La fine della quarta meditazione
è ancora dedicata da Descartes al rapporto fra Dio, che ha fatto il mondo, e
l’esistenza del male. Il filosofo, pur ammettendo che Dio non ha fatto l’uomo
perfetto, giunge a ritenersi ugualmente soddisfatto perché, se l’uomo agisce
con prudenza e con metodo, “non può accadere che s’inganni”.
R. Descartes, Meditazioni
metafisiche, Quarta meditazione
Poiché, in effetti, non è
un’imperfezione in Dio il fatto di avermi concesso la libertà di dare il mio
giudizio o di non darlo su certe cose di cui egli non ha messo una chiara e
distinta conoscenza nel mio intelletto; ma, senza dubbio, è in me
un’imperfezione il fatto che non ne uso bene, e do temerariamente il mio
giudizio su cose che non concepisco se non con oscurità e confusione.
Io vedo, tuttavia, ch’era facile
a Dio di fare in modo che non m’ingannassi mai, pur restando libero e con una
limitata conoscenza: e cioè, bastava ch’egli avesse dato al mio intelletto una
chiara e distinta intelligenza di tutte le cose su cui dovessi per avventura
deliberare; oppure, solamente, che avesse cosí profondamente inciso nella mia
memoria la risoluzione di non giudicare mai di nessuna cosa senza concepirla
chiaramente e distintamente, in modo che non me ne potessi mai dimenticare. Ed
osservo che, in quanto mi consideri come un tutto a sé, come se non ci fossi
che io al mondo, sarei stato molto piú perfetto di quel che non sono, se Dio
m’avesse creato tale da non errare mai. Ma io non posso per questo negare che non
sia, in certo modo, una piú grande perfezione di tutto l’universo il fatto che
invece di essere tutte simili, alcune delle sue parti non sono esenti da
difetto. E non ho nessun diritto di lamentarmi se Dio, avendomi messo al mondo,
non ha voluto mettermi nell’ordine delle cose piú nobili e piú perfette; anzi,
ho ragione di essere contento che, se egli non mi ha dato la facoltà di non
errare in forza del primo mezzo che ho qui sopra dichiarato, e che dipende da
una chiara ed evidente conoscenza di tutte le cose di cui posso deliberare, ha
almeno lasciato in mio potere l’altro mezzo, che è di mantenere fermamente la
risoluzione di non dare mai il mio giudizio su cose la cui verità non mi sia
chiaramente conosciuta. Poiché, sebbene io noti questa debolezza della mia
natura, di non poter fissare continuamente il mio spirito su uno stesso
pensiero, io posso, tuttavia, per mezzo di una meditazione attenta e spesso
reiterata, imprimermela cosí fortemente nella memoria, da non mancar mai di
ricordarmene, tutte le volte che ne avrò bisogno, ed acquistare in questo modo
l’abitudine di non errare. E poiché in ciò sta la piú grande, la principale
perfezione dell’uomo, io credo di non aver guadagnato poco per mezzo di questa
meditazione, avendo scoperto la causa delle falsità e degli errori.
E, certo, non può esservene altra
che quella da me spiegata; perciò tutte le volte che tengo la mia volontà nei
limiti della mia conoscenza, in modo tale che essa non rechi alcun giudizio se
non sulle cose chiaramente e distintamente rappresentate dall’intelletto, non
può accadere che io m’inganni; perché ogni cognizione chiara e distinta è,
senza dubbio, qualcosa di reale e di positivo, e quindi non può trarre la sua
origine dal niente, ma deve necessariamente avere Dio per suo autore, Dio,
dico, che, essendo sovranamente perfetto, non può essere causa di alcun errore;
e, per conseguenza, bisogna concludere che tale cognizione è vera.
Del resto, io non ho solamente
appreso, oggi, ciò che debbo evitare per non piú errare, ma anche ciò che debbo
fare per pervenire alla conoscenza
della verità. Poiché certamente vi perverrò, se fermerò sufficientemente la mia
attenzione su tutte le cose che concepirò perfettamente, separandole da quante
non comprenda se non con confusione ed oscurità. Ed a questo baderò
accuratamente d’ora in avanti.
R. Descartes, Opere,
Laterza, Bari, 1967, vol. I, pagg. 239-240