BERGSON, INTELLIGENZA E INTUIZIONE
Il nostro spirito, che cerca punti d'appoggio solidi, ha come principale funzione, nel corso ordinario della vita, di rappresentarsi stati e cose. Esso prende, di quando in quando, vedute quasi istantanee sulla mobilità indivisa del reale. E ottiene, così, sensazioni e idee, sostituendo al continuo il discontinuo, alla mobilità la stabilità, alla tendenza in via di mutamento i punti fissi che segnano una direzione del mutamento e della tendenza. Questa sostituzione è necessaria al senso comune, al linguaggio, alla vita pratica e perfino, in una certa misura che cercheremo di determinare, alla scienza positiva. La nostra intelligenza, quando segue la sua china naturale, procede per percezioni solide da un lato, e per concezioni stabili dall'altro: parte dall'immobile e non concepisce e non esprime il movimento se non in funzione dell'immobilità; si installa in concetti già fatti e si sforza di prendervi, come in una rete, qualcosa della realtà che passa. Non certo allo scopo di ottenere una conoscenza interiore e metafisica del reale: ma semplicemente di servirsene, dato che ogni concetto (come, d'altronde, ogni sensazione) è una domanda pratica che la nostra attività pone al reale, e a cui il reale risponderà, come si conviene in affari, con un sì o con un no. Ma con ciò essa si lascia sfuggire ciò che, del reale, è l'essenza medesima. [...] Ma dall'impossibiltà in cui ci troviamo di ricostruire la realtà vivente con concetti rigidi e già fatti non segue che non possiamo coglierla in qualche altra maniera. Le dimostrazioni che si son date della relatività della nostra conoscenza son dunque inficiate di un vizio originario: come il dogmatismo che esse attaccano, suppongono che ogni conoscenza debba necessariamente partire da concetti con contorni fissati per afferrare con essi la realtà che scorre.
Ma la verità è che il nostro spirito può seguire il cammino inverso. Può installarsi nella realtà mobile, adottarne la direzione continuamente mutevole, coglierla, insomma, intuitivamente. Per questo occorre che si faccia violenza, e inverta il senso dell'operare con cui pensa di solito, e rovesci o, piuttosto, rifonda senza tregua le sue categorie. Esso metterà capo, così, a concetti fluidi, capaci di seguire la realtà in tutte le sue pieghe e di adottare il movimento stesso della vita interna delle cose. Solo così si costituirà una filosofia progressiva, liberata dalle dispute che si scatenano tra le scuole, capace di risolvere naturalmente i problemi per essersi liberata dei termini artificiosi che si eran scelti per porli. Filosofare consiste nell'invertire la direzione abituale del lavoro del pensiero.
La coscienza, nell'uomo, è soprattutto intelligenza. E avrebbe potuto, anzi avrebbe dovuto, pare, essere anche intuizione. Intuizione e intelligenza rappresentano due direzioni opposte dell'attività cosciente: l'intuizione procede nel senso stesso della vita, l'intelligenza marcia in senso opposto, e si trova quindi, del tutto naturalmente, regolata sul movimento della materia . Un'umanità completa e perfetta sarebbe quella in cui queste due forme dell'attività cosciente raggiungessero il loro pieno sviluppo. Tra questa umanità e la nostra si possono ammettere, d'altronde, una quantità di intermediari possibili, corrispondenti a tutti i gradi immaginabili dell'intelligenza e dell'intuizione. Ecco dove la contingenza incide nella struttura mentale della nostra specie. Un'evoluzione differente avrebbe potuto condurre ad una umanità, o ancora più intelligente, o più intuitiva. Infatti, nell'umanità di cui facciamo parte, l'intuizione è quasi completamente sacrificata all'intelligenza. Sembra che nello sforzo di conquistare la materia, e di riconquistare se stessa, la coscienza abbia dovuto esaurire le sue migliori energie. Tale conquista, nelle particolari condizioni in cui s'è compiuta, richiedeva che la coscienza si adattasse alle abitudini della materia e concentrasse su esse tutta la sua attenzione, cioè che si determinasse specialmente come intelligenza. L'intuizione tuttavia c'è sempre, ma è vaga, e soprattutto discontinua. È una lampada quasi spenta, che solo di tanto in tanto si riaccende, appena per qualche istante. Essa si ravviva, in sostanza, là dove è in gioco un interesse vitale. Sulla nostra personalità, sulla nostra libertà, sul posto che occupiamo nell'insieme della natura, sulla nostra origine e forse anche sul nostro destino, essa proietta una luce debole e vacillante, ma che tuttavia riesce a rompere l'oscurità della notte in cui ci lascia l'intelligenza.
Di queste intuizioni fuggevoli, capaci di illuminare il loro oggetto solo a lunghi intervalli, la filosofia deve impadronirsi, prima per conservarle in vita, e poi per ampliarle e accordarle tra loro. Più progredisce in questo lavoro, più si rende conto che l'intuizione è lo spirito stesso e quasi la stessa vita: l'intelligenza vi si ritaglia attraverso un processo che imita quello da cui è scaturita la materia. Appare così l'unità della vita mentale. La si riconosce solo se ci si pone nell'intuizione, per procedere di lì all'intelligenza, poiché dall'intelligenza non si passerà mai all'intuizione. (L'evoluzione creatrice)