Tutto l’episodio dell’ambasceria viene
inserito da Cicerone in un dialogo – significativamente intitolato De re pubblica (“Sullo stato”) –
che egli immagina avvenuto fra Scipione e alcuni suoi amici. La posizione di
Carneade viene riportata da uno degli interlocutori, di nome Filo. Questa parte
del dialogo ci è pervenuta con numerose lacune e ne conosciamo l’essenziale
solo perché possiamo usufruire di altre fonti, soprattutto Lattanzio e
Agostino, che si rifanno direttamente all’opera di Cicerone. Per questo alcuni
particolari non sono chiari; risulta comunque evidente la forte impressione per
questo episodio che dopo cento anni ancora perdurava nel ricordo dei Romani. È
significativo il fatto che Cicerone attribuisca l’efficacia dei ragionamenti di
Carneade anche all’ignoranza dei suoi ascoltatori nel campo della filosofia.
Cicerone, De re publica, III, 6-7
1 Mandato ambasciatore dagli Ateniesi a
Roma, [Carneade] discusse con abbondanza d’argomenti intorno alla giustizia in
presenza di Galba e di Catone il Censore, che erano allora i piú grandi
oratori. Ma il medesimo all’indomani capovolse la discussione ed annientò
quella giustizia di cui aveva tessuto l’elogio il giorno precedente, non certo
con quella gravità filosofica che deve essere salda e coerente di pensiero, ma
alla maniera, per cosí dire, retorica, propria dell’esercitarsi nel discutere
il pro ed il contro di una tesi; cosa che egli era solito fare per poter
confutare gli avversari qualunque cosa affermassero. <...>
2 Poiché si ignorava che cosa fosse, onde
scaturisse, qual compito avesse, questa somma virtú [la giustizia], cioè bene
comune a tutti, la attribuirono a pochi e dissero che essa non partecipava di
alcun vantaggio suo proprio, ma si indirizzava soltanto al comodo altrui. E non
senza ragione comparve Carneade, uomo dotato di eccezionale genialità ed acume,
a confutare il pensiero di costoro ed a distruggere la giustizia, che non aveva
stabile fondamento, non già perché pensasse che essa dovesse essere ingiuriata,
ma per dimostrare che i suoi difensori discutevano intorno alla giustizia senza
avere alcun fondamento certo e solido.
(Cicerone, Opere politiche e filosofiche, UTET, Torino, 1953, vol.
I, pag. 173)