CROCE, COME SCEGLIERE IN MANCANZA DI AUTORITA’ RICONOSCIUTE?
Chiunque, conducendo vita operosa, deve piegare altri a suoi collaboratori o è costretto a toglierseli d'accanto perchè d'impaccio all'opera che esercita, ha occasione di osservare quotidianamente, con non poco dispiacere e fastidio e dolore, uomini che sembrano colpiti da paralisi della volontà. Tali esperienze sono così frequenti che egli, quasi senza avvedersene, foggia una serie di tipi psicologici, per mezzo dei quali li viene raccogliendo nelle loro somiglianze e varietà; e, quando incontra nuovi casi, li saluta come vecchie conoscenze, li riporta al vecchio tipo e si regola in conseguenza. Ecco l'uomo fantastico: quante volte non ci siamo dovuti urtare in costui, illuderci dapprima con le sue illusioni, scoprirle tali, illuderci da capo con la speranza, e infine, rinunziare disperati a prenderlo sul serio! - l'uomo dico, che forma facilmente disegni e propositi e, quando li ha formati, quando li ha vagheggiati a parte a parte, quando ne ha più volte discorso come di cose che stanno per passare nella realtà, li lascia cadere tutti, o, al primo conato di attuazione, se li vede prosaicizzati e diminuiti (malinconia), e se ne disgusta, e torna a formare altri disegni e propositi con lo stesso successo o insuccesso che si dica. Ma l'insuccesso, che presto rende noi scettici sul conto suo, non rende mai scettico esso sul conto proprio; tanto è in lui spontanea e irrefrenabile quella germinazione di disegni e di propositi. Ed ecco il perplesso o pauroso, che, a ogni azione da compiere, si trova la mente popolata dai fantasmi delle possibili conseguenze dannose della sua azione, e vorrebbe prendere l'assicurazione contro tutte esse; e, poichè quelle possibilità sono infinite, trascorre di paura in paura, e non si risolve a operare. Ed ecco ancora l'uomo affranto dalle sventure, legato al passato che non torna, inadattabile al presente, inerte innanzi al presente.
Fermiamoci a questi tre tipi. Che cosa manca a tutti costoro? Al primo, si dirà, manca la concretezza, al secondo il coraggio, al terzo il gusto del vivere. Cioè, manca a tutti lo stesso: la forza volitiva, che è concretezza, che è coraggio, che è amore alla vita.
E che cosa hanno in cambio? Non hanno nulla, hanno il nulla; e questo è il male, questa la ragione della loro angoscia.
Certo, ciascuno di essi agita nella fantasia immagini, a mo' di poeta, ed elabora riflessioni e giudizi, a mo' di pensatore. Ma se hanno immagini, sequele o urti di immagini, non hanno l'immagine, se hanno riflessioni e pensieri, non hanno il pensiero. Perciò non provano soddisfazione e gioia, per le quali si richiederebbe appunto la forza che loro manca: la volontà di contemplare o di indagare, la volontà dell'artista o del pensatore. Taluno, infatti, si salva dalla perdizione a questo modo: col dire tacitamente a se stesso, o col fare praticamente come se così si fosse detto: - Sono un pover'uomo, sono un inconcludente, un pauroso, un uomo distrutto dal dolore; - e con l'oggettivare sé innanzi a sé stesso, e analizzarsi da filosofo o e fondersi nella lirica e nella confessione (nella poesia o nell'aprirsi a un cuore amico); e ottiene un lenimento più o meno durevole ai suoi mali, perché entra in una forma di volontà e di attività.
Ma se coloro non scampano in quest'attività del contemplare e del meditare, e se non riescono, d'altra parte, a operare praticamente, - il nulla li vince. La loro agitazione d'animo mette capo alla negazione della vita: al pervertimento, alla follia, al suicidio, alla morte insomma dell'individuo.
Le descrizioni, che ho accennate con rapidi tocchi, sono empiriche, s'intende bene, e perciò ho parlato di "tipi"; ma in questi tipi si vede come in grande (sebbene alquanto alterato pel fatto stesso dell'ingrandimento), l'eterno processo volitivo nelle sue antitesi. Dalla descrizione tipica e dalla sua astrattezza ripassando ora alla realtà concreta, quelli che apparivano fatti distinguibili e separabili da altri fatti, si scoprono come nient'altro che un momento intrinseco a ogni nostro atto volitivo: il momento della fantasticheria, della paura, dell'inerzia, della follia: il momento della passività.
Questo momento io ho chiamato altra volta quello dei desideri, definendo il desiderio come volontà dell'impossibile o (che è lo stesso) volontà impossibile. Il desiderio, che non è più contemplazione o pensiero, non è ancora volontà, anzi sta nel processo volitivo come ciò che non si può e non si deve volere. Non può ridiventare mera contemplazione o pensiero, perché lo spirito ha già percorso quello stadio e non rifà due volte la stessa strada; e intanto non è volontà, perché non accetta le condizioni della volontà, e vuole senza volere. Contraddizione che non ha realtà per sé stante e designa appunto il passaggio dalla teoria alla pratica, ed anzi è questo passaggio stesso.
Nella sfera morale, questo momento antitetico del desiderare è ben noto come la tendenza utilitaria, e perciò egoistica, che fronteggia la forza etica e ne è vinta. Ma anche nella sfera utilitaria esso riappare come la passione antieconomica e dannosa, che è vinta dalla volontà del proprio bene e del proprio piacere.
Qui si affaccia un'obiezione, che verrebbe a contestare la fondatezza della distinzione di una sfera utilitaria. Cioè, si dice: - Come mai, se il momento utilitario è quello del piacere, del "libido", dell'impulso affatto individuale, può dar origine a un'opposizione? Mi piace a, e questo piacere mi trae tutto a sé e non trovo ostacoli, né nella coscienza morale, che, nell'ipotesi, non si è ancora accesa, né in un altro piacere, che, in quanto non è preferito, non esiste.
Senonché, quel che la volizione utilitaria si trova a fronte è appunto la molteplicità dei desideri, la forza centrifuga, che dal volere riconduce senza ricondurre, al contemplare e riflettere, che non contempla né riflette veramente. E questa essa procura di vincere; e perciò con essa si entra nella cerchia dello spirito pratico.
(Croce, Desiderare e volere)