Nelle Tusculanae disputationes (I, III)
Cicerone aveva scritto: “La filosofia è rimasta fino ad oggi negletta e su di
essa la letteratura latina non ha fatto nessuna luce; ma io debbo illuminarla
ed esaltarla, cosí che, se nelle attive faccende della vita, io sono stato di
qualche utilità ai miei concittadini, potrò esserlo anche, se mi riuscirà,
standomene ozioso”. Nel passo che segue egli ribadisce che si è messo a
scrivere per cause di forza maggiore: che ritiene che i suoi scritti filosofici
possano servire a “trarre buon frutto dall’ozio”.
De officiis, III, 3-4
[...] Ma poiché ci è stato insegnato
dai filosofi che occorre non soltanto scegliere i minori dei mali, ma anche
ricavarne quel qualche po’ di bene che possa esservi, per questo cerco di
trarre buon frutto dall’ozio – non proprio da quello che sarebbe dovuto toccare
a colui che aveva un tempo procurato la pace alla città – e non mi lascio
illanguidire in quella solitudine che mi fu procurata da una forza maggiore,
non già dalla mia volontà. Pur tuttavia l’Africano, a mio parere, conseguí una
gloria maggiore. Non resta infatti nessun ricordo del suo ingegno affidato agli
scritti, nessun frutto del suo ozio, nessun lavoro della sua solitudine. Se ne
deve dunque concludere ch’egli mai se ne stette realmente ozioso e solo, per
l’agitarsi del suo pensiero e la scoperta di quanto egli andava meditando. Noi
invece che non abbiamo tanto vigore, da astrarci dalla solitudine in una
silenziosa meditazione, abbiamo rivolto ogni interesse e preoccupazione nostra
a questo ufficio dello scrivere. Cosí scrivemmo di piú nel breve tempo in cui
lo Stato fu sovvertito di quanto in molti anni mentre durarono i suoi buoni
ordinamenti.
(Cicerone, Opere politiche e filosofiche, UTET, Torino, 1953, vol.
I, pag. 455)