Benjamin
Constant afferma che quando si instaura un sistema oppressivo (il riferimento
implicito è a Napoleone) la società intera ne ha un grande danno, le attività
si isteriliscono e gli uomini d’ingegno si dividono in cortigiani e sovversivi.
B.-H. Constant, de Constant, Dello spirito
di conquista e dell’usurpazione
L’uomo non ha soltanto bisogno di tranquillità, di industria, di felicità domestica, di virtú private. La natura gli ha dato anche alcune facoltà, se non piú nobili, almeno piú brillanti; e tali facoltà, piú di tutte le altre, sono minacciate dall’arbitrio, che dopo aver tentato di ridurle al suo servizio, irritato com’è dalla loro resistenza, finisce col soffocarle. “Vi sono”, dice Condillac, “due specie di barbarie: l’una precede i secoli civili, l’altra gli succede”. La prima, se la mettete a raffronto con la seconda, è uno stato desiderabile; ma soltanto verso la seconda l’arbitrio può oggi ricondurre i popoli; la cui degradazione, appunto per questo è piú rapida; giacché ciò che invilisce gli uomini non è di non avere una facoltà, ma di abdicare a lei.
Suppongo una nazione colta, arricchita dalle opere di parecchie generazioni studiose, che possegga capolavori d’ogni genere e abbia compiuto immensi progressi nel campo delle scienze e delle arti. Se l’autorità mettesse ostacoli alla manifestazione del pensiero e all’attività della mente, tale nazione potrebbe vivere per un po’ di tempo sugli antichi capitali, per cosí dire, con il sapere acquisito; ma nulla, nell’ambito delle sue idee, si rinnoverebbe; il principio riproduttore sarebbe isterilito.
[...]
Il pensiero è il principio d’ogni cosa; si applica all’industria, all’arte militare, a tutte le scienze, a tutte le arti; produce il progresso, e poi, analizzando tale progresso, allarga il proprio orizzonte. Se l’arbitrio vuole limitarlo, la moralità verrà ad essere meno sana, le cognizioni di fatto meno esatte, meno attive le scienze nel loro sviluppo, meno progredita l’arte militare, meno ricca di scoperte l’industria.
L’esistenza umana, aggredita nelle sue parti piú nobili, non tarda a sentire il veleno sin nelle parti piú lontane. Credete di averla soltanto limitata in una qualche libertà superflua, o diminuita di una qualche pompa inutile, e, invece, la vostra arma avvelenata l’ha ferita al cuore. Spesso, lo so, ci parlano di una presunta parabola che la mente umana percorre e che, dicono, riporta, per una inevitabile fatalità, l’ignoranza dopo il sapere, la barbarie dopo la civiltà. Malauguratamente per questo sistema, il dispotismo si è sempre introdotto tra l’una e l’altra di tali epoche; cosicché è difficile non accusarlo di contribuire in parte a codesta rivoluzione.
La vera causa di queste vicissitudini che si producono nella storia dei popoli è che l’intelligenza dell’uomo non può rimanere stazionaria: se non la fermate, avanza; se la fermate, indietreggia; se la scoraggiate riguardo alle sue possibilità, solo debolmente opererà ormai su ogni oggetto. È come se, indignata di vedersi esclusa dalla sfera che le è propria, volesse vendicarsi, con un nobile suicidio, dell’umiliazione che le. viene inflitta.
[...]
Aggiungiamo ora un’ultima considerazione, non priva d’importanza. L’arbitrio nel colpire il pensiero, ha chiuso all’ingegno la carriera sua piú bella; ma non può impedire che uomini d’ingegno vengano al mondo. Bisognerà pure che la loro attività si eserciti. Che cosa succederà, allora? Che si divideranno in due categorie: gli uni, fedeli al destino originario, avverseranno l’autorità; gli altri si precipiteranno nell’egoismo e asserviranno le proprie facoltà superiori all’accumulazione di tutti i mezzi atti a procurar piaceri, unico compenso che gli sia stato lasciato. In tal modo il dispotismo avrà diviso in due parti gli uomini d’ingegno. Gli uni saranno sediziosi, gli altri corrotti: verranno puniti, ma per un reato inevitabile. Se la loro ambizione avesse trovato campo libero per le sue speranze e i suoi onorevoli sforzi, gli uni sarebbero ancora pacifici e gli altri ancora virtuosi. La strada colpevole l’hanno cercata solamente dopo essere stati respinti dalle strade naturali che avevano il diritto di percorrere: e dico che ne avevano il diritto perché il lustro, la fama, la gloria appartengono alla specie umana: nessuno può legittimamente sottrarli ai suoi pari e fare appassir la vita privandola di ciò che la rende splendente.
F. Tonon, Auguste Comte e il problema
storico-politico nel pensiero contemporaneo, G. D’Anna, Messina-Firenze,
1975, pagg. 75-80