DERRIDA, LA CHORA

 

Dopo queste precauzioni e queste ipotesi negative, si comprenderà che noi lasciamo il nome di chora al riparo da qualsiasi traduzione. Una traduzione sembra certamente sempre all'opera, e nella lingua greca e dalla lingua greca alla tal'altra. Non consideriamone sicura alcuna. Pensare e tradurre attraversano qui la stessa esperienza. Se deve essere tentata, una tale esperienza non è soltanto perché si è in pensiero per un vocabolo o un atomo di senso e per tutta una tessitura tropica, non diciamo ancora di un sistema, e per le maniere di approcciare, per nominare, gli elementi di questa “tropica”. Che riguardino il nome stesso di chora (“luogo”, “posto”, “area”, “regione”, “contrada”) o ciò che la tradizione chiama le figure - comparazioni, immagini, metafore - proposte da Timeo stesso (“madre”, “nutrice”, “ricettacolo”, “porta-impronta”), le traduzioni restano prese nei reticolati dell'interpretazione. Esse sono indotte da proiezioni retrospettive, l'anacronismo delle quali può sempre essere sospetto. Questo anacronismo non è necessariamente, né sempre o solamente una debolezza alla quale un'interpretazione vigilante e rigorosa potrebbe sfuggire da parte a parte. Cercheremo di dimostrare che nessuno vi sfugge. Lo stesso Heidegger, che è uno dei pochi a non parlare mai di “metafora”, sembra cedere a questa retrospezione teleologica, contro la quale, altrove, ci mette giustamente in guardia. E tale gesto sembra altamente significativo per l'insieme della sua interrogazione e del suo rapportarsi alla “storia-della-filosofia”.

 

Ciò che è stato or ora detto della retorica, della traduzione o dell'anacronismo teleologico potrebbe far nascere un malinteso. Bisogna dissiparlo senza ritardo. Giammai pretenderemo proporre la parola giusta per chora, né chiamare infine essa stessa al di là di tutti i giri e le circonlocuzioni della retorica, né infine abbordare essa stessa per ciò che sarà stata, fuori da ogni punto di vista, fuori da ogni prospettiva anacronica. Il suo nome non è un nome giusto. È promesso all'incancellabile anche se ciò che esso nomina, chora, non si riduce, soprattutto, al suo nome. La tropica e l'anacronismo sono inevitabili. E tutto ciò che vorremmo mostrare è la struttura che, rendendoli così inevitabili, ne fa altra cosa che accidenti, debolezze o momenti provvisori. Questa legge strutturale sembra non essere stata approcciata come tale da tutta la storia delle interpretazioni del Timeo. Si tratterebbe meglio di una struttura e non di qualche essenza della chora, non avendo la questione dell'essenza più senso a tale riguardo. In che modo, non essendoci essenza, la chora si terrebbe al di là del suo nome? La chora è anacronica, “è” l'anacronia nell'essere o, meglio, l'anacronia dell'essere. Essa anacronizza l'essere.

 

Tutta la storia delle interpretazioni, abbiamo appena detto. Non si esaurirà mai l'immensa letteratura dedicata al Timeo dopo l'Antichità. È fuori questione trattarla qui nel suo insieme. E soprattutto presupporre l'unità o l'omogeneità di questo insieme, la possibilità stessa di totalizzarlo in qualche apprendimento ordinato. Quanto presupponiamo in cambio, si potrebbe ancora chiamare ciò una “ipotesi di lavoro”, è che la presunzione di un tale ordine (riunione, unità, totalità organizzata da un telos) abbia un legame essenziale con l'anacronismo strutturale di cui parlavamo poco fa. Sarebbe l'inevitabile effetto prodotto da qualche cosa come la chora - che non è qualche cosa e che non è come niente, neppure come ciò che essa sarebbe là, al di là del suo nome, se stessa.

 

Ricche, numerose, inesauribili, le interpretazioni informano, insomma, la significazione o il valore di chora. Esse consistono sempre a dare forma ad essa, determinandola, essa che, tuttavia, non può offrirsi o promettersi se non sottraendosi ad ogni determinazione, a tutte le marche o impressioni alle quali noi la diciamo esposta: a tutto ciò che vorremmo darle senza sperare di ricevere niente da essa... Ma quanto avanziamo in questa sede intorno all'interpretazione della chora - del testo di Platone sulla chora - parlando della forma data o ricevuta, di marca o impressione, di conoscenza come informazione, etc., tutto ciò attinge già a quanto il testo stesso dice della chora, al suo dispositivo concettuale ed ermeneutico. Ciò che, per esempio, per l'esempio, avanziamo riguardo alla “chora” nel testo di Platone riproduce o riporta semplicemente, con tutti i suoi schemi, il discorso di Platone circa la chora. Ciò anche in questa stessa frase dove mi sono appena servito della parola schema. Gli schemata sono le figure staccate ed impresse nella chora, le forme che l'informano. Esse ritornano a lei, senza che le appartengano.

 

Delle interpretazioni darebbero, dunque, forma a “chora”, lasciandovi la marca schematica della loro impronta e depositandovi il sedimento del loro apporto. E, tuttavia, “chora” sembra non lasciarsi neanche raggiungere o toccare, ancor meno scalfire, soprattutto sembra non farsi esaurire da questi tipi di traduzione tropica o interpretativa. Non si può neanche dire che essa fornisca loro il supporto d'un substrato o d'una sostanza stabile. Chora non è un soggetto. Non è il soggetto. Né il supporto (subjectile). I tipi ermeneutici non possono informare, non possono dar forma alla chora se non nella misura in cui, inaccessibile, impassibile, “amorfa” (amorphon, 51a) e sempre vergine, di una verginità radicalmente ribelle all'antropomorfismo, essa sembra ricevere questi tipi e dar luogo ad essi. Ma se Timeo impiega il nome di ricettacolo (dechomenon) o luogo (chora), questi nomi non designano un'essenza, l'essere stabile di un eidos, giacche chora non è ne dell'ordine dell' eidos, né dell'ordine delle mimesi, delle immagini dell'eidos, le quali si imprimono in essa - che così non è, non appartiene ai due generi d'essere conosciuti o riconosciuti. Essa non è e questo-non-essere non può che annunciarsi, vale a dire non lasciarsi prendere o concepire, attraverso gli schemi antropomorfici del ricevere o del dare. Chora non è, soprattutto, un supporto o un soggetto che darebbe luogo ricevendo o concependo, anzi lasciandosi concepire. Come negarle questa significazione essenziale di ricettacolo dal momento che questo nome le è stato attribuito da Platone? È difficile. Forse non abbiamo ancora pensato ciò che vuoI dire ricevere, il ricevere da questo ricettacolo, ciò che dice dechomai, dechomenon. Forse è questo di chora che cominceremo ad apprendere- a riceverlo, a ricevere da essa ciò che il suo nome chiama. À riceverlo, se non a comprenderlo, a concepirlo.

 

Si sarà già notato, diciamo ora chora e non, come ha sempre voluto la convenzione, la chora, o ancora, come avremmo potuto farlo per precauzione, la parola, il concetto, la significazione o il valore di “chora”. Ciò per molte ragioni di cui la maggior parte sono senza dubbio già evidenti. L'articolo definito presuppone l' esistenza di una cosa, l'essente chora al quale, attraverso un nome comune, sarebbe facile riferirsi. Ora quanto è detto di chora è che questo nome non designa alcuno dei tipi di essenti conosciuti, riconosciuti o, se si preferisce ancora, ricevuti dal discorso filosofico, cioè dal logos ontologico che fa la legge nel Timeo: chora non è né sensibile, ne intelligibile. C'è chora; ci si può persino interrogare sulla sua physis e sulla sua dynamis, almeno interrogarsi provvisoriamente a loro riguardo, ma ciò che c’è là non è; e noi ritorneremo più lontano su ciò che può dare a pensare questo c’è che d'altronde non dona niente dando luogo o dando a pensare, in cui sarà rischioso vedervi l' equivalente di un es gibt, di questo es gibt che resta senza dubbio implicato in ogni teologia negativa a meno che non 1a chiami sempre, nella sua storia cristiana.

 

Al posto della chora, ci si accontenterà allora di dire prudentemente: la parola, il nome comune, il concetto: la significazione o il valore di chora? Queste precauzioni non basterebbero; esse presuppongono delle distinzioni (parola/concetto, parola-concetto/cosa, senso/referenza, significazione/valore, nome/nominabile, etc.) le quali implicano esse stesse la possibilità, almeno, di un essente determinato, distinto da un altro e di atti che lo prendono di mira, lui o un suo senso, attraverso degli atti di linguaggio, designazioni o segnalazioni. Tutti questi atti fanno appello a generalità, ad un ordine delle molteplicità: genere, specie, individuo, tipo, schema, etc. Ciò che possiamo leggere, sembra, di chora nel Timeo è che “qualche cosa”, che non è una cosa, mette in causa queste presupposizioni e distinzioni: “qualche cosa” non è una cosa e si sottrae a quest'ordine delle molteplicità.

 

[J. Derrida, Il segreto del nome, trad. it. di F. Garritano, Milano, Jaka Book, 1997, pp. 50-54]