Erasmo espone la tesi della non
riducibilità della religione cristiana agli schemi della ragione e del buon
senso: c'è una radicale differenza fra il vivere da cristiano e il seguire le
regole del mondo.
Erasmo, Elogio della Pazzia,
LXVI
Ma, per non
seguitar all'infinito e per offrirvi il succo della cosa, a parer mio tutta la
religione cristiana ha una specie di parentela con la pazzia e non va punto
d'accordo con la sapienza. Ne volete le prove? Osservate anzitutto che quelli
che piú trovano piacere nelle funzioni sacre e in tutte le cose di religione,
che si strofinano sempre agli altari, sono ragazzi, vecchi, donne, ignoranti. È
madre natura che ve li spinge, si sa; nient'altro. In secondo luogo, vedete
tutti quei primi fondatori di religione: costoro abbracciavano una vita di
straordinaria semplicità ed erano della cultura nemici irriconciliabili. Infine
non si trovano pazzi piú dissennati di coloro che si son lasciati prendere una
volta da ardore di pietà cristiana: eccoli profondere i loro averi, non curarsi
di offese, lasciarsi ingannare, non far differenza fra amici e nemici, aver in
orrore il piacere, ingrassare a forza di digiuni, veglie, lagrime, lavori e
ingiurie, aver in uggia la vita, non bramar che la morte; in una parola son
diventati, pare, assolutamente ottusi ad ogni senso comune, come se il loro
animo vivesse altrove, non dentro il corpo. E questa che cos'altro è se non
pazzia? Non c'è da meravigliarsi se gli Apostoli sembravano briachi di vin
dolce, o se san Paolo parve addirittura al giudice Festo un pazzo.
Ma, poiché
ho indossato ormai la pelle del leone, orsú, facciamo vedere anche questo, che
tutta la sognata felicità dei cristiani, quella felicità cui aspirano con tanti
travagli, non è altro, mi si perdoni la parola, si consideri piuttosto la cosa,
che una specie di pazzia e dissennatezza. Anzitutto, sono all'incirca d'accordo
cristiani e platonici che l'anima umana è immersa nel corpo e ad esso legata
come con una catena, onde la grossolanità del corpo le impedisce di contemplare
il vero e di goderne. Gli è per questo che Platone definisce la filosofia
contemplazione della morte, come quella che allontana la mente dalle cose
visibili e corporee, proprio come fa la morte. Pertanto, finché l'anima usa rettamente
degli organi corporei, è chiamata sana; ma quando, spezzati ormai i suoi
vincoli, tenta di affermarsi in libertà, meditando quasi quasi di fuggire da
quel carcere, allora chiamano ciò insania, follia.
Se invece
la cosa si verifica per zelo religioso, non si può parlare forse dello stesso
genere di pazzia, ma di un altro, cosí vicino al precedente, che gran parte
degli uomini lo giudica pazzia né piú né meno, specialmente allorché degli
omiciattoli, pochi pochini, dissentono per tutto il loro modo di vivere, dal
resto del genere umano. Suole pertanto capitare a costoro nella realtà ciò che,
secondo la fantasia di Platone, succedeva ai prigionieri dell'antro (i quali
vedevano solamente l'ombra delle cose) e a quel fuggiasco che, al suo ritorno
nell'antro, annunciò ai compagni di aver vedute le cose nella realtà e che si
sbagliavano della grossa, essi, a credere che non esistesse altro che quelle
misere ombre. Lui infatti, ormai sapiente, compiange e deplora la loro pazzia,
per esser posseduti da sí grande illusione; gli altri alla loro volta ridono di
lui come di un matto che sragiona e lo cacciano via da loro.
La folla
parimenti, quanto piú le cose sono corporee, tanto piú sgrana gli occhi,
credendo non esista altro che quelle; mentre gli spiriti religiosi le
trascurano quanto piú son vicine al corpo, per lasciarsi rapire completamente
nella contemplazione delle cose invisibili. Gli uomini di mondo dunque mettono
in primo luogo le ricchezze, poi subito dopo le comodità corporali e l'ultimo
posto lo lasciano all'anima, alla cui esistenza peraltro la maggior parte
neppur ci crede, dacché non si vede con gli occhi. Tutt'al contrario, le
persone pie in primo luogo tendono con tutte le forze a Dio, che è l'essere piú
semplice di tutti, e secondariamente si curano di ciò che piú a Dio si
avvicina, cioè dell'anima; cosí trascurano il corpo e sprezzano di cuore il
denaro e lo fuggono come immondizie. O se son costretti a trattare qualcosa di
tal sorte, lo fanno di mal animo e con disdegno: hanno come se non avessero,
posseggono come se non possedessero.
[...] In
tutta la vita l'uomo religioso rifugge da tutto ciò che s'apparenta col corpo,
per lasciarsi rapire verso l'eterno, l'invisibile, lo spirituale. E dunque,
poiché fra le due specie di uomini profondo è il disaccordo in ogni punto, da
ciò nasce che gli uni paiono agli altri dei pazzi. Ma questa parola s'addice
meglio agli uomini religiosi, che alla gente comune, a mio modo di vedere.
(Erasmo da Rotterdam, Elogio
della Pazzia, Einaudi, Torino, 1964, pagg. 131-136)