BENTHAM, I confini tra la morale e la legislazione

 

§ 2. L’etica in generale può essere definita l’arte di dirigere le azioni degli uomini verso la produzione della maggiore quantità possibile di felicità per coloro il cui interesse si ha di mira. § 3. Quali sono quindi le azioni che un uomo può avere il potere di dirigere? Devono essere o le proprie azioni o quelle di altri agenti. L’etica, in quanto arte della direzione delle azioni proprie di un uomo, può essere definita arte dell’autogoverno, o etica privata. § 4. Quali altri agenti ci sono, quindi, che, mentre sono sotto l’influenza della direzione dell’uomo, sono suscettibili di felicità? Sono di due tipi: a) Altri esseri umani chiamati persone. b) Altri animali, che, a causa del fatto che i loro interessi sono stati trascurati dall’insensibilità dei giuristi antichi, sono degradati alla classe di cose. Quanto agli altri esseri umani, l’arte di dirigere le loro azioni verso il fine della felicità è quanto intendiamo, o almeno l’unica cosa che, in base al principio di utilità, dovremmo intendere, per "arte di governo". Essa, quando si esprime con misure di natura permanente, viene generalmente indicata con il nome di legislazione, mentre lo è con quello di amministrazione quando le sue misure sono di natura temporale, determinata dagli eventi del momento. § 5. Ora, le creature umane, considerate rispetto alla maturità delle loro facoltà, sono in uno stato adulto o non-adulto. L’arte di governo, quando si occupa della direzione delle azioni di persone in uno stato non-adulto, si può denominare l’arte dell’educazione. Quando questa occupazione è affidata a coloro che, in virtù di qualche rapporto privato, sono principalmente i meglio disposti a prendersi questo incarico, e i più capaci di assolverlo, essa può essere definita l’arte dell’educazione privata; quando è esercitata da coloro che hanno come campo d’attività la sovrintendenza sulla condotta di tutta la comunità, essa può essere definita l’arte dell’educazione pubblica. § 6. Quanto all’etica in generale, la felicità di un uomo dipenderà, in primo luogo, da quelle parti del suo comportamento a cui nessuno all’infuori di lui stesso è interessato; in secondo luogo, da quelle parti che possono colpire la felicità di quelli che sono intorno a lui. Quando la sua felicità dipende dalla prima parte di questo suo comportamento, si dice che dipende dal suo dovere verso se stesso. L’etica quindi, in quanto arte di dirigere le azioni di un uomo sotto questo riguardo, si può definire l’arte di compiere il proprio dovere verso se stesso, e la qualità che un uomo manifesta compiendo questo ramo del dovere (se dovere deve chiamarsi) è quella della prudenza. Quando la sua felicità e quella di ogni altra persona o persone i cui interessi vengono considerati dipende da quelle parti del suo comportamento che possono colpire gli interessi di quelli intorno a lui, si può dire che dipende dal suo dovere verso gli altri, o, per usare una frase un po’ antiquata, il suo dovere verso il prossimo. L’etica, quindi, in quanto arte di dirigere le azioni umane sotto questo riguardo, si può definire l’arte di compiere il proprio dovere verso il prossimo. Ora, si può tener conto della felicità del prossimo in due modi: a) In modo negativo, evitando di farla diminuire; b) In modo positivo, sforzandosi di accrescerla. Il dovere di un uomo verso il suo prossimo è di conseguenza in parte negativo e in parte positivo: compiere il ramo negativo di questo dovere è probità; compiere il ramo positivo di questo dovere è beneficenza. § 7. A questo punto si potrebbe chiedere come avviene che, in base al principio dell’etica privata, lasciando fuori discussione la legislazione e la religione, la felicità di un uomo dipenda da quelle parti della sua condotta che almeno immediatamente non colpiscono la felicità di nessun altro oltre a lui stesso. Questo equivale a chiedere quali moventi, indipendentemente da quelli che possono fornire la legislazione e la religione, un uomo possa avere per tener conto della felicità di un altro; da quali moventi, o, che è la stessa cosa, da quali obblighi, può essere costretto ad obbedire ai dettami della probità e della beneficenza. Nel rispondere a queste domande, non si può non ammettere che gli unici interessi dei quali un uomo ha sicuramente adeguati motivi per tener conto, sempre e in ogni occasione, sono i suoi. Nonostante ciò, non ci sono occasioni in cui un uomo non possieda qualche motivo per tener conto della felicità di altri uomini. In primo, luogo, in ogni occasione, egli ha il movente puramente sociale della simpatia o benevolenza; in secondo luogo, possiede, nella maggior parte delle occasioni, i moventi semisociali dell’amore dell’amicizia e dell’amore della reputazione. Il movente della simpatia agirà su di lui con maggiore o minore effetto, a seconda dell’inclinazione della sua sensibilità; gli altri due moventi agiranno su di lui a seconda di una varietà di circostanze, soprattutto a seconda della forza dei suoi poteri intellettuali, della fermezza e stabilità della sua mente, della quantità della sua sensibilità morale e del carattere delle persone con cui ha a che fare. § 8. Ora, l’etica privata ha la felicità come suo fine, e la legislazione non può averne altri. L’etica privata riguarda ciascun membro, cioè la felicità e le azioni di ogni membro di qualsiasi comunità che possa venir individuata, e la legislazione non può prefiggersi altro. Fin qui, quindi, etica privata e arte della legislazione procedono di pari passo. Il fine cui mirano, o cui dovrebbero mirare, è della stessa natura. Le persone alla cui felicità dovrebbero mirare, come anche le persone di cui dovrebbero occuparsi di dirigere la condotta, sono precisamente le stesse. Gli stessi atti che dovrebbero trattare sono in gran parte gli stessi. Ma allora dove sta la differenza? Nel fatto che gli atti che dovrebbero trattare, per quanto gli stessi in gran parte, non lo sono perfettamente ed interamente. Non c’è nessun caso in cui un privato individuo non dovrebbe dirigere la sua condotta verso la produzione della felicità sua e dei suoi simili; ma ci sono casi in cui il legislatore non dovrebbe (almeno non in modo diretto e con una pena assegnata immediatamente a particolari atti individuali) tentare di dirigere la condotta dei vari altri membri della comunità. Ciascun individuo dovrebbe compiere da sé ogni atto che prometta benefici per l’intera comunità (incluso lui stesso): ma il legislatore non dovrebbe costringerlo a compiere nessuno di questi atti. Ciascun individuo dovrebbe evitare da sé di compiere ogni atto che prospetti pericoli per l’intera comunità (incluso lui stesso): ma il legislatore non dovrebbe costringerlo ad evitare di compiere tutti questi atti. § 9. Dove quindi va tracciata la linea di separazione? Non dovremo cercarla lontano. Si tratta di dare un’idea dei casi in cui l’etica dovrebbe e la legislazione non dovrebbe, (almeno non in maniera diretta) interferire. Se la legislazione interferisce in maniera diretta, deve farlo con la pena. Ora abbiamo già indicato i casi in cui la pena, intendo la punizione della sanzione politica, non dovrebbe essere inflitta. Ora, se tra questi casi ve ne sono alcuni in cui, mentre la legislazione non dovrebbe interferire, l’etica privata interferisce, o dovrebbe farlo, allora questi casi serviranno a mettere in rilievo i confini tra le due arti o settori di questa scienza. Questi casi, si può ricordare, sono di quattro tipi: a. I casi in cui la pena sarebbe infondata. b. I casi in cui sarebbe inefficace. c. I casi in cui sarebbe infruttuosa. d I casi in cui sarebbe non necessaria. Esaminiamo tutti questi casi, e vediamo se in ciascuno di essi ci sia spazio di intervento per l’etica privata, pur non essendocene per il diretto intervento della legislazione. § 10. (a) Vediamo quindi prima i casi in cui la pena sarebbe infondata. In questi casi è evidente che anche l’intervento restrittivo dell’etica sarebbe privo di fondamento. È per il fatto che nel complesso non c’è del male nell’atto, che la legislazione non dovrebbe sforzarsi di prevenirlo. Per la stessa ragione non dovrebbe farlo l’etica privata. § 11. (b) Quanto ai casi in cui la pena sarebbe inefficace, questi si possono dividere in due gruppi o classi. I primi non dipendono affatto dalla natura dell’atto, ma solo da un difetto nel momento scelto per punire. La pena in questione non è altra che quella che, a quanto sembra, avrebbe dovuto essere assegnata all’atto in questione. Tuttavia, avrebbe dovuto esserlo in un momento diverso, cioè non prima di essere stata appropriatamente resa nota. Questi sono i casi di una legge ex-post-facto, di una sentenza giudiziale al di là della legge, e di una legge non sufficientemente divulgata. Gli atti qui in questione quindi, potrebbero, per quel che sembra, rientrare appropriatamente anche nell’ambito di una legislazione coercitiva: e quindi è naturale che rientrino in quello dell’etica privata. Per quanto riguarda l’altro gruppo di casi in cui la pena sarebbe inefficace, neanche questi dipendono dalla natura dell’atto, cioè dal tipo di atto, ma solo da alcune circostanze estranee che può capitare accompagnino un atto di qualunque tipo. Questi casi, comunque, sono di una natura tale da escludere non solo l’applicazione della pena legale, ma in genere da lasciare poco spazio all’influenza dell’etica privata. Sono i casi in cui la volontà non può essere distolta da alcun atto nemmeno dalla forza straordinaria di una punizione artificiale, come nella prima infanzia, nella pazzia e nella totale ubriachezza; perciò ovviamente non potrebbe esserlo nemmeno da una forza così debole e precaria come quella che potrebbe essere applicata dall’etica privata. Sotto questo rispetto il caso è lo stesso nelle circostanze di inintenzionalità rispetto all’evento dell’azione, inconsapevolezza delle circostanze, errata supposizione sull’esistenza di circostanze che non esistevano, ed anche nel caso in cui la forza, anche di una punizione straordinaria, è resa inoperativa dalla forza superiore di un pericolo fisico o di un danno minacciato. È evidente che in questi casi, se i tuoni della legge si rivelano impotenti, i sussurri della semplice moralità non potranno avere che una minima influenza.

 

(J. Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, cap. IV)