Cusano, La teologia apofatica

Cusano giustifica la teologia apofatica (negativa) facendo ricorso alla dottrina socratica della dotta ignoranza (“So di non sapere”). L'uso del dialogo rende ancora piú evidente la derivazione platonica del pensiero di Cusano. Il filosofo vuol fare emergere la necessità logica della Verità unica in un contesto in cui noi conosciamo le cose soltanto per congetture e la loro essenza ci sfugge sempre. Come non si può conoscere la serie dei numeri senza conoscere l'unità, così è impossibile conoscere le verità delle cose se non si conosce la Verità: ma questa è inconoscibile. Il dialogo si svolge tra un cristiano e un non cristiano (“gentile”).

 

N. Cusano, De Deo abscondito

 

Gentile. Oh! tu, che io vedo, devotissimamente prostrato, piangere lacrime d'amore, e certo non ingannevoli, anzi sgorganti dal fondo del cuore! Ma dimmi, di grazia, chi sei?

Cristiano. Sono un cristiano.

Gent. Che cosa adori?

Crist. Dio.

Gent. Ma chi è Dio che adori?

Crist. Non lo so.

Gent. Come puoi tu adorare cosí seriamente ciò che non conosci?

Crist. Perché ignoro, adoro.

Gent. Strano, io vedo qui un uomo che si attacca a qualcosa che non conosce.

Crist. Piú ci sarebbe da meravigliarsi se un uomo si attaccasse ad una cosa che egli credesse di conoscere.

Gent. Perché mai questo?

Crist. Perché quello che egli pretende di sapere, lo sa meno che quello di cui sa di non possedere la scienza.

Gent. Spiegati, per favore!

Crist. A me sembra che non sia in sé chiunque stimi di sapere qualche cosa, poiché nulla può essere saputo.

Gent. Ma io ho piuttosto l'impressione che non sia intieramente e affatto in senno tu, quando dici che nulla può essere saputo.

Crist. Io intendo per sapere il prendere possesso della verità; chi dice di sapere la verità, afferma con ciò di essersene impadronito.

Gent. E cosí appunto credo anch'io.

Crist. Ma in che modo potrebbe essere afferrata la verità, fuori dal caso che essa si colga da se stessa? Certamente non sarebbe possibile afferrarla, qualora ci dovesse essere da una parte “uno che l'afferra” e solo dopo di ciò qualcosa come un oggetto dell'afferrare.

Gent. Ma è questo che io non capisco, perché la verità non possa essere afferrata altro che da se stessa, in modo esclusivo.

Crist. Tu pensi, allora, che essa potrebbe essere afferrata anche diversamente e in qualcosa d'altro da sé?

Gent. Cosí suppongo.

Crist. Allora tu manifestamente erri, poiché fuori della verità stessa non c'è nessuna verità, come fuori della circolarità nessun cerchio e fuori dell'umanità nessun uomo. Non si troverà perciò nessuna verità fuori della verità stessa, né per altra via né in qualcosa d'altro.

Gent. Ma in qual modo mi è allora noto che cosa sia un uomo, e che cosa una pietra, e cosí via, per ogni singola cosa che so?

Crist. Ma tu non conosci veramente nulla di tutto ciò; tu hai solo la pretesa di conoscerlo. Se io ti interrogassi sulla essenza in particolare di ciò che tu pretendi di conoscere, allora tu mi dichiareresti di non saper esprimere l'autentica verità dell'uomo o della pietra. Tu sai che l'uomo non è una pietra, ma questo non ti risulta affatto da un sapere per cui tu possa effettivamente capire e l'uomo e la pietra e in che cosa stia la loro differenza. Ciò ti risulta piuttosto solo da qualcosa di accidentale, dalla diversità del comportamento e della figura, e sulla base di questa distinzione tu imponi nomi diversi. Cioè è solo un'attività della ragione descrittiva che impone i nomi.

Gent. C'è allora una sola verità, o ce ne sono molte?

Crist. Non ce n'è che una, perché c'è solo una unità. E verità e unità coincidono, dacché vero è che l'unità è una. Come dunque in ogni numero si trova soltanto la stessa unità, cosí nelle molte cose solo la stessa verità. Perciò chi non perviene all'unità non intenderà mai il numero, e chi non attinge la verità nell'unità non può effettivamente e veracemente intendere nulla. E benché egli pretenda di sapere veracemente qualcosa, se tu potessi cogliere quella stessa cosa nel suo sapersi da se stessa, allora questa sarebbe pur saputa in modo piú conforme a verità: da occhi piú acuti dei tuoi, infatti, essa potrebbe essere vista in modo piú verace. Tu non la vedi dunque cosí come essa potrebbe essere vista in tutta la sua verità; e la stessa cosa si dica per l'udito e per gli altri sensi. Ma poiché tutto quel che noi sappiamo, non lo sappiamo di quel sapere di cui esso potrebbe esser saputo, cosí esso non nella sua verità viene saputo, ma con qualche differenza e per altra via. Ma con differenze e per altra via, rispetto al modo in cui la stessa verità in sé si trova, essa non può essere saputa. Perciò è fuori di senno chi pretende di conoscere qualcosa secondo verità, quando tuttavia non conosce la verità stessa. E non sarebbe allo stesso modo fuori di senno un cieco che pretendesse di conoscere le differenze dei colori ignorando il colore?

Gent. Quale uomo dunque sa, se nulla può essere saputo?

Crist. Chi si sa ignorante, questi è da ritenersi sapiente; e onora la verità chi sa che senza di essa uno non può afferrare nulla, né l'essere, né la vita, né l'intelligenza.

Gent. Forse è questo che ti ha tratto all'adorazione: il desiderio di essere nella verità.

Crist. Questo, appunto, che dici. Onoro infatti Dio, ma non quello che falsamente i Gentili come te credono di conoscere e cui danno un nome, ma Dio che è la verità ineffabile.

Gent. Io ti chiedo, fratello, qual è la differenza fra voi e noi, se tu presti il tuo culto a un Dio che è [solo] verità, e noi non badiamo a prestare il nostro a [questo] Dio, che non è mai in verità Dio [comunque lo si determini]?

Crist. Ce ne sono molte; ma in ciò sta l'essenziale e massima, che noi onoriamo la stessa assoluta verità, non mescolata, eterna ed ineffabile, e voi invece non la verità stessa onorate, quale è in sé assolutamente, ma come è nelle sue opere; non l'unità per se stessa, ma l'unità nel numero e nella molteplicità; e in ciò voi errate, poiché la verità, che è Dio, non è comunicabile in altro.

Gent. Io ti chiedo, fratello, di rispondermi, se vuoi portarmi al punto di poterti capire, sulla questione del tuo Dio: che cosa sai del Dio che adori?

Crist. So che tutto ciò che so non è Dio, e che tutto ciò che io posso concepire non ha con Lui somiglianza, ma che Egli sta al di sopra.

Gent. Nulla quindi è Dio.

Crist. Egli non è come il nulla, poiché questo stesso nulla ha un nome: quello di nulla.

Gent. Se non è il nulla, allora è qualche cosa.

Crist. E neppure è qualche cosa; infatti qualche cosa non è ogni cosa, e Dio non è invece piuttosto qualche cosa che ogni cosa.

Gent. Cose strane, sono queste che tu affermi, che il Dio che tu adori non sia il nulla e neppure sia qualche cosa; cose che nessuna ragione può comprendere.

Crist. Dio è al di sopra del nulla e del qualcosa, poiché a Lui obbedisce il nulla per diventare qualche cosa. In ciò sta la sua onnipotenza, e per questa potenza in verità Egli trascende tutto ciò che è o non è, in modo che tutto ciò che è, e ciò che non è, Gli obbediscano. Egli infatti fa che il non essere passi nell'essere, e l'essere nel non essere. Egli infatti non è nulla delle cose che stanno sotto di Lui, e avanti alle quali sta la sua onnipotenza. E perciò non può esser detto questo piuttosto che quello, poiché da Lui vengono tutte le cose.

Gent. Non Gli si può dare neppure un nome?

Crist. Piccola cosa è ciò cui si può dare un nome; ciò la cui grandezza non può essere concepita, rimane ineffabile.

Gent. Egli è dunque ineffabile?

Crist. Non è ineffabile, ma piú esprimibile di tutte le cose, essendo la causa di tutte quelle cui si può dare un nome. E come potrebbe essere senza nome quello stesso che ne dà uno alle altre cose?

Gent. Egli è dunque esprimibile ed ineffabile.

Crist. Neppure questo. Infatti Dio non è la radice della contraddizione, ma è la stessa semplicità, anteriormente ad ogni radice. Perciò neppure questo deve esser detto, che Egli sia insieme esprimibile ed ineffabile.

Gent. Che cosa dunque dici di lui?

Crist. Che Egli né ha un nome, né è senza nome; e che neppure Egli ha e non ha insieme, un nome; ma che tutte le cose che si possono dire o alternativamente o congiuntivamente, per concordanza o per contraddizione, non Gli convengono, data la sovraeccedenza della sua infinità, in modo tale che Egli rimane l'unico principio, anteriore ad ogni concetto che ci si possa fare di Lui.

Gent. Cosí allora a Dio non spetterebbe l'essere.

Crist. Appunto.

Gent. Dunque Egli è nulla.

Crist. Non è il nulla, né è vero che non lo sia, e neppure che lo sia e non lo sia insieme; ma Egli è la fonte e l'origine di tutti i princípi dell'essere e del non essere.

Gent. Dio è allora la fonte dei princípi dell'essere e del non essere?

Crist. No.

Gent. Ma l'hai appena detto, questo.

Crist. Ho detto il vero quando l'ho detto, ed ora dico il vero negandolo. Perché, se c'è un qualunque principio dell'essere e del non essere, Dio viene prima di esso. Ma il non essere non ha come principio il non essere, ma l'essere; per essere se stesso infatti il non essere ha bisogno di un principio. Per questa via pertanto il principio del non essere è, poiché senza di esso il non essere non sarebbe.

Gent. Forse che Dio non è la verità?

Crist. No, Egli viene invece prima d'ogni verità.

Gent. Cosí Egli è diverso dalla verità.

Crist. No, perché non Gli può convenire la diversità; ma Egli è prima di tutto ciò che noi intendiamo per verità e cui diamo questo nome; e lo è in modo eccedente, all'infinito.

Gent. Ma forse che non date un nome a Dio, quando lo chiamate Dio?

Crist. Glielo diamo.

Gent. E dite il vero o il falso?

Crist. Né l'una di queste due cose, né tutt'e due. Non diciamo infatti secondo verità che quello sia il suo nome, né diciamo il falso, perché non è falso che quello sia un suo nome. Né diciamo il vero e il falso contemporaneamente, poiché la Sua semplicità sta prima di tutto ciò che può avere un nome, come di tutto ciò che non può averne.

Gent. Perché lo chiamate Dio se ne ignorate il nome?

Crist. Per avere una immagine della perfezione.

Gent. Spiegati, per favore.

Crist. Dio si dice da theoréo, cioè “io vedo”. Infatti Dio è in rapporto a noi quello che è la vista nel dominio del colore. Il colore infatti non può essere colto se non dalla vista, ma affinché questa possa liberamente cogliere ogni colore, il centro visivo è privo di colore. Nel campo del colore non si trova dunque la vista, poiché essa non ha colore. Considerata perciò in rapporto al campo del colore la vista è piuttosto nulla che qualche cosa; infatti il campo del colore non ammette realtà fuori di esso, ma afferma che tutto ciò che è, è nel suo campo, e in questo la vista non si trova. La vista, quindi, esistendo fuori del colore, non ha un nome nell'ambito di questo, dato che nessuno dei nomi dei colori corrisponde ad essa. La vista ha però dato un nome ad ogni colore, riuscendo a distinguerlo. Perciò dipende dalla vista ogni nome che nell'ambito del colore viene dato, ma il suo nome, da cui in quell'ambito viene ogni nome, vi si trova ad essere piú un nulla che qualcosa. E Dio sta quindi a tutte le cose come la vista sta a quelle visibili.

Gent. Mi piace ciò che hai detto, e comprendo chiaramente come nell'ambito di tutte le creature non si trovi Dio, né il suo nome, e che Egli sfugga piuttosto ad ogni concetto; e che non lo si possa affermare come qualcosa, poiché non può trovarsi nell'ambito delle creature, non avendo condizione di creatura. E che nell'ambito dei composti non si trovi se non ciò che è composto. E che tutti i nomi che si proferiscono sono nomi di composti. E benché l'ambito dei composti, ed ogni composto, siano per opera Sua ciò che sono, tuttavia Egli rimane sconosciuto nell'ambito dei composti, non essendo composto.

Crist. Sia dunque benedetto per i secoli il Dio che è nascosto agli occhi di tutti i sapienti del mondo. Amen.

 

(Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1964, vol. VI, pagg. 1093-1098)