinazione i due concetti diventeranno del tutto divergenti; dove c'è carattere, è certo che non vi sarà destino, e nel quadro del destino non si troverà carattere. A questo scopo bisognerà guardare di assegnare quei due concetti a sfere tali in cui non usurpino, come accade nell'uso linguistico quotidiano, la maestà di sfere e concetti superiori. Il carattere, infatti, viene comunemente inserito in un contesto etico, e il destino in un contesto religioso. Bisogna bandirli da entrambi i campi mostrando l'errore che ve li ha potuti collocare. Questo errore è determinato, per quanto riguarda il concetto di destino, dalla sua connessione con quello di colpa. Così, per citare il caso tipico, la disgrazia fatale è considerata come la risposta di Dio o degli dèi alla colpa religiosa. Ma qui dovrebbe far pensare il fatto che manchi un rapporto corrispondente del concetto di destino al concetto dato dalla morale simultaneamente al concetto di colpa, e cioè al concetto di innocenza. Nella classica configurazione greca dell'idea di destino la felicità che tocca ad un uomo non è affatto concepita come la conferma della sua innocente condotta di vita, ma come la tentazione alla colpa più grave, all'hybris. Rapporto all'innocenza non si trova quindi nel destino. E – una domanda che va ancora più a fondo – esiste forse nel destino un rapporto alla felicità? È la felicità, come senza dubbio la sventura, una categoria costitutiva del destino? Ma è proprio la felicità che svincola il felice dall'ingranaggio dei destini e dalla rete del proprio. Non per nulla Hölderlin chiama «senza destino» gli dèi beati. Felicità e beatitudine conducono quindi, al pari dell'innocenza, fuori della sfera del destino. Ma un ordine i cui soli concetti costitutivi sono infelicità e colpa e per entro il quale non è concepibile via alcuna di liberazione (poiché nella misura in cui qualcosa è destinato, è infelicità e colpa) – un ordine siffatto non può essere religioso, per quanto il concetto malinteso di colpa sembri rinviare alla religione. Si tratta di cercare un altro campo, dove contino solo infelicità e colpa, una bilancia su cui beatitudine e innocenza risultano troppo leggere e si librano in alto. Questa bilancia è la bilancia del diritto. Le leggi del destino, infelicità e colpa, sono poste dal diritto a criteri della persona; poiché sarebbe falso supporre che solo la colpa si ritrovi nel quadro del diritto; si può dimostrare invece che ogni colpa giuridica non è altro che una disgrazia. Per un errore, in quanto è stato confuso col regno della giustizia, l'ordine del diritto, che è solo un residuo dello stadio demonico di esistenza degli uomini, in cui statuti giuridici non regolarono solo le loro relazioni, ma anche il loro rapporto con gli dèi, si è conservato oltre l'epoca che ha inaugurato la vittoria sui demoni. Non è col diritto, ma nella tragedia, che il capo del genio si è sollevato per la prima volta dalla nebbia della colpa, poiché nella tragedia il destino demonico è infranto. Ciò non significa che la concatenazione – che non ha fine dal punto di vista pagano – di colpa e castigo sia sostituita dalla purezza dell'uomo purgato e riconciliato col puro dio. Ma nella tragedia l'uomo pagano si rende conto di essere migliore dei suoi dèi, anche se questa conoscenza gli toglie la parola, e rimane muta. Senza dichiararsi, essa cerca segretamente di raccogliere le sue forze. Essa non pone ordinatamente colpa e castigo nei due piatti della bilancia, ma li agita insieme e li confonde. Non si può dire affatto che sia ristabilito «l'ordine etico del mondo», ma l'uomo morale, ancora muto, ancora minore 1 – come tale è l'eroe – cerca di sollevarsi nell'inquietudine di quel mondo tormentato. Il paradosso della nascita del genio nell'incapacità morale di parlare, nell'infantilità morale, è il sublime della tragedia. Ed è, probabilmente, il fondamento del sublime in generale, in cui appare assai più il genio che Dio. – Il destino, appare quindi quando si considera una vita come condannata, e in fondo tale che prima è stata condannata e solo in seguito è divenuta colpevole. Come Goethe riassume queste due fasi nelle parole: «Voi fate diventare il povero colpevole». Il diritto non condanna al castigo, ma alla colpa. Il destino è il contesto colpevole di ciò che vive. Esso corrisponde alla costituzione naturale del vivente, a quell'apparenza non ancora del tutto dissolta, a cui l'uomo è così sottratto che non ha mai potuto risolversi interamente in essa, ma – sotto il suo impero – ha potuto restare invisibile solo nella sua miglior parte. Non è quindi (in fondo) l'uomo ad avere un destino, ma il soggetto del destino è indeterminabile. Il giudice può vedere destino dove vuole; in ogni pena deve ciecamente infliggere destino. L'uomo non ne viene mai colpito, ma solo la nuda vita in lui, che partecipa della colpa naturale e della sventura in ragione dell'apparenza. Nel senso del destino questo vivente può essere accoppiato alle carte come ai pianeti, e l'indovina si avvale della semplice tecnica di inserirlo, con le cose più immediatamente certe e calcolabili (cose impuramente gravide di certezza), nel contesto della colpevolezza. Con ciò essa apprende in segni qualcosa su una vita naturale nell'uomo che essa cerca di porre al posto del capo di prima 2; come d'altra parte l'uomo che si reca da lei abdica a se stesso a favore della vita colpevole. Il contesto della colpa è temporale in modo affatto improprio, affatto diverso, per genere e misura, dal tempo della redenzione o della musica o della verità. Dalla determinazione del carattere particolare del tempo del destino dipende la piena illuminazione di questi rapporti. Il cartomante e il chiromante mostrano, in ogni caso, che questo tempo può essere reso, in ogni momento, contemporaneo ad un altro (che non significa presente). È un tempo non autonomo, parassitariamente aderente al tempo di una vita superiore, meno legata alla natura. Esso non ha presente, poiché gli istanti fatali esistono solo nei cattivi romanzi, e conosce anche passato e futuro solo in inflessioni caratteristiche.
Vi è quindi un concetto del destino – ed è il vero ed unico, che riguarda allo stesso modo il destino nella tragedia come le intenzioni della cartomante – che è affatto indipendente da quello del carattere e cerca la sua fondazione in una sfera affatto diversa. Nello stato corrispondente deve essere posto anche il concetto di carattere. Non è un caso che entrambi gli ordini si riconnettano a pratiche ermeneutiche e che nella chiromanzia carattere e destino vengano propriamente a coincidere. Entrambi riguardano l'uomo naturale, o, per dir meglio, la natura dell'uomo; ed è essa che si annuncia nei segni naturali, direttamente o sperimentalmente dati. La fondazione del concetto di carattere dovrà quindi riferirsi a sua volta a una sfera naturale e avere altrettanto poco a che fare con l'etica o con la morale come il destino con la religione. D'altra parte il concetto di carattere dovrà liberarsi anche di quei tratti che determinano la sua falsa connessione col concetto di destino. Questa connessione è prodotta dall'immagine di una rete suscettibile di essere infittita senza limiti dalla conoscenza, fino a diventare saldissimo tessuto: come il carattere appare a una superficiale considerazione. Accanto a questi tratti fondamentali lo sguardo acuto del conoscitore di uomini dovrebbe cogliere cioè, secondo questa concezione, altri tratti più minuti e più fitti, finché la rete apparente si condensi in un tessuto. Finché, nei fili di questo tessuto, un debole intelletto ha creduto di possedere l'essenza morale del carattere in questione, e ha distinto in essa le buone e le cattive qualità. Ma, come tocca dimostrare alla morale, mai qualità, ma solo azioni possono essere moralmente rilevanti. Va da sé che l'apparenza vuole altrimenti. Non solo «furtivo», «prodigo», «animoso», sembrano implicare valutazioni morali (qui si può ancora prescindere dall'apparente coloritura morale dei concetti), ma soprattutto parole come «disinteressato», «maligno», «vendicativo», «invidioso», paiono designare tratti di carattere in cui non è più possibile astrarre da una valutazione morale. E tuttavia questa astrazione non solo è possibile in ogni caso, ma necessaria per cogliere il senso dei concetti. Ed essa va concepita nel senso che la valutazione in sé rimane perfettamente intatta e le viene tolto solo l'accento morale, per far posto, in senso positivo o negativo, ad apprezzamenti non meno limitati delle determinazioni – senza dubbio moralmente indifferenti – di qualità dell'intelletto (come «intelligente» o «stupido»). La vera sfera a cui appartengono questi attributi pseudomorali, ci si svela nella commedia. Al centro di essa, come protagonista della commedia di carattere, è spesso un uomo che se dovessimo trovarci nella vita di fronte ai suoi atti anziché a teatro di fronte a lui, definiremmo subito un mascalzone. Ma sulla scena della commedia i suoi atti acquistano solo quell'interesse che li investe alla luce del carattere; e questo è, nei casi classici, oggetto non di condanna morale, ma di alta serenità. Non è mai in se stesse, mai dal punto di vista morale, che le azioni dell'eroe comico toccano il pubblico; i suoi atti interessano solo in quanto riflettono la luce del carattere. Dove si osserva che il grande poeta comico, come Molière, non cerca di determinare il suo personaggio attraverso una molteplicità di tratti caratteristici. Anzi, all'analisi psicologica è precluso ogni accesso alla sua opera. Non ha nulla a che fare, con l'interesse di quell'analisi, che avarizia o ipocondria vengano ipostatizzate, nell'Avare o nel Malade imaginaire, e messe alla base di ogni azione. Sull'ipocondria e sull'avarizia quei drammi non insegnano nulla; lungi dal renderle comprensibili, le rappresentano in forma cruda e semplificata, e se l'oggetto della psicologia è la vita interiore dell'uomo empiricamente inteso, i personaggi di Molière non possono servire ad essa neppure come pezze d'appoggio. In essi il carattere si dispiega luminosamente nello splendore del suo unico tratto, che non ne lascia sussistere alcun altro visibile accanto a sé, ma lo annulla con la sua luce. La sublimità della commedia di carattere riposa su questa anonimità dell'uomo e della sua moralità pur mentre l'individuo si dispiega al massimo nell'unicità del suo tratto caratteristico. Mentre il destino svolge l'infinita complicazione della persona colpevole, la complicazione e fissazione della sua colpa, – alla mitica schiavitù della persona nel contesto della colpa il carattere dà la risposta del genio. La complicazione diventa semplicità, il fato libertà. Poiché il carattere del personaggio comico non è il fantoccio dei deterministi, ma la lucerna al cui raggio appare visibilmente la libertà dei suoi atti. – Al dogma della naturale colpevolezza della vita umana, della colpa originaria, la cui fondamentale insolubilità costituisce la dottrina e la cui occasionale soluzione costituisce il culto del paganesimo, il genio oppone la visione della naturale innocenza dell'uomo. Questa visione rimane a sua volta nell'ambito della natura, ma le conoscenze morali sono così vicine alla sua essenza come l'idea opposta solo nella forma della tragedia, che non è la sua sola. Ma la visione del carattere è liberante sotto tutte le forme: essa è in rapporto con la libertà (come non è possibile mostrare qui) attraverso la sua affinità con la logica. – Il tratto di carattere non è, quindi, il nodo nella rete, ma il sole dell'individuo nel cielo incolore (anonimo) dell'uomo, che getta l'ombra dell'azione comica. (E questo situa la profonda osservazione di Cohen, che ogni azione tragica, per quanto sublime inceda sui suoi coturni, getta un'ombra comica, nel suo contesto più proprio).
I segni fisiognomici, come gli altri segni divinatori, dovevano necessariamente servire, presso gli antichi, soprattutto all'indagine del destino, conforme al primato della fede pagana nella colpa. La fisiognomica come la commedia furono manifestazioni della nuova età del genio. La fisiognomica moderna mostra ancora il suo rapporto con l'antica arte divinatoria nello sterile accento morale dei suoi concetti, come anche nella tendenza alla complicazione analitica. Proprio sotto questo aspetto hanno visto meglio fisiognomici antichi e medioevali, che capirono che il carattere può essere colto solo sotto pochi concetti fondamentali moralmente indifferenti, come quelli che cercò di fissare, per esempio, la teoria dei temperamenti.