Cicerone, Teoria e pratica

         Qui Cicerone critica direttamente Platone e coloro (siano essi stoici o epicurei) che si disinteressano della vita politica, dimostrando quanto sia inadeguata la loro concezione della giustizia, e sostiene apertamente la superiorità della pratica politica sulla teoria, la quale tuttavia mantiene una sua importanza.

 

De officiis, I, 28-29, 157

 

1      Molte sono solitamente le ragioni per cui si tralascia la difesa e si tradisce il dovere: non ci si vuol accollare inimicizie, brighe o spese, ovvero per negligenza, pigrizia, inerzia, o ancora si è impediti dai propri interessi ed occupazioni in maniera tale da non preoccuparsi che vengano abbandonati quelli che si dovrebbe proteggere. Ci sarebbe da pensare che non sia sufficiente quanto si dice in Platone a proposito dei filosofi, che sono giusti soltanto perché si occupano della ricerca del vero, e perché tengono in dispregio ciò appunto che il volgo brama intensamente e per cui suole scannarsi a vicenda. Certamente essi perseguono il primo genere di giustizia, di non nuocere ad alcuno recandogli offesa; cadono però nel secondo, abbandonando la difesa di chi debbono proteggere, impediti dal desiderio della scienza. Cosí egli ritiene che costoro nemmeno si dovrebbero dedicare alla politica, se non costrettivi. Sarebbe però stato piú giusto se vi si dedicassero volontariamente, poiché la rettitudine è virtuosa soltanto a condizione di essere volontaria. Vi sono inoltre di quelli che dicono, o per preoccupazioni patrimoniali o per una sorta di misantropia, di badare agli affari loro e di non far del male a nessuno. Anche costoro, pur esenti da un genere di ingiustizia, cadono nel secondo: trascurano la vita associata, senza contribuirvi con alcun interesse, con alcuna attività, con alcuna capacità.

         [...]

2      Come gli sciami delle api si riuniscono non già per costruire i favi, ma costruiscono questi in grazia del loro istinto associativo, cosí gli uomini si dedicano con solerzia all’azione ed alla speculazione in quanto naturalmente congregati in società, ancor piú delle api stesse. Pertanto ove quella virtú, che risulta dall’obbligo di proteggere gli uomini, cioè dalla sociabilità umana, non si unisca alla conoscenza teorica, quest’ultima sembra andar errando sterile e in solitudine. Parimenti la magnanimità senza il sentimento sociale e l’unione degli uomini non sarebbe che una sorta di inumana ferocia. Pertanto l’esigenza sociale e la comunione degli uomini ha la precedenza sull’interesse teorico.

 

(Cicerone, Opere politiche e filosofiche, UTET, Torino, 1953, vol. I, pagg. 357-358, 410)