Volontà e intelletto sono per Descartes doni
di Dio, e quindi costituiscono un bene. La domanda Unde malum? (“Da dove viene il male?”),
che aveva tanto angosciato Agostino, trova in Descartes una risposta: l'errore, e quindi il
male, nasce dal fatto che “la volontà è piú ampia ed estesa dell'intelletto”.
L'errore può essere evitato usando la ragione
per mantenere il giudizio nei limiti di una “chiara e distinta intelligenza di
tutte le cose”. In questa pagina è presente la costante preoccupazione di
Descartes di non attribuire a Dio, creatore del mondo, la responsabilità degli
errori umani.
R. Descartes, Meditazioni
metafisiche, Quarta meditazione
Poiché essa [la volontà] consiste
unicamente in ciò: che noi possiamo fare una cosa o non farla (cioè affermare o
negare, seguire o fuggire); o piuttosto solamente in questo: che, per affermare
o negare, seguire o fuggire le cose che l'intelletto ci propone, noi agiamo in
modo che non ci sentiamo costretti da nessuna forza esteriore. Infatti, affinché
io sia libero, non è necessario che sia indifferente a scegliere l'uno o
l'altro dei due contrari; ma piuttosto, quanto piú inclino verso l'uno, sia che
conosca evidentemente che il bene e il vero vi si trovano, sia che Dio disponga
cosí l'interno del mio pensiero, tanto piú liberamente ne faccio la scelta e
l'abbraccio. E, certo, la grazia divina e la conoscenza naturale, ben lungi dal
diminuire la mia libertà l'aumentano piuttosto, e la fortificano. Di modo che
questa indifferenza che io sento, quando non sono portato verso un lato piú che
verso un altro dal peso di niuna ragione, è il piú basso grado della libertà, e
rende manifesto piuttosto un difetto nella conoscenza, che una perfezione nella
volontà; perché se conoscessi sempre chiaramente ciò che è vero e ciò che è
buono, non sarei mai in difficoltà per deliberare qual giudizio e quale scelta
dovrei fare, e cosí sarei interamente libero, senza mai essere indifferente.
Da tutto ciò riconosco che la
facoltà di volere, che io ho ricevuto da Dio, non è di per se stessa la causa
dei miei errori, perché essa è amplissima e perfettissima nella sua specie; e
neppure la facoltà d'intendere o di concepire: perché, non concependo nulla, se
non per mezzo di questa facoltà, che Dio m'ha dato per concepire, è fuori
dubbio che tutto ciò che concepisco, lo concepisco come conviene, e non è
possibile che in ciò m'inganni. Dunque, donde nascono i miei errori? Da ciò
solo, che la volontà essendo molto piú ampia e piú estesa dell'intelletto, io
non la contengo negli stessi limiti, ma l'estendo anche alle cose che non
intendo, alle quali essendo di per sé indifferente, essa si smarrisce assai
facilmente, e sceglie il male per il bene, o il falso per il vero. E questo fa
sí ch'io m'inganni e che pecchi.
Ora, se io m'astengo dal dare il
mio giudizio sopra una cosa, quando non la concepisco con sufficiente chiarezza
e distinzione, è evidente che del giudizio faccio un ottimo uso, e non sono
ingannato; ma se mi determino a negarla o ad affermarla, allora non mi servo piú
come debbo del mio libero arbitrio; e se affermo ciò che non è vero, è evidente
che m'inganno, e quand'anche m'avvenga di giudicare secondo verità, questo non
accade che per caso, e perciò io erro ugualmente ed uso male del mio libero
arbitrio; perché la luce naturale c'insegna che la conoscenza dell'intelletto
deve sempre precedere la determinazione della volontà. Ed appunto in questo
cattivo uso del libero arbitrio si trova la privazione che costituisce la forma
dell'errore. La privazione, dico, si trova nell'operazione, in quanto essa
procede da me, ma non si trova nella facoltà che ho ricevuto da Dio, e neppure
nell'operazione, in quanto essa dipenda da lui. Perché io non ho certo nessun
motivo di lamentarmi del fatto che Dio non m'ha dato un'intelligenza piú
capace, o una luce naturale maggiore di quella che traggo da lui, poiché, in
effetti, è proprio dell'intelletto finito di non comprendere un'infinità di
cose, e proprio di un intelletto creato di essere finito: ma ho ogni motivo di
ringraziarlo di questo che, non avendomi mai dovuto niente, egli m'ha,
nondimeno, dato tutte le poche perfezioni che sono in me: ben lungi dal
concepire sentimenti cosí ingiusti, come l'immaginarmi che egli m'abbia tolto o
si sia ingiustamente tenuto altre perfezioni che non mi ha dato. Io non ho
neppure motivo di lamentarmi del fatto ch'egli m'ha dato una volontà piú estesa
dell'intelletto, poiché essendo la volontà una sola cosa, ed il suo soggetto
essendo come indivisibile, sembra che la sua natura sia tale, che non si saprebbe
nulla toglierne senza distruggerla; e, certo, piú essa si trova ad esser
grande, piú ho da ringraziare la bontà di colui che me l'ha data. Ed infine, io
non debbo neppure lamentarmi del fatto che Dio concorre con me a formare gli
atti di questa volontà, e cioè i giudizi nei quali m'inganno, poiché quegli
atti sono interamente veri ed assolutamente buoni, in quanto dipendono da Dio;
e vi è, in certo modo, maggior perfezione nella mia natura per il fatto che
posso formarli, che se non lo potessi. Per la privazione, nella quale sola
consiste la ragion formale dell'errore e del peccato, essa non ha bisogno di
nessun concorso di Dio, poiché essa non è una cosa o un essere, e se noi la
riferiamo a Dio come a sua causa, essa non dev'essere chiamata privazione, ma
solo negazione, secondo il significato che si dà a questi nomi nella scuola.
(R. Descartes, Opere,
Laterza, Bari, 1967, vol. I, pagg. 236-238)