Cicerone,
il quale ha della politica un'esperienza diretta e sa quanto la pratica di essa
sia importante, considera l'atteggiamento dei filosofi contraddittorio. Nella
critica sono presi di mira soprattutto Platone ed Epicuro.
De re
publica, I, 6
Non c'è dunque possibilità di soccorrer
lo Stato occasionalmente o quando tu lo desideri, sebbene esso sia incalzato
dai pericoli, salvo che tu ti trovi in una posizione che ti permetta di farlo.
Nei discorsi dei filosofi mi sembra stupefacente in un modo straordinario
proprio questo, che appunto costoro che affermano di non poter fare i nocchieri
durante la bonaccia, per non averlo imparato né essersi mai curati di saperlo,
i medesimi poi dichiarino di esser disposti a mettersi al timone nel pieno
infuriare della tempesta. Costoro infatti predicano e si vantano di non aver
mai appreso né di insegnare alcunché di attinente ai princípi della fondazione
e della conservazione degli Stati, e considerano tale conoscenza come riservata
non già ai filosofi ed ai saggi ma ai tecnici della materia. Perché allora
promettere la propria opera allo Stato per allora soltanto quand'essi vi si
trovino costretti dalla necessità? mentre poi non sanno reggerlo quando non
incalza nessun rischio ed è molto piú agevole. E quand'anche fosse vero che il
saggio non è solito scendere nel pubblico aringo, salvo non ricusare tale
còmpito quando vi sia costretto dai tempi, ciò nondimeno riterrei che per nulla
egli dovrebbe trascurare questa conoscenza dei problemi politici, in quanto
dovrebbe apprestare tutti quei dati di cui non sa se un giorno o l'altro non
debba servirsi.
(Cicerone, Opere
politiche e filosofiche, UTET, Torino, 1953, vol. I, pagg. 85-86)