La disputa sul libero arbitrio,
che vide Erasmo opporsi a Lutero, favorisce un chiarimento importante sul
problema antropologico. Fra l'antropologia che sta alla base dell'Utopia di More (l'uomo è
naturalmente buono) e quella professata da Lutero (l'uomo è malvagio e
destinato alla dannazione senza l'aiuto della grazia divina) si pone il punto
di vista di Erasmo, il quale, seppur fedele al proprio atteggiamento moderato,
tiene ferma la convinzione che l'uomo sia libero e che sulla libertà si fondi
la sua dignità.
Erasmo, Diatriba de libero
arbitrio
Finora ci siamo limitati a sottolineare i passi della Scrittura
che stabiliscono il libero arbitrio e quelli, invece, che sembrano sopprimerlo
interamente. Ma siccome lo Spirito Santo, che è autore sia degli uni che degli
altri, non può contraddirsi, eccoci costretti, volenti o nolenti, a dar prova
d'una certa misura nelle nostre conclusioni. Peraltro poiché entrambe le
opinioni contrarie si fondano sulla stessa Scrittura, bisogna pur che
questa Sacra Scrittura ciascuno l'abbia esaminata dal suo punto
particolare di vista e che l'abbia letta alla luce dello scopo che persegue.
Alcuni, considerando con interesse particolare la grande
difficoltà che gli uomini provavano per mettersi alla ricerca della pietà e,
d'altra parte, quale grande male sia la disperazione, hanno cercato di porre
rimedio a questi mali; ma sono caduti imprudentemente in un altro errore,
accordando troppo al libero arbitrio. Ma altri autori, stimando che la piú
grande peste della vera pietà è la fiducia dell'uomo nelle proprie forze e nei
propri meriti, giudicando intollerabile l'orgoglio di quelli che si vantano
delle loro buone opere e che giungono fino al punto di venderle a terzi a
misura o a peso, come si vende l'olio e il sapone, nella loro preoccupazione di
evitare questi eccessi, non hanno piú salvato che la metà del libero arbitrio
(contestandogli ogni capacità di produrre un'opera buona) e si sono spinti fino
al punto di giugularlo [sgozzarlo, cioè ucciderlo, eliminarlo] interamente
invocando per ogni cosa l'assoluta necessità.
Questi uomini hanno creduto che fosse assolutamente necessario,
per stabilire l'anima cristiana nella semplice obbedienza, di far dipendere
interamente l'uomo dalla volontà divina, di fargli porre tutta la sua speranza
e la sua fiducia nelle sue promesse, di fargli riconoscere la sua propria
miseria, e per contro di ammirare ed amare l'immensa misericordia di Colui che
ci accorda tanti beni gratuitamente. [...]
Anche a me questa posizione pare estremamente corretta perché si
accorda non solo con le Sacre Scritture, ma con la testimonianza di
quelli che sono veramente morti al mondo nel momento in cui si seppellivano nel
battesimo di Gesú Cristo. [...]
Conclusione certamente pia e favorevole che riconduce al Cristo
ogni gloria ed ogni assicurazione, che ci libera dalla paura degli uomini e dei
demoni e che togliendoci ogni fiducia nel loro aiuto ci rende in pari tempo
forti e coraggiosi in Dio. Ben volentieri accettiamo queste tesi, comprese le
iperboli che esse contengono.
Ma, per contro, quando sento dire che il merito umano è talmente
nullo che tutte le opere, anche quelle della gente per bene, non sono altro che
peccato; che la nostra volontà non può nulla di piú di quel che può l'argilla
nelle mani del vasaio; che tutto ciò che facciamo o vogliamo discende da una
necessità assoluta, il mio spirito prova numerose inquietudini. Innanzi tutto
che ne è di tutti quei testi dove si legge che dei santi, ripieni di buone
opere, hanno osservato la giustizia, hanno camminato diritto davanti a Dio,
senza scartare né a destra né a sinistra, se tutte le azioni delle genti pie,
anche le piú rimarchevoli, sono peccato e solo peccato, senza la misericordia
divina? Vuoi forse dire che colui per il quale il Cristo è morto sarebbe
immerso nell'inferno? Come si potrebbe parlare cosí spesso di ricompensa se non
c'è piú merito? Con quale faccia si oserebbe ancora lodare l'obbedienza di
quelli che si sottomettono agli ordini divini e si oserebbe ancora condannare
la disubbidienza di quelli che non vi si sottomettono? Come siamo noi obbligati
a comparire davanti al giudice supremo se tutto si compie in noi per pura
necessità e non seguendo il nostro libero arbitrio? E c'è ancora un'altra
considerazione da fare.
A che cosa tendono dunque tutti questi avvertimenti, questi
precetti, queste minacce, queste esortazioni, queste innumerevoli domande se
noi non facciamo nulla e se Dio, conformemente alla sua volontà immutevole,
opera tutto in noi, il volere ed il fare? Dio ci ordina di pregare
continuamente, di vegliare, di combattere, di non perdere di vista la
ricompensa della vita eterna. Perché dovrebbe voler essere pregato senza sosta
per ciò che ha già decretato di dare o di non dare, poiché, essendo immutabile,
non può modificare i suoi decreti? [...]
Senza dubbio quando si arriva davanti al mistero dei pensieri
divini si è obbligati ad adorare ciò che non si ha il diritto di scrutare.
Lo spirito umano dirà: “È il Signore; Egli può tutto quello che
vuole e siccome per natura Egli è infinitamente buono, ciò che Egli vuole non
può essere che eccellente”. Si dice pure in modo certamente molto lodevole che
Dio ci incorona dei suoi doni e che vuole che i suoi benefici siano la nostra
ricompensa; che nella Sua bontà gratuita Egli si degna riconoscere a nostro
merito ciò che ha invece operato Lui stesso in noi, in modo che si possa dire
che paghiamo noi in qualche modo il prezzo dell'immortalità. Ma mi domando come
fanno a non contraddirsi quelli che esagerano a tal punto la misericordia di
Dio verso le persone pie da rendere Dio stesso quasi crudele verso le altre
persone. Le orecchie pie non hanno difficoltà, in ogni caso, ad ammettere la
benevolenza di Colui che riconosce come nostri quei beni che in realtà Egli opera
in noi: ma quanto al resto rimane pur sempre difficile spiegarsi come possa
essere giusto (non dico già misericordioso!) condannare alle pene eterne quelli
nei quali Egli non si è degnato di operare il bene, dato che era loro
impossibile fare alcunché di bene non avendo libero arbitrio o, avendolo, non
potendosene servire altro che per peccare. [...]
A mio avviso si poteva
benissimo riconoscere l'esistenza del libero arbitrio pur evitando quella
fiducia eccessiva nei nostri meriti e quegli altri inconvenienti intravisti da
Lutero, senza contare quelli che noi abbiamo piú su segnalato conservando i
principali vantaggi della dottrina luterana. Ciò è rappresentato, ai miei
occhi, da quella dottrina che attribuisce alla grazia il primo impulso che
viene ad eccitare l'anima, pur lasciando alla volontà umana una certa
responsabilità nello svolgimento dell'azione e sempre con l'aiuto della grazia
divina. Ora, siccome nell'azione umana ci sono tre parti: l'inizio, lo
sviluppo, ed il compimento, essi concedono alla grazia i due estremi momenti e
non fanno intervenire il libero arbitrio che nel momento dello sviluppo. Cosí
due cause concorrono alla stessa azione, cioè la grazia divina e la volontà
umana; ma la grazia è la causa principale, la volontà è la causa secondaria che
non può nulla senza la principale mentre questa, cioè la grazia, è
autosufficiente. [...] Si vede pertanto come in virtú di questo accordo l'uomo
dovrebbe fare omaggio intero della sua salvezza alla grazia divina, dato che la
parte che è riservata al libero arbitrio è sí poca cosa e per di piú esso trae
ancora la sua origine dalla stessa grazia di Dio che ha, tanto per cominciare,
creato il libero arbitrio, prima ancora di liberarlo e guarirlo.
Queste sono le ragioni che
hanno condotto quasi tutti gli autori ad ammettere il libero arbitrio; ma il
libero arbitrio resterebbe inefficace senza l'aiuto continuo della grazia di
Dio, il che è appunto ciò che ci impedisce ogni forma di orgoglio. Ma si potrà
ancora dire: a che serve il libero arbitrio se non può far nulla da solo? Mi
limiterò a rispondere: e a che cosa servirebbe l'uomo tutto intero se Dio
agisse con lui come il vasaio con l'argilla o se Dio agisse su di lui come
potrebbe agire su una pietruzza?
(Erasmo da Rotterdam, Il libero
arbitrio, Claudiana, Torino, 1984, pagg. 137-157)