Campanella, Verbali delle torture

Convinto che oracoli e profezie avessero annunciato imminenti sconvolgimenti naturali e sociali e l’avvento di  una nuova epoca, Campanella si propose di dare un contributo organizzando un complotto contro il governo spagnolo; arrestato nel 1599, egli fu processato a Napoli per ribellione e per eresia. Il processo stava volgendo al peggio per il filosofo, quando egli decise di salvarsi la vita adottando una strategia nuova: quella di fingersi pazzo. Campanella riuscí a tenere duro anche sotto tortura. Dopo un anno i suoi giudici, nonostante fossero convinti che egli fingesse, non essendo riusciti a dimostrarlo, lo dichiararono ufficialmente folle. Anche la testimonianza del secondino [vedi ultima parte della lettura] non fu considerata giuridicamente sufficiente. Cosí Campanella ebbe salva la vita. Ma dovette scontare molti anni di carcere prima della definitiva liberazione.

Questo episodio mostra il modo di ragionare dei giudici di allora. Essi erano convinti che la tortura fosse un indispensabile strumento per giungere alla verità. Da ciò conseguiva che se uno resisteva alla tortura, dava una prova di non colpevolezza tale da non poter essere condannato. Pietro Verri, nel XVIII secolo, dimostrerà poi l’assurdità di tali convinzioni.

 

Firpo, Il supplizio di Tommaso Campanella, Verbale del supplizio della “veglia”

 

Giorno 4 di giugno 1601, a Napoli, nel regio Castel Nuovo, al cospetto dell’illustrissimo signor Jacopo Aldobrandini, vescovo di Troia, nunzio apostolico in questo regno, dell’illustre e reverendissimo signore don Benedetto Mandina, vescovo di Caserta, e del reverendissimo signor Ercole Vaccari, protonotario apostolico e vicario generale di Napoli, giudici delegati nonché di me notaio. Alonso Martinez, carceriere delle prigioni del Castel Nuovo, per ordine dei Signori predetti condusse alla loro presenza fra Tommaso Campanella, il quale, ritto in piedi di fronte ai Signori, essendo stato invitato a giurare di dire la verità, non volle farlo, dicendo invece: “Il Signore Iddio lo ha giurato. Accorri in mio soccorso!”. E cosí i Signori ammonirono lo stesso fra Tommaso a voler smettere la simulazione di follia e di insipienza, perché era ormai giunto il momento di ravvedersi, altrimenti sarebbe andato incontro a grossi guai.

Rispose: “Diece cavalli bianchi”.

E venendo interrogato dai Signori su molti altri punti, sempre rispose in modo incongruente.

Allora i Signori giudici, dando esecuzione alla lettera dell’illustrissimo e reverendissimo signor Cardinale di Santa Severina datata da Roma il 24 marzo prossimo passato, allo scopo di mettere alla prova la simulazione predetta, ordinarono che lo stesso fra Tommaso venisse sottoposto al supplizio chiamato “la veglia”, cioè posto su un supporto di legno, sopra del quale venne legato; e mentre si cominciava a legarlo disse: “Legatimi bene. Vedete che mi stroppiati. Ohimè, Dio! Ohimè, Dio!”. E fu legato a sedere su quel supporto detto “il cavallo”, con le mani dietro le spalle, appeso alla fune della tortura, ed era l’undicesima ora.

Interrogato daccapo a deporre la simulazione, invocò a gran voce: “Monsignor, non vi ha fatto dispiacere! Biàsciami, che sono un santo!”; e diceva: “Sono santo! abbi pietà! ohimè, Dio, che son morto! ohimè, Dio, frate mio! Io letto mio! Marta e Madalena! ohimè, cor mio! E come mi strengano forte le mani! Oh, che son santo e non ho fatto male e son patriarca! Aiutami, che moro! Mi se’ parente e mi fai queste cose? oh, mamma mia!, oh, misericordia! oh, Cristo mio! E l’altra notte fra Dionisio mi portò lo breve de la Cruciata e non me lo volete dare mo. Ohimè, Dio! E come mi strengio forte! io mi stroppio”, e spesso, gridando, diceva: “Ohimè!”.

E sottoposto al supplizio predetto diceva: “Ohimè, dove sono li soldati miei che mi aiutano? Venite, venite, frate mio! Fra Silvestro fu e non fui io, non fici niente io, che ho fatto la Biblia. Non, per Dio, fui io! Ohi, che moro e bruscio! Non, per Dio, fui io! Aiutatemi, frate mio, che casco!”.

Interrogato a smettere la simulazione, diceva: “Ohimè, frate mio, chiamate pàtrimo! [si riferisce al padre, Gerolamo, ndr] Mi spogliaro. Non mi ammazzate!”; e mentre diceva queste cose disse: “Stoiàtimi lo naso”, il che venne fatto; e poi diceva: “Per Dio, non fui io, fu fra Silvestro”; e rivolto al signor Vicario di Napoli diceva: “Sí l’arciprete. Lassatimi stare, che vi do quindici carlini. Per Dio, che non fici niente!”.

E venendogli detto di deporre del tutto la sua simulazione, disse: “Ohimè!”. E dopo esser stato legato per i piedi diceva: “Ohimè, che mi ammazzati!”.

E venendogli detto di smettere la simulazione, disse: “Non, frate! non, frate! ohimè, che son morto! Mille e seicento”: e venendo toccato dall’aguzzino, strillò dicendo: “Non mi toccare, che sii squartato! Mo me ne vado, frate!”.

E ripetutamente ammonito dai Signori a deporre la simulazione, diceva: “Ohimè, che son morto!”. E avendo udito il suono delle trombette delle triremi attraccate al molo presso il Castel Nuovo, diceva: “Sonate, sonate! Son ammazzato, frate!”.

E ammonito a voler smettere la simulazione, vedendo aperta la porta della camera, diceva: “Aprimi!” e, rivolto all’aguzzino, diceva: “Eh, frate! eh, frate!”.

E venendogli detto di deporre la simulazione, non rispose alcunché, ma per un certo spazio di tempo rimase taciturno a capo chino; e poi, toccato dall’aguzzino, si volse verso di lui e disse: “Eh, frate!” e continuò per la durata di un’ora a rimanere col capo e il busto chinati.

E venendogli detto di voler deporre di fatto la simulazione, non rispondeva cosa alcuna.

E piú volte interrogato se voleva scendere, perché sarebbe stato sciolto se aveva intenzione di giurare e di rispondere formalmente alle domande che gli sarebbero state proposte, giú altre volte formulate o da formulare, fece solo un cenno col capo, ma rifiutò di dare una risposta per il sí o per il no.

E poiché diceva: “Mo mi piscio” e voleva esser calato a tale effetto, venne calato; e poi disse: “Mo mi caco”, e venne tradotto alla latrina, per esser poi condotto al cospetto dei Signori.

E interrogato dai Signori circa il suo nome, rispose: “Mi chiamo fra Tommaso Campanella”.

Interrogato circa la sua patria d’origine e la sua età, non diede alcuna risposta alle domande.

Allora i Signori ordinarono che lo stesso fra Tommaso Campanella venisse sottoposto al supplizio predetto, e come vi fu collocato e sistemato nel modo predetto, ecco che diceva: “Mo mi ammazzati, ohimè, ohimè!” e tacque.

Interrogato a smettere la simulazione, non rispose alcunché alle domande, ma poiché l’aguzzino gli diceva: “Non dormire!”, egli, rivolto a lui, rispondeva: “Sedi, sedi alla seggia, taci, taci”.

E quando l’aguzzino gli parlava, rispondeva: “Zitto, zitto, frate mio!”.

E avendolo invitato i Signori a rispondere alle domande, cioè quale fosse la sua patria d’origine e quale la sua età, rispose: “Aiutami, frate!” e tacque.

E avendogli detto i Signori di smettere la pazzia e di rispondere alle domande, non diede nessuna risposta alle interrogazioni, e taceva.

Ed essendo stato ammonito piú volte a voler deporre la follia e a rispondere alle domande, benché piú volte interrogato, non diede alcuna risposta, e taceva.

E dopo essere rimasto sotto il suddetto tormento senza interruzione ed essendo la ventiquattresima ora, uno dei Signori lo invitò a chiedere qualcosa ai Signori, ma egli, scuotendo il capo, diceva: “Ohimè, ohimè!” e tacque.

E i signori gli dissero di smettere la pazzia e di rispondere alle domande, e lui, fissando i Signori, gridava dicendo: “Ohimè!”.

E come fu sonata la prima ora di notte, gli fu detto dai Signori di smettere e di rispondere alle domande circa la sua età e la sua patria d’origine, ed egli guardava i Signori, e gridò: “Non fati, che ti sono frate!” e tacque.

E venendogli detto dai Signori di voler finalmente smettere la follia e di rispondere alle domande, disse: “Dàtimi da bere”, e cosí gli fu dato da bere, e poi gridò, dicendo: “Aiutami, gioia mia!”.

E ammonito ripetutamente dai Signori a voler deporre la pazzia e quindi a rispondere puntualmente alle domande, taceva, ma sembrava in grado di capire e percepire con attenzione le parole che gli erano dette e i richiami a lui formulati, e poi diceva: “Cicco vono l’ammazzò”.

E intanto batté la seconda ora di notte, e gli fu detto di smetter la pazzia e di dire la sua età e patria, e non dava nessuna risposta alle domande, ma diceva: “Oh, Iddio, non mi ammazzati, frate mio!” e fissava quanti stavano attorno.

E interrogato perché manifestasse la propria patria, e se era laico o religioso, disse alcune parole incongruenti, e poi diceva: “Sono de Stilo, e sono frate dell’ordine di San Domenico e da messa”; e disse queste cose dopo molte, anzi moltissime ammonizioni, e diceva anche: “Fici lo monastero di Santo Stefano con tre monaci, e presi l’abito alla Motta Gioiosa, dove è Lucrezia mia sorella e Giulio mio fratello”, e tacque.

Poi diceva: “Mia sorella si chiama Emilia, figlia di mio zio, e io la maritai”.

E poiché chiede da bere, dicendo: “Dàtimi a bevere vino”, gli fu dato da bere del vino. E poi diceva: “Ohimè, tutto mi doglio!”.

E interrogato piú volte, non rispondeva alle domande, ma diceva: “Zitto, frate mio!”.

E venendogli detto di rispondere a quanto gli viene proposto, smettendo la pazzia, diceva: “Ohimè, non mi ammazzati! tu mi se’ frate”.

E venendogli detto di smettere la pazzia e di rispondere a quello che gli si diceva, non dava alcuna risposta alle domande, ma riguardava gli astanti volgendosi ora qua e ora là, dicendo: “Son morto! non mi ammazzati! chiamàti pàtrimo!” e di tanto in tanto diceva: “Zitto, frate mio!” e altre cose senza senso.

Ed essendo stato richiamato lungo l’intero corso della notte col dirgli: “Fra Tomasi Campanella, che dici? non parli?”, non diceva cosa alcuna, ma rimase sempre sveglio, guadando qua e là, essendo state accese le candele.

E spuntato che fu il giorno, aperte le finestre e spenti i lumi, dato che detto fra Tommaso Campanella se ne stava in silenzio, gli fu detto di smettere la pazzia, e di parlare, e di chiedere qualcosa; e lui rispondeva: “Moro, moro!”.

E venendogli detto di smettere la pazzia e di dire quando e da chi venne catturato e per qual causa, rispondeva: “Son morto, son morto non posso piú, non posso piú per Dio!” e tacque.

Interrogato a smettere la pazzia e a rispondere a quanto gli viene detto, rivolto verso chi lo interrogava, diceva: “Moro, moro!”.

E poiché sembrava sul punto di svenire, i Signori ordinarono di calarlo dal supplizio predetto e di farlo sedere, e cosí fu fatto, e stando seduto diceva di voler orinare, e venne tradotto alla latrina esistente vicino alla stanza della tortura: e poco dopo suonò l’undicesima ora.

E dato che chiedeva delle uova, i Signori ordinarono di dargliele, e cosí gli furon date tre uova da bere; e alla domanda se volesse bere rispondeva di sí, e cosí al predetto fra Tommaso venne dato da bere del vino; e avendo detto che si sentiva morire, i Signori gli domandarono se voleva confessare i propri peccati, e rispose di sí e che venisse chiamato un confessore, che però non venne chiamato perché si riebbe.

E avendo i Signori ordinato di tornare a sottoporlo al predetto supplizio, rispose: “Lasciatimi stare!”.

E venendogli domandato perché avesse tante preoccupazioni per il corpo e nessuna per l’anima, rispose: “L’anima è immortale”.

E volendo gli aguzzini ricollocarlo al supplizio, diceva: “Aspettàti, frate mio”, e venne cosí risistemato nel modo predetto, senza che dicesse una parola.

E dopo essere rimasto sotto il tormento in atteggiamento quieto e silenzioso, disse poi all’aguzzino di spostare piú in alto la fune che gli legava i piedi, perché se li sentiva in fiamme, e i Signori ordinarono che si facesse quanto chiedeva, e cosí continuò a starsene tranquillo.

Interrogato dai Signori se volesse dormire, rispose di sí.

E venendogli detto di rispondere alle domande, perché avrebbe avuto agio di dormire, non diede risposta.

E sotto al tormento gridava, dicendo ripetutamente: “O mamma mia!”.

E dopo la quindicesima ora diurna, con l’occasione della chiamata di fra Dionisio Ponzio per interrogarlo sul riconoscimento di un certo memoriale da lui presentato, i Signori ordinarono al detto fra Dionisio di rivolgersi a detto fra Tommaso posto sotto il tormento e di convincerlo a voler rispondere formalmente alle domande che gli venivano poste e gli sarebbero state poste in futuro, allo scopo di evitare il supplizio, che per lui era del tutto senza scopo, e che senza fallo il sant’Uffizio avrebbe trovato il modo di avere le sue risposte con qualunque mezzo; il quale fra Dionisio svolse quel compito con buona diligenza e modi affettuosi, e discusse e dibatté con lui la questione proposta; e a lui disse che intendeva rispondere alle domande che i Signori gli avrebbero fatte; e allo stesso fra Tommaso fu concesso di venir calato dal supplizio e di rifocillarsi con cibo e bevanda, e per di piú gli fu permesso di recarsi alla latrina in compagnia del predetto fra Dionisio; nel che si consumò lo spazio di oltre un’ora, e poi i Signori ordinarono che si sedesse su uno sgabello vicino al tavolo e lo esortarono a volersi ravvedere, visto che era ormai stremato dalle torture, e a rispondere in forma legale alle domande già fatte e da farsi.

E in modo particolare che narri in qual modo si trovi detenuto in questo Castello. Rispose: “Che voliti da me?”.

E i Signori, rendendosi conto del fatto che detto fra Tommaso forniva solo parole, ordinarono di ricollocarlo sotto il tormento; e lui, cosí sistemato, mostrò all’evidenza di non sentire alcun dolore, e non diceva verbo.

E visto che detto fra Tommaso Campanella se ne stava sempre in totale silenzio, non faceva il minimo movimento e sembrava che non sentisse alcun dolore, e dato che altro non si poteva cavare da lui, che di tanto in tanto ripeteva: “Moro, Moro!”, i Signori ordinarono di farlo scendere con delicatezza dal supplizio predetto, di ridurgli le lussazioni, di rivestirlo e di ricollocarlo nella sua cella, dopo che era rimasto sotto al predetto tormento per circa trentasei ore, e cosí fu fatto, non senza però la formale protesta ecc.

 

Giovan Cammillo Prezioso

notaio e mastrodatti delle cause della Santa Fede

nella Curia arcivescovile di Napoli.

 

Deposizione di un aguzzino

 

Il 20 del mese di luglio 1601, in Napoli, al cospetto dell’illustrissimo e reverendissimo signore don Benedetto Mandina, vescovo di Caserta, giudice delegato alla presente causa, e di me notaio ecc. è stato interrogato Giacomo Ferraro della città di Trani, in età di anni, a suo dire, quaranta all’incirca, addetto alla Gran Corte della Vicaria, il quale, dopo essere stato invitato a giurare di dire la verità e dopo che ebbe giurato con la mano ecc., in qualità di citato a deporre venne interrogato sui punti seguenti,. e in primo luogo:

Interrogato su “che parole si lasciò dire fra Tommaso Campanella dopo che fu sceso dal tormento della veglia, che li fu dato allo Castello Novo di questa città li giorni passati, e proprio del mese di giugno prossimo passato, che le voglia dire, dove le disse e chi fu presente che l’intese e possío intendere”.

Rispose: “La verità è che, essendo io intervenuto come ministro de la Gran Corte de la Vicaria a dare tormento de la veglia a fra Tomaso Campanella predetto, dove io intervenni continuamente, avendomelo posto in collo per consegnarlo allo carceriero delle carceri di detto Castello Novo, e cacciatolo cosí in collo da la camera dove ebbe lo tormento fino a la sala Reale, detto fra Tomaso Campanella mi disse da sé le formate o simili parole: – Che si pensavano che io era coglione, che voleva parlare? – e a queste parole non ci fu nessuna persona presente, che l’avesse intese. E dopo consegnai lo detto fra Tomaso Campanella al carceriere e non intesi altro”. Come sopra ha risposto su quanto sa, sul luogo e la data.

E non essendosi potuto da lui ricavare altro, l’interrogatorio venne chiuso, dopo avergli intimato l’obbligo del segreto, sotto pena di scomunica; e avendo dichiarato di non saper scrivere, firmò per conseguenza con un segno di croce.

 

G. Olmi, Il santo rogo e le sue vittime, Millelire Stampa Alternativa, Viterbo, 1993, pagg. 51-59. Il documento qui riportato è tratto da una raccolta pubblicata da Luigi Amabile in un’opera in tre volumi: Fra Tommaso Campanella, la sua congiura, i suoi processi e la sua pazzia , Morano, Napoli, 1882. Lo storico Luigi Firpo li ha ripresi nella sua edizione de Il supplizio di Tommaso Campanella , Salerno Editrice, Roma, 1985.