Orbene, se la figura umana supera la forma di ogni altro essere vivente e se la divinità è anch'essa un essere
vivente, il suo aspetto sarà il più bello di tutti; e poi ché, d'altra parte, sappiamo che gli dèi sono infinitamente felici, che
nessuno può essere felice senza la virtù e che questa non può esistere senza la ragione e che la ragione a sua volta non
può aver sede che nell'essere umano, bisogna ammettere che gli dèi hanno aspetto umano.
49. Solo che la loro sostanza non ha un corpo ma una sembianza di corpo, non sangue ma una sembianza di
sangue.
Benché la scoperta di questa verità abbia richiesto, da parte di Epicuro, una tale forza di penetrazione e la loro
presentazione presenti tali sottigliezze da non risultare accessibile al primo venuto, io tuttavia, confidando nella vostra
intelligenza, ne parlo piú brevemente di quanto l'argomento richiederebbe.
Epicuro dunque, che non si limita a vedere con gli occhi dell'anima realtà occulte e recondite, ma ne tratta come
se fossero a portata di mano, sostiene che della sostanza divina noi avremmo una intuizione non sensibile ma mentale:
non ne avremmo cioè una percezione materiale e individuale come di quegli oggetti che egli, per la loro solida
consistenza, chiama steremnia, ma il nostro spirito, intimamente proteso a contemplare con immensa voluttà quelle
serie ininterrotte di immagini affatto simili fra loro che si formano da innumerevoli atomi ed affluiscono presso gli dèi,
giungerebbe ad affermare che cosa propriamente sia un essere felice ed eterno fondandosi proprio su quelle immagini
che si susseguono identiche e ch'egli viene successivamente percependo.
50. La suprema realtà dell'infinito esige uno studio quanto mai approfondito ed attento e in esso e giocoforza
scoprire una perfetta corrispondenza fra gli opposti. Questo principio Epicuro chiama isonomian cioè uniforme
distribuzione. Da esso deriva la conseguenza che, se tanto estesa è la somma degli esseri mortali non minore sarà quella
degli immortali e che se innumerevoli sono le cause distruttive, pure infinite saranno quelle conservatrici.
Voi stoici siete soliti anche chiederci - e mi riferisco a Balbo - in che consista la vita degli dèi e come trascorrono
il loro tempo.
51. Ebbene, essa sarà tale che nulla si possa immaginare di più felice e di più ricco di ogni bene. Un dio è del
tutto inattivo, non è impegnato in alcuna occupazione, non attende ad alcun lavoro, gode della sua saggezza e della sua
virtù, ha la fondata certezza di fruire per sempre di grandissimi ed inestinguibili piaceri.
52. Questo dio potremmo chiamare felice nel vero senso dei termine, non già il vostro che è ciò che di più
sofferente si possa immaginare. Se si accetta infatti la tesi dell'identificazione della divinità coi mondo, nulla v'è di
meno tranquillo di quel continuo ruotare a straordinaria velocità attorno all'asse del cielo senza il benché minimo
arresto: nessun essere è felice se non è tranquillo. Se invece v'è una divinità immanente che regge e governa le cose, che
regola secondo leggi costanti il corso degli astri, l'avvicendarsi delle stagioni e l'ordinato procedere degli eventi che,
tenendo sotto il suo vigile sguardo i mari e le terre, provvede a soddisfare le esigenze vitali dell'umanità, ben faticose e
seccanti saranno le faccende nelle quali si troverà invischiata.
53. Noi, per quanto ci concerne, poniamo la felicità nella serenità dello spirito e nella libertà da ogni impegno.
Colui che ci ammaestrò in tutto il resto ci ha anche insegnato che il mondo si è costituito per opera della natura senza
che fosse necessaria una esecuzione ispirata ad un preciso progetto e con la stessa sicurezza con la quale voi negate che
ciò possa essere avvenuto senza la solerte cura della divinità, egli afferma che assai agevolmente la natura ha creato,
continua a creare e creerà in futuro innumerevoli mondi. Voi invece non riuscite a rendervi ragione di come la natura possa operare ciò senza la guida di una mente direttiva e, allo stesso modo dei poeti tragici, non riuscendo a dare una
soluzione plausibile dello scioglimento del vostro dramma, ricorrete alla divinità
54. Ma certo voi non sentireste la mancanza del suo intervento se riusciste ad intuire la immensa ed infinita
estensione dello spazio in ogni direzione, immergendosi e profondendosi nella quale il nostro spirito può continuare a
percorrerla in ogni senso senza mai trovare un punto al quale arrestarsi. In questa immensità, dunque, che si protende
all'infinito in tutte le possibili dimensioni, si aggira una quantità illimitata di innumerevoli atomi che, sebbene separati
dal vuoto, si uniscono fra loro e, collegandosi l'uno all'altro, costituiscono delle masse continue;
nascono così quelle forme, quelle figure degli oggetti che, a vostro parere, non potrebbero essersi costituite senza
l'ausilio di mantici e di incudini, sí da indurvi a far incombere sul nostro capo un eterno padrone, perenne oggetto di
timore sia di giorno che di notte. Come non temere un dio sempre affaccendato ed occupato che a tutto provvede, che a
tutto pensa, che di tutto si accorge e che ritiene ogni cosa di sua pertinenza?
55. Di qui trasse la sua prima origine quel concetto di necessità fatale che voi chiamate heimarmenen, secondo il
quale affermate che ogni evento trae origine da una realtà eterna e da una serie ininterrotta di cause. Ma quale valore
assegnare ad una filosofia come questa che sostiene che ogni cosa avviene per volere del fato? Sono idee da
vecchierelle, ed ignoranti, per giunta! E non parliamo poi della vostra mantike, o divinazione, per usare un vocabolo
latino! Se vi dessimo ascolto su questo punto ci troveremmo Pervasi da una tale superstizione da sentirci in dovere di
venerare gli aruspici, gli indovini i venditori di oracoli, gli interpreti di sogni.
56. Ma Epicuro ci ha liberati ed affrancati da questi terrori e non siamo più portati a temere degli esseri che, ben
lo sappiamo, né vanno in cerca di affanni per se stessi né ne procurano agli altri e continuiamo a venerare la loro natura
eccelsa e trascendente.
Ma temo che l'entusiasmo mi abbia fatto parlare troppo a lungo; del resto era difficile lasciare a mezzo una
trattazione così vasta ed importante, benché, a dire il vero, mio compito non fosse tanto quello di parlate quanto quello
di ascoltare".
(Cicerone, De natura deorum 48 e seguenti)